MALATI DI NIENTE
PERICOLOSO A SE STESSO E AGLI ALTRI
storia di un pubblico scandalo
In realtà uomini chiamati chirurghi del cervello hanno ficcato coltelli nel
cervello di centinaia di migliaia di persone negli ultimi venti anni: persone che probabilmente non
avevano mai usato un coltello contro nessuno.
(R.D.Laing)
Non c'è sentimento più forte della paura per legare insieme le persone e farle partecipare ad un massacro.
Non ha nessuna importanza che essa sia sensata o motivata. Al contrario, più è irrazionale e più riesce
ad unirci e a farci agire.
Esistono persone che ci fanno paura per quello che fanno, altre per quello che riteniamo potrebbero
fare. Gli psichiatri sono fra i primi, i loro pazienti fra i secondi. Fra i due mali preferiamo che gli
psichiatri continuino a fare male ai pazienti, pur di essere sicuri che essi non faranno mai male a noi.
Sappiamo che questo è impossibile per definizione. Un raptus di follia è infatti tale perchè imprevedibile.
Chiunque, in qualunque momento, potrebbe perdere la testa e lanciarsi con la sua auto contro l'ordinato e
indifferente ordine delle cose. Nessuno probabilmente potrà mai impedire che le persone si uccidano o uccidano
per amore o gelosia. Nessuno estiperà mai la passione che ci lega gli uni agli altri o spegnerà il fuoco
che brucia dentro ogni essere umano.
La possibilità di farsi o fare male non è prerogativa di alcun essere umano in particolare, chiunque di noi,
date certe circostanze, può usare il suo corpo e la sua mente per procurare dolore (o piacere) a se stesso o
ad altri. Non esistono persone pericolose, ma situazioni in cui possiamo esserlo.
Si può poi scegliere o essere costretti a diventarlo. E' quello che succede a centinaia di migliaia di esseri
umani che tentano di sfuggire alla loro distruzione fisica e psichica dentro i reparti psichiatrici. Aggrediscono
il personale, si strappano le flebo, rompono porte e finestre, nel disperato tentativo di scappare. Sono pericolosi?
O cercano solo di sopravvivere? La maggior parte di loro non farebbe mai del male a nessuno, nè l'ha mai fatto,
eppure si ritrova prigioniero, controllato a vista e impedito nella sua libertà, come il peggiore dei criminali.
Nessuno di noi accetterebbe di essere trattato come noi trattiamo i matti: eppure tutti riteniamo che
essi dovrebbero essere contenti del trattamento che riserviamo loro. E' fuori di dubbio che una persona a cui
non si dà credito nè ascolto, che non ha voce in capitolo sulle scelte che lo riguardano, che è coattata, a cui
si impedisce di essere e fare ciò in cui crede, che è oggetto di scherno o di pietà, può reagire a questa
situazione alzando la voce o lanciando sassi contro le porte dei vicini. Questi comportamenti non sono sintomi
di alcuna malattia, ma azioni esasperate di un essere umano trattato come fosse una cosa.
Partiamo dal fatto che
Se la nostra esperienza è distrutta, il nostro comportamento sarà distruttivo
(R.D.Laing 1980, La politica dell'esperienza, pag. 25).
E cerchiamo di accettare il fatto che non possiamo aspettarci niente di meglio di una resistenza attiva,
da parte di coloro che vorremmo ridurre a esseri senza volontà e capacità di scegliere. Stupirci nei confronti
della violenza dei pazienti psichiatrici è un atto di pura malafede. Vuol dire tentare di negare l'evidenza
della violenza implicita nel modo in cui ci prendiamo cura di loro. Questa nostra cecità nasce dal fatto che
crediamo fermamente che non possa esistere altra realtà se non quella condivisa. Non siamo diversi da coloro
che mandarono al rogo Giordano Bruno o minacciarono Gallileo. Non siamo diversi dai membri del Tribunale della
Santa Inquisizione. Siamo ancora qui a condannare quanti pensano o vivono in maniera inaccettabile. Ancora qui
a dire che sono posseduti e che solo noi possiamo liberarli. Ancora una volta li liberiamo dal loro corpo, dalla
loro mente e dalla loro vita.
Non giustifico, nè condivido la violenza, dico solo che non è ragionevole trovare insensato che un paziente
involontario assesti un destro ad un vigile urbano o, peggio ancora, dire che non era in sè in quel momento.
Questo voleva fare. Questo probabilmente avrebbe fatto anche il vigile urbano se si fosse trovato al suo posto.
Non capiremo mai tutta la resistenza che i pazienti psichiatrici oppongono alla loro cura, finchè non capiremo
che la cura può essere molto più distruttiva del male che intende curare. Irene forse può tentare di difendersi
dall'assalto dell'Essere Invisibile che la perseguita da quando era solo una bambina, ma niente potrà contro
gli esseri umani ragionevoli e reali che non le credono e che la chiudono in una stanza con il Mostro. L'Essere
potrà anche impedirle di fare una vita normale, ma la psichiatria gliela precluderà per sempre.
I comportamenti non sono sintomi di malattia. La presunta incomprensibilità e imprevedibilità dei comportamenti
dei pazienti psichiatrici, in realtà è solo frutto della nostra incomprensione e del nostro rifiuto di dar
loro il credito e l'aiuto che chiedono. Irene non urlerebbe e non graffierebbe la madre, se lei smettesse
di porgerle quel bicchiere di tranquillanti e cercasse invece di ascoltarla e di tranquillizzarla. Cesare
non tenterebbe di buttar giù la porta del reparto se lo lasciassero uscire. Alessandro non distruggerebbe
l'auto del sindaco se questi provasse ad ascoltarlo e a rispondere alle sue richieste.
La stragrande maggioranza delle insensatezze e della pericolosità che imputiamo ai pazienti psichiatrici,
in realtà va imputata al modo in cui essi vengono trattati. Ciò spiega anche alcune costanti che ci
sembra di poter individuare nel loro comportamento. Un paziente tipico è il risultato di un modo tipico
di trattare le persone così definite. In realtà non c'è alcuna cosa che unisca le vittime psichiatriche,
se non il fatto di esserlo. La psichiatria è l'unica cosa che li unisce, così come unisce gli psichiatri
fra di loro.
A rigore ciò che una persona fa può essere imputato solo a lei, a meno che essa non agisca in nome di un
mandato conferitole da altri. Così di ogni ebreo trucidato nei campi di sterminio risponde il militare che
materialmente preme il grilletto, ma anche colui che dà l'ordine e la società che delega ad essi la
gestione dello sterminio. Analogamente di ogni lobotomia risponde lo psichiatra che l'ha praticata,
ma anche la psichiatria che l'ha teorizzata e la società che ha permesso ciò.
Non si può imputare invece, come usualmente si fa, il gesto disperato e individuale di un uomo alla
follia. Non solo perchè tutti i comportamenti umani sono sensati, ma soprattutto perchè, così facendo,
noi imputiamo quell'atto a tutti coloro che così definiamo. Se una generalizzazione del genere è lecita
nel caso degli psichiatri che agiscono in nome di una ideologia che è loro comune, è irragionevole pensare
che l'assassino di John Lennon possa avere qualcosa in comune con l'uomo che spara e uccide la madre.
Intendo dire che se è lecito, analizzando i fatti, formarsi l'opinione che gli psichiatri siano pericolosi,
non abbiamo nessun elemento oggettivo per dire che lo siano i loro pazienti. Non nego che alcune fra le
persone diagnosticate dalla psichiatria hanno commesso, commettono o commetteranno orrendi delitti.
Affermo soltanto che questi nascono dalla storia, dalle esperienze e dalle relazioni delle persone che
ne sono coinvolte, riguardano loro e non possono essere imputati ad altri.
L'analisi dei fatti ci dice che abbiamo le stesse probabilità di essere uccisi da una persona ritenuta
sana, così come da una diagnosticata malata di mente. La pericolosità, come si vede, non è una caratteristica
propria dei matti, ma degli esseri umani.
Per capire il perchè un'opinione così infondata, come l'idea che i pazienti psichiatrici siano pericolosi,
si sia imposta e mantenuta contro ogni logica e ogni riscontro oggettivo, dobbiamo risalire alla nostra
paura di ciò che crediamo incontrollabile. Ma non solo. Questo concetto è servito, e serve tuttora, a
giustificare l'imposizione coatta dei trattamenti psichiatrici e la stessa esistenza della psichiatria.
Fino a che essa riuscirà a convincerci dell'esistenza di questo nemico invisibile, inquietante e
incontrollabile che è la malattia mentale, riuscirà a farci ingoiare, seppure a malincuore, ogni
assurdità e ogni orrore.
Se non avessimo paura di ciò che potrebbe succedere (di ciò che ci dicono certamente succederà) se smettessimo
di usarle, certamente avremmo abbandonato le pratiche psichiatriche già da diversi decenni. Invece continuiamo
a dare credito ad una scienza che in cento anni ha dimostrato tutto il cinismo, la superficialità, il
disprezzo per l'uomo di cui si può essere capaci.
Il terrore per ciò che un folle può farci, è correlato all'idea che egli non sappia quello che fa.
Così come non diamo ascolto a quanto dice, così non consideriamo reali le sue azioni. Cesare non vuole
stendersi per terra. Carmelo non vuole insultare sua madre. Francesca non vuole staccarsi la flebo.
Sono tutti agiti dalla malattia che fa far loro cose che non vogliono fare.
Questa irresponsabilità, una volta applicata ad una persona, fa sì che essa venga individuata come
qualcuno da cui ci si può aspettare di tutto, anche che si comporti normalmente. Non sono le sue azioni
a parlare per lui, ma il pregiudizio degli altri.
Potrà essere un cittadino modello, ma da lui occorrerà sempre guardarsi. Non gli si dovrà mai voltare le
spalle, come mi suggeriva un operatore esperto di un reparto di psichiatria.
E' chiaro che se crediamo che le azioni di una persona derivino dalla malattia da cui è affetto, allora
penseremo che non c'è nessuna logica in quello che fa e, soprattutto, che niente di quanto possiamo
dire o fare ha influenza o correlazione con quanto accade. Nel tentare di annullare l'azione e il pensiero
dell'altro, noi creiamo i mostri di cui poi affermiamo di aver terrore e di voler controllare.
Spesso si è accusato T.Szasz di voler assolvere con la sua idea circa l'inesistenza della malattia mentale,
i vari mostri che popolano i nostri sogni e la nostra realtà. Niente di più strumentale. Nei fatti è il
concetto di malattia mentale che rende irresponsabili e inimputabili i mostri.
Non essere malati di mente, non significa necessariamente essere buoni o avere ragione. Se si dimostra
che hanno commesso le atrocità di cui li si accusa, essi vanno condannati nello stesso modo con cui condanniamo
gli stragisti, anche se diciamo che sono mossi da una logica, seppur del terrore.
Non riconoscere una logica dietro certi delitti, serve soltanto a non confrontarci con loro, ad allontanarli
e a renderli estranei alla nostra vita. La perizia psichiatrica serve ad evitare di verificare i fatti,
confrontarsi con i moventi, formulare un giudizio. La perizia chiude il processo e, con esso, la possibilità
di capire perchè, a volte, possiamo diventare così pericolosi da attentare alle cose che abbiamo di
più care. Il fatto che la risposta ci faccia paura, non giustifica che sia meglio non vedere o non
capire, perchè è questo atteggiamento che genera i mostri.
Affermare che il mostro di Firenze, ad esempio, non è malato o che il suo comportamento ha un senso,
non significa certo assolverlo. Al contrario. Se non è malato di mente, egli deve rispondere pienamente
dei suoi atti.
La vera remora che abbiamo ad accettare quella che per Szasz è un'evidenza, è il fatto che ritenendo il
mostro di Firenze un criminale come altri, mosso da motivazioni più o meno condivisibili, più o meno
accettabili, lo si renda di fatto troppo simile a noi. Si riconosca cioè la continuità fra noi e il
mostro.
L'imperativo non è condannare il mostro. Quello che vogliamo è che si affermi che solo una mente malata,
anomala, alterata, può pensare e commettere quei crimini.
La storia ci ha dimostrato che non è così. Persone considerate perfettamente normali si sono rivelate,
in certe situazioni, dei mostri altrettanto crudeli e insensati. Succede nelle guerre, è successo nei
manicomi e succede in ogni luogo in cui alcune persone hanno il potere di decidere della vita di altre.
Ma in questa trappola della non imputabilità non cadono solo, come comunemente si pensa, i mostri veri
o presunti che compiono orrendi delitti, ma in buon numero persone che sono accusati di reati come
offesa o resistenza a pubblico ufficiale, delitti contro l'incolumità pubblica, delitti contro la moralità
pubblica e il buon costume... L'essere prosciolti dalle accuse affermando che al momento dei fatti non
si era capaci di intendere e volere, non è un regalo. E' l'inizio di un inferno, se si può, ancora peggiore
del manicomio e del carcere: l'internamento in ospedale psichiatrico giudiziario, ex manicomio criminale.
Il paradosso è che in questa nostra ansia di negare coscienza e volontà alla violenza dei folli, siamo
noi a produrla. Continuando a negarne le ragioni, noi spingiamo le persone a gridare sempre più forte,
a cercare di farsi sentire per non farsi cancellare.
Il modo più sensato di far smettere una persona di essere pericolosa nei confronti dei propri familiari,
ad esempio, potrebbe essere ascoltarne le ragioni e cercare una mediazione fra i suoi bisogni e quelli
degli altri. Nessuno di noi alzerebbe un dito contro qualcuno se non ritenesse di far ciò per difendere
un diritto o difendersi da una minaccia, o se non pensasse di non avere altra strada per farsi ascoltare
e rispettare. Molti diventano violenti anche perchè pensano realmente che non ci sia più niente da fare
e che tanto vale che muoia Sansone con tutti i Filistei. Decisioni drammatiche come queste non nascono
da una mente malata: sono il risultato di una storia di rapporti, violenze, assurdità in cui siamo
coinvolti tutti.
La violenza non sta dentro qualcuno, ma sempre fra di noi.
Giuseppe è stato prosciolto dal reato di tentato omicidio. Ha fatto i suoi anni di manicomio criminale
con l'accusa di aver tentato di uccidere la sorella con un coltello. Il fatto non è in discussione.
Giuseppe ha ammesso di aver colpito la sorella. Afferma che lei lo esasperava, si rifiutava di farlo
uscire dal manicomio in cui era rinchiuso. In quel momento voleva farle del male, voleva che smettesse
di insultarlo, che non lo condannasse ancora una volta a rientrare là dentro.
Cos'è la violenza? Sicuramente il coltello di Giuseppe. Ma che dire della violenza dell'internamento?
Dell'arbitrio con cui si è deciso della sua vita, delle sue relazioni, della sua storia? Chi di noi si
lascerebbe morire in un manicomio senza reagire, senza tentare di uscirne? E come? Pregando, implorando,
strisciando? Fino a che punto si può arrivare prima di decidere di farla finita con noi stessi o con
gli altri?
Anni fa mi ha colpito la storia di un paziente psichiatrico che ha sparato e ha ucciso un infermiere
che si recava a casa sua per ricoverarlo. Qui la follia è data dal fatto che la sua risposta appare
sproporzionata rispetto alla violenza subita. L'infermiere, poi, stava facendo solo il suo dovere. Non
riconosciamo in lui alcuna volontà persecutoria o violenta nei confronti del paziente.
Un'altra delle mistificazioni operate dalla psichiatria è appunto quella di fare della violenza e
dell'abuso oggetto di attività professionale. La stragrande maggioranza degli operatori della salute
mentale appare inconsapevole di ciò che realmente fa, per cui non può che trovare immotivata qualsiasi
resistenza o risposta esasperata dei suoi utenti.
Non conosco il paziente che ha sparato all'infermiere, conosco Giuseppe e ho imparato che le cose non
stanno come ci piace immaginarle. Se mettessimo da parte la malattia e li giudicassimo per quello che
hanno fatto, potremmo forse vedere di quanta violenza è fatta la nostra normalità e, nel condannarli,
potremmo condannare anche noi stessi, la parte che abbiamo, le colpe e i delitti di cui ci macchiamo.
La sorella di Giuseppe o l'infermiere non sono colpevoli, ma non sono neanche innocenti. Nessuno lo è.
Se smettessimo di trovare normale costringere le persone dentro luoghi o in vite che non hanno scelto,
forse cominceremmo a trovare normale ciò che fanno per sfuggire alle nostre cure e alle nostre
attenzioni. Se smettessimo di farlo, forse smetteremmo di essere vittime e carnefici allo stesso tempo.
Nessuno di noi è, infatti, vittima della follia, lo siamo tutti della normalità.