MANUALE DI AUTODIFESA
CONTRO GLI AB/USI PSICHIATRICI
breve guida all'auto-organizzazione
La possibilità di difenderci dalla psichiatria è anche questione di organizzazione. Una volta aver
chiarito a noi stessi il ruolo, la natura e i mezzi della sua violenza, dobbiamo in qualche modo
organizzare una resistenza attiva alle sue pratiche e rilanciare la possibilità di un suo superamento.
Il confronto con la psichiatria va aperto a tutti i livelli in cui opera. Quando pensiamo ad
organizzarci dobbiamo pensare a costituire delle realtà capaci di impedire (o rendere ardui) i
ricoveri coatti, ma anche di smascherare l'inconsistenza scientifica e il valore metaforico delle
malattie e delle terapie psichiatriche. Realtà che assistano legalmente quanti si vogliano opporre
alla loro interdizione legale, ma che servano anche da punto di riferimento e di auto-organizzazione
per quanti vivono una guerra quotidiana, personale e iniqua con la psichiatria.
L'organizzazione di gruppi antipsichiatrici ha un duplice valore. Permette di avere (e di mettere) a
disposizione risorse per quanti vogliano concretamente liberarsi dalla coazione psichiatrica. Incrina
il potere psichiatrico che si fonda sull'assunto della diversità ontologica dei suoi pazienti e
sull'impossibilità di dar loro credito. Costituire gruppi che credono a quanto i pazienti dicono e
cercano di realizzare e comunicare ciò che pensano, aldilà della loro consistenza numerica, è un modo
efficace di mettere in crisi la leggittimità dell'intervento psichiatrico. Sembra ovvio, ma nessuno di
noi può essere sottratto alla sua vita se è (e rimane) significativo per qualcuno, se è riconosciuto e
apprezzato per quello che fa e dice, se è appoggiato, se qualcuno condivide o rispetta i suoi punti di
vista. Se grido da solo in una piazza sono un matto, se lo facciamo in tanti è una manifestazione di
libero pensiero. Torneremo su questo.
Adesso mi preme puntualizzare l'ambiguità implicita in ogni nostra azione a favore, per o con i
cosiddetti pazienti psichiatrici. In genere giochiamo con lo stesso mazzo di carte con cui gioca la
psichiatria, credendo di poterne ribaltare il significato. Ma il mazzo è truccato e noi spesso abbiamo
riaffermato in pratica ciò che, in teoria, negavamo.
E' la storia dell'esperienza basagliana in Italia, ridotta oggi a gestire il nuovo sistema di controllo
psichiatrico delle nostre emozioni e dei nostri comportamenti. Ma anche la storia di quanti, fra chi
ha scelto di fare a meno della psichiatria, si sono lasciati tentare dalla possibilità di costruire
luoghi per rispondere a domande mai poste o di organizzare scuole di pensiero, competenze, specialismi.
Il pregiudizio che si abbia che fare con una categoria di persone caratterizzata dalla presenza nel
loro modo di essere, pensare o comportarsi di qualcosa di irriducibile alla normalità, che hanno
bisogno perciò di relazioni, persone o luoghi specifici adatti a loro, attraversa la storia del nostro
rapporto con le esperienze e le persone non ordinarie. Nessuno ne è esente, pochi ne sono consapevoli.
Non si spiegherebbe se no la sincera veemenza con cui gli psichiatri alternativi lottano contro la
riapertura dei manicomi, pur avendone riprodotto la logica e i fini. Oppure certe affermazioni e
pratiche "antipsichiatriche" che propongono terapie alternative e luoghi terapeutici adatti per
intraprendere il viaggio interiore dentro se stessi.
Sento di lottare ogni giorno contro questo pregiudizio, evitando di pensare e di agire come se
veramente esistesse un noi e un loro. Intanto perchè non riesco a identificarmi con coloro che
condividono la mia percezione della realtà (ivi compresi gli psichiatri), poi perchè non riesco a
intravedere alcuna somiglianza o identità sostanziale nel modo di pensare, di essere o di percepire di
coloro che hanno subito il giudizio psichiatrico. Non esiste una categoria di persone che abbia come
caratteristica la normalità, così come non esiste una categoria di persone che incarni l'antinorma.
La malattia mentale non è una condizione ma una carriera sociale. Due pazienti psichiatrici non sono
più simili fra di loro di quanto lo siano due psichiatri. Le somiglianze nel loro modo di agire e
reagire derivano dalle norme sociali che regolano la loro posizione e i loro rapporti con la realtà
sociale in cui vivono. Alcuni fatti che ci sembrano caratteristici della malattia mentale, sono in
realtà caratteristici del tipo di risposta istituzionale che diamo ai conflitti interumani e alla
peculiarità della teoria e pratica psichiatrica. Quando, ad esempio, ironizziamo che è tipico dei
matti negare di esserlo, ciò può voler dire che c'è qualcosa di sbagliato in questo giudizio. Non è
sensato saltare alla conclusione che l'essere in disaccordo con il proprio psichiatra o la propria
famiglia sia segno di malattia mentale. Diciamo che è tipico o caratteristico degli esseri umani che
non condividono la nostra visione delle cose imputare ciò a qualcosa di diverso dalla nostra volontà e
dalla nostra libera scelta. Non possiamo credere che le persone pensino davvero quello che dicono, non
possiamo accettarlo e, per evitare il penoso compito di negarlo, neghiamo che abbiano potuto dirlo o
pensarlo liberamente.
Rifiutare la diagnosi psichiatrica non è una caratteristica tipica dei malati di mente, ma un istinto
di sopravvivenza innato in ogni essere umano. Paradossalmente sarebbe patologico il contrario.
Credo che dovremmo liberarci dalla necessità di elaborare una teoria omnicomprensiva del modo di
sentire e di essere degli esseri umani. Innanzitutto perchè ciò è probabilmente impossibile, poi
perchè, nel definirli, i sentimenti diventano cose e le persone smettono di essere tali.
Il nostro fine potrebbe essere solo quello di rendere possibili le persone. Astenerci dal definirle,
proteggerle, spiegarle o usarle come prova della nostra normalità. Accettare e riconoscere la leggittimità
del loro modo di pensare e di essere. Cosa fare? Cosa evitare? E come?
Le reti nonpsichiatriche
Uno dei sentimenti più comuni che ci assale di fronte alle immagini dei luoghi psichiatrici, con la
loro violenza e il loro squallore, è che occorra ospitare quegli uomini e quelle donne in luoghi più
umani e decenti. Ci sembra rivoluzionario, ma è lo stesso motivo che mosse gli psichiatri a costruire
i manicomi, per strappare i malati di mente dai lebbrosari, dai carceri e dalla strada. Come in un
gioco di scatole cinesi, liberati da una scatola, ci troviamo prigionieri di un'altra scatola. Luoghi
e spazi sempre più ristretti fino a che il nostro corpo coinciderà con le pareti della scatola. Fino a
che saremo solo scatole vuote riempite dalle idee, dalle scelte, dalle emozioni altrui.
L'idea di creare case particolari dove ospitare le persone, luoghi ad hoc dove permettere che si
divertano, cooperative speciali per farle lavorare... non è una conseguenza di una qualche diversità
propria di quelle persone, ma il tentativo di creare per loro uno statuto speciale per giustificare
l'esistenza degli specialisti che se ne occupano. Passa l'idea che un matto non possa abitare una casa
ordinaria, sostenere i ritmi di un lavoro normale, divertirsi con ciò che usualmente le persone comuni
usano a questo scopo. Il che equivale a dire che chi non sa (o non vuole) abitare una casa, sostenere
il lavoro o divertirsi in maniera ordinaria, può a tutti gli effetti essere definito un matto.
Credo che le nostre organizzazioni nonpsichiatriche debbano evitare di creare luoghi. Evitare in
qualunque modo di duplicare gli spazi di vita individuale e collettiva in cui normalmente viviamo.
L'idea è quella di usare e trasformare la realtà, non di subirne o doppiarne la violenza.
Per fare questo occorre che spostiamo la nostra attenzione dalle vittime ai mandanti, dalla follia
alla normalità, da loro a noi. Nella realtà c'è già tutto quello che ci serve: dobbiamo solo accettare
di usarlo.
Non penso a gruppi che si sostituiscano alla psichiatria nell'ascolto o nella interpretazione di
quanto le persone dicono. O, peggio ancora, che sostituiscano le persone che abbiamo accanto, cercando
di essere la nostra famiglia, il nostro datore di lavoro, il nostro amico... Che ciò accada è altra
cosa. Ha a che fare con la nostra natura umana.
Penso ad un gruppo nonpsichiatrico come una rete di persone e occasioni ordinarie che permettano di
muoversi e comunicare senza fare (o aver) paura. Un gruppo di persone che pratica il confronto attivo
con i comportamenti e le esperienze straordinarie e testimonia la possibilità di uno scambio, di una
tolleranza e di una dialettica fra i possibili mondi della percezione umana.
La possibilità di creare reti di questo tipo non è collegata solo all'assunzione di una posizione
critica rispetto alla psichiatria e neanche all'accettazione della sfida antipsichiatrica. Le reti
nonpsichiatriche sono organismi viventi, fatte di persone con una loro storia, uno status e una
carriera sociale. La possibilità che esse funzionino da ripetitori o amplificatori delle ragioni della
follia, deriva in gran parte dal ruolo e dalla posizione che le persone che le compongono hanno nel
contesto umano e sociale in cui vivono.
Chi non ama il luogo in cui vive e le persone con cui condivide la quotidianità, difficilmente
riuscirà a trasmettere alcunchè di se stesso o di altri. Nessuna emozione passerà attraverso di lui.
Il suo stare dalla parte di chi rischia un ricovero psichiatrico sarà solo un altro elemento che
riguarda il suo modo di essere e il ruolo che ha scelto (o a cui l'hanno obbligato). Il suo impegno
sarà solo un pretesto per rivendicare la sua diversità.
Se prendiamo il caso dell'uomo che urla. Non sempre egli viene lasciato da solo. A volte scatta il
riconoscimento, la solidarietà, la condivisione, aldilà della sensatezza di ciò che egli dice, fa o
vuole. Un gruppo nonpsichiatrico è un modo di allargare la normale alleanza che scatta fra le persone,
anche in aree e rispetto ad esperienze che sono state scacciate fuori dall'ordinaria visione del mondo.
Lì dove la psichiatria impone il silenzio, il gruppo svela, rivela, scopre, realizza il delirio come
una forma di conoscenza del mondo e di sè, come un valore, una verità, anche quando sofferta,
inquietante, impensabile o divina.
Per far ciò la sola cosa che ci serve è il nostro corpo e la nostra mente. Tutto il resto sta già
nella realtà quotidiana: basta usarlo.
Di fronte ad Ivan che abita in un albergo in costruzione, privo di mezzi di sussistenza, così come
da ordini dei suoi superiori non umani, possiamo offrirgli di ospitarlo, chiedere al comune di
fornirgli un alloggio, cercarlo noi stessi, fare colletta, attivare la mensa scolastica o procurargli
dei buoni pasto... trattare con lui come con chiunque si trovi in quella situazione precaria. Anche
l'indifferenza è un sentimento ordinario accettabile, rispetto a chi interpreta questa sua scelta come
frutto di malattia e ritiene, a priori, che il suo bisogno sia quello di smettere di sentire e di
obbedire agli ordini degli esseri con cui comunica, di lasciare la casa in costruzione ed essere
ricoverato in un luogo adatto al suo caso.
Un'azione nonpsichiatrica non sindaca sulle ragioni di Ivan. Propone risposte concrete a domande
esplicite. Se Ivan non accetta di usare le nostre case e il nostro cibo, se non accetta cioè di sedare
le nostre ansie e le nostre paure, rispettiamo le sue ragioni e cerchiamo con lui il modo migliore per
realizzare il suo compito, rivendicando il suo diritto a pensarla come vuole e a fare di sè e della
sua vita ciò che crede più opportuno. Certo può sbagliare e pentirsi di quello che oggi sta scegliendo,
ma chi è immune all'errore e chi non obbedisce ad alcun ordine?
Se Ivan se ne sta al freddo fuori dal nostro controllo e dalla nostra pietà, ci impone un confronto
fra la nostra visione delle cose e la sua. Non uno scontro. Non c'è in Ivan neanche la lontana parvenza
di quella idea ossessiva che sembra muovere noi. Lui non vuole imporre il suo punto di vista, nè vuole
che noi abbandoniamo le nostre sicure e segrete case. Vuole solo poter vivere secondo ciò che sente,
crede o sceglie.
Un gruppo nonpsichiatrico non solo è una rete che gli permette di sopravvivere in una realtà che,
escludendo la sua mente, esclude anche il suo corpo. Un matto si ha paura di servirlo, farlo entrare
in un bar, ospitarlo in pensione, affittargli una casa, dargli in sposa una figlia, assumerlo per un
lavoro, invitarlo ad una festa, sedervisi accanto sul treno, stringergli una mano... Ivan rischia di
essere distrutto a meno che non accetti le cure. Se si cura avrà anche il cibo, qualcuno gli affitterà
una casa e gli offrirà forse anche un lavoro. Deve solo smettere di obbedire alle sue voci e imparare
ad obbedire ai medici. Un gruppo nonpsichiatrico è anche un gruppo di persone che difende con lui la
sua scelta e il suo diritto all'esistenza.
Ho già detto, e non lo ripeterò mai abbastanza, che uno degli strumenti più efficaci che ha la
psichiatria per obbligare le persone alle sue cure è il consenso e la delega che noi le concediamo.
Nessuno potrebbe essere diagnosticato o ricoverato contro la sua volontà se non ci fossero mandanti.
Nessuno psichiatra si occuperebbe di Ivan se nessuno di noi si sentisse disturbato dal suo
comportamento, inquietato dal suo modo di vivere, impaurito da ciò che può fare. Se affrontassimo
questa impasse così come comunemente affrontiamo i conflitti e le divergenze che nascono fra di noi,
non ci sarebbe spazio per la psichiatria. Se dessimo valore, pur non condividendolo, a ciò che Ivan
fa, se ci confrontassimo con lui e gli chiedessimo di spiegare o ci spiegassimo, probabilmente non ne
avremmo più paura e considereremmo sensata la sua scelta (almeno quanto riteniamo sensato abitare un
casa o obbedire alle leggi penali).
Nella mia esperienza (cfr. G.Bucalo 1993, Dietro ogni scemo c'è un villaggio. Itinerari per fare a
meno della psichiatria) il superamento della psichiatria è sempre nato da un farne a meno unilaterale
e senza condizioni. Se non si è disposti ad ascoltare Ivan, non si potrà evitare di ascoltare noi. Il
nostro prendere posizione, non solo rispetto all'eventualità di curare Ivan contro la sua volontà, ma
anche rispetto a come considerare quello che dice, fa o pensa, riporta Ivan ad essere e rimanere un
essere reale, la cui volontà e libertà di scelta non può essere azzerata o aggirata.
Il problema allora non sarà più come convincere Ivan a curarsi, ma come si convive e si interagisce
con lui e le sue scelte.
Le soluzioni a questo quesito sono infinite e riguardano le persone coinvolte. Trovarle non riguarda
il gruppo. Ripeto: l'unica nostra finalità è rendere possibile ciò.
Il Telefono Viola
Da alcuni anni il movimento nonpsichiatrico si è dotato di questo strumento di tutela dei diritti
degli utenti dei servizi psichiatrici. Una linea telefonica che mira a raccogliere le denunce di
abusi psichiatrici e sostenere quanti vogliano intraprendere un'azione legale contro di essi.
L'idea non è originale. Ricalca esperienze analoghe che si sono radicate nel tessuto civile
rappresentando validi strumenti di autotutela collettiva. In campo psichiatrico, tale iniziativa ha
però una valenza culturale rivoluzionaria. Affermare, infatti, che gli utenti psichiatrici abbiano dei
diritti, significa esplicitamente affermare che essi hanno volontà, soggettività e capacità di scelta.
Non parlo di un'opinione, ma di un fatto giuridicamente sancito. Da quasi 20 anni esiste una normativa
che dice che gli accertamenti e i trattamenti psichiatrici sono volontari, riconoscendo così il
diritto ai cittadini di scegliere se diventare pazienti psichiatrici e se accettare di essere trattati
come tali.
Il Telefono Viola nasce per tutelare questi diritti e praticare queste norme.
Per organizzare un telefono viola occorre:
1. costituire il gruppo degli operatori. Si può scegliere di costituire un'associazione legale ma ciò
non è strettamente necessario. Uno statuto legale permette di accedere a finanziamenti pubblici, ma in
quanto a rappresentatività non vi è alcuna differenza con un'associazione di fatto, fondata cioè su un
libero accordo dei soci (cfr. Libero accesso a chiunque nel manicomio di Bisceglie, in Appendici)
2. reperire tutti i riferimenti legislativi che regolano il settore psichiatrico e quello dei diritti
degli utenti dei servizi sanitari, sia nazionale che regionale, sia in campo penale che civile;
3. reperire una sede, meglio se autofinanziata, e installare la linea telefonica con annessa segreteria;
4. contattare e prendere accordi con uno o più avvocati per consulenze legali. Meglio se questi sono
motivati e organici al telefono, magari con un giorno di presenza fisso presso la sede. Il grande
luminare del foro può essere di lustro all'iniziativa, ma ha poco effetto pratico. Consiglio avvocati
anche di poca esperienza ma disponibili ad attivarsi nella ricerca di fonti e norme che possano esserci
utili nella difesa legale dagli abusi psichiatrici;
5. contattare il Giudice Tutelare del territorio in cui si ha sede. Con lui si avrà a che fare spesso.
Egli va informato di ogni atto o richiesta che elaboriamo in favore o per conto dei ricoverati coatti;
6. contattare il Sindaco del Comune in cui si ha sede e concordare con lui (o chi per lui) la
possibilità di accedere alle informazioni riguardanti i T.S.O. da lui firmati. Si può proporre che
essi ci vengano notificati contestualmente alla notifica obbligatoria al Giudice Tutelare;
7. concordare con le autorità sanitarie le modalità di accesso presso i reparti psichiatrici e le
strutture private convenzionate. Non dobbiamo chiedere (nè abbiamo bisogno di) alcuna autorizzazione.
Come cittadini noi siamo già autorizzati ad entrare nelle strutture sanitarie secondo i tempi e le
modalità previste per le visite. Dobbiamo solo concordare i giorni della nostra presenza e
organizzarci per garantire all'interno dei reparti una presenza stabile;
8. elaborare insieme ai legali strumenti di tutela preventivi (Procura, Testamento Psichiatrico...)
avendo cura di coinvolgere o comunque informare il Giudice Tutelare;
9. organizzare dei turni di ascolto diretto e apertura della sede sociale per ricevere segnalazioni e
denunce e funzionare da punto di riferimento per chi ci contatta;
10. organizzare una pubblicizzazione adeguata e costante dell'iniziativa privilegiando il contatto
diretto con gli utenti nei luoghi di cura (ambulatori psichiatrici, case famiglia, reparti...);
Questi solo alcuni dei suggerimenti pratici che mi sento di dare.
Esiste invece una serie di questioni aperte che val la pena affrontare. Prima fra tutte il problema se
usare o meno degli psichiatri come consulenti. Esistono una serie di situazioni, in cui ci si viene a
trovare gestendo un'attività di tutela, che suggeriscono la possibilità di usare psichiatri per tentare
di mitigare o superare una situazione di coazione psichiatrica. Situazioni in cui non abbiamo alcun
appiglio legale per agire. Un esempio per tutti. Gigi si reca al pronto soccorso perchè sente che il
suo stomaco sta per esplodere. I medici che lo accolgono decidono che non si può credere a quello che
dice, che è confuso, delirante e, quindi, malato di mente. Chiamano una consulenza psichiatrica e Gigi
viene ricoverato in T.S.O. presso un reparto psichiatrico. Immaginiamo che, da un punto di vista
formale, tutti i passaggi siano stati rispettati (i medici hanno certificato e motivato la loro
proposta, il Sindaco ha emesso il provvedimento e il Giudice Tutelare l'ha convalidato). Gigi non ha
nessuna possibilità di sottrarsi alle cure se non dimostrare che non era in condizioni di alterazione
tali da essere necessario ricoverarlo. Chi può accertare questo? Solo un altro psichiatra. Accade così
che, nella nostra urgenza di salvare Gigi, usiamo la scienza psichiatrica per tentare di invalidare se
stessa. E invece molto probabilmente la rafforziamo.
Non possiamo sperare di agire in questo campo senza sporcarci le mani con dei compromessi, ma possiamo
evitare di rafforzare il mostro che diciamo di voler neutralizzare. Come? Nell'esempio che ho fatto,
facendo sottoscrivere a Gigi una dichiarazione di accettazione delle cure, magari esplicitando quali
fra le terapie psichiatriche egli ritenga più consone a lui. E' un compromesso, ma fa venir meno uno
dei presupposti fondanti il trattamento sanitario obbligatorio.
Accettare le cure è un compromesso ma soprattutto è un atto di sopravvivenza individuale. Accettare la
consulenza tecnica di uno psichiatra è, al contrario, un rafforzarne, sulle spalle della persona, il
potere e il diritto di decidere della sua esistenza. Nel primo caso la resa è un'accusa della natura
violenta e inumana della psichiatria. Nell'altro si rafforza l'idea che ci sia una psichiatria buona e
una cattiva, una che diagnostica per rinchiudere e una per liberare.
Il pericolo sempre in agguato è che possiamo essere noi a scegliere il compromesso per il bene altrui.
Non siamo delegati per prendere iniziativa sulla pelle degli altri. Dobbiamo rispettare la loro
testarda ostinazione a considerarsi esseri umani e a pretendere di essere trattati come persone,
sempre.
Ci sono un'infinità di altre situazioni in cui la mediazione psichiatrica ci permetterebbe, forse, di
evitare danni ulteriori. Si pensi al proscioglimento per infermità di mente e al manicomio criminale o
all'interdizione civile. Ma in ogni caso credo si debba cercare di trovare strategie che evitino di
confermare la natura del potere psichiatrico. In questo consiste del resto la nostra sfida, nel
trovare strade per fare a meno della psichiatria.
Possono giungerci richieste di aiuto non in linea con quanto pensiamo. Alberto ci può contattare, ad
esempio, dicendo che non vuole assumere farmaci via endovena, ma che li preferisce in pillole,
chiedendo di far valere il suo diritto di scelta nei riguardi dei medici del reparto. Credo che in
questi, come in altri casi, noi dobbiamo tutelare il principio che sia la persona a scegliere ciò che
vuole o non vuole fare o assumere. Uscire dalla logica psichiatrica vuol dire anche smettere di pensare
che una scelta consapevole è solo quella che coincide con le nostre. Non dobbiamo misconoscere che
l'essere in terapia psichiatrica comprime in maniera evidente la libertà di movimento e di pensiero
delle persone, ma non possiamo usare questo fatto per invalidare tutte le opinioni psichiatriche che
gli utenti esprimono.
Il lavoro di tutela si nutre di paradossi di questo genere. Solo il confronto, la ricerca, la verifica
degli errori possono man mano portarci a trovare una via d'uscita all'inferno che abbiamo creato.
Uno dei paradossi più tipici in cui ci troviamo quando cerchiamo di praticare il diritto delle persone
di non essere ricoverate contro la loro volontà o di essere dimesse se lo chiedono, è quello del
ragazzo internato per aver picchiato qualcuno o aver danneggiato beni propri o altrui. Come si fa a
dimetterlo, si argomenta, e mandarlo a casa dove l'aspetta una madre minuta e gracile che subisce le
sue angherie? Dobbiamo rispettare la sua volontà?
Io credo di sì. Credo anzi che chi voglia tentare di costituire un Telefono Viola o un gruppo di tutela
legale, deve scegliere a priori di far valere i diritti sanciti dalla legge di chiunque,
indipendentemente dalla valutazione morale, dal grado di condivisione, dalla simpatia che ci ispira
la persona e il suo comportamento. Esistono tali e tanti pregiudizi, paure, luoghi comuni, che
finiremmo per condividere con gli psichiatri la necessità di tenere sotto controllo le persone.
Nella maggiorparte dei casi, gli psichiatri non abusano dei loro utenti per puro sadismo. Essi
praticano e propagano in buona fede tutta una serie di giudizi e pregiudizi che poi confermano la
necessità di quello che fanno.
Accettare questo a priori è la sola difesa che abbiamo dalla nostra normalità. Non dobbiamo mai pensare
di essere diversi dagli psichiatri. Non dobbiamno mai pensare di non poterlo diventare. L'unico
vaccino che conosco è il rispetto ad oltranza del mondo altrui. Il che non vuol dire necessariamente
condividerlo, ma semplicemente considerarlo reale, come reali sono le parole, i pensieri, le visioni e
i comportamenti che ha.
La difesa legale dei matti è cosa controversa, perchè a differenza di altri soggetti considerati
deboli, su di loro pesa anche il pregiudizio di essere pericolosi per se stessi e per gli altri.
Questa ambiguità rende ogni nostra azione di denuncia precaria, se non dal punto di vista legale,
sicuramente da quello culturale che influenza notevolmente le scelte di chi (autorità giudiziaria,
giudice tutelare...) deve decidere della fondatezza dell'abuso subito e della necessità di punirne i
colpevoli.
Molti abusi vengono giustificati dal fatto che gli operatori hanno agito in stato di necessità, altri
sono invalidati perchè non esistono parametri certi circa ciò che sia la malattia mentale e cosa possa
essere definita una cura, altri vengono coperti dalla constazione che l'irregolarità ha permesso
comunque di assicurare alle cure un soggetto potenzialmente pericoloso... La stragrande maggioranza
delle denunce viene archiviata perchè il paziente psichiatrico non ha alcuna credibilità.
La presenza in reparto, così come la promozione di campagne specifiche su singole strutture o singole
pratiche, serve appunto per creare riscontri che sostengano le ragioni della vittima. Aspettare in
sede le denunce non permette quasi mai, riferendosi spesso a abusi già consumati, di poter attivare
alcuna forma di tutela legale. Occorre prevenire la possibilità di essere coartati ed essere presenti
lì e quando ciò accade.
Nessuna denucia è inutile. Raccogliendo una serie di segnalazioni riguardanti abusi subiti in certi
servizi e da certi operatori, si può comunque aprire un'azione legale basandosi sulle testimonianze
multiple raccolte. Se non è una prova certa, sicuramente una denuncia collettiva ha un suo peso
nell'attivare una verifica giudiziaria dei fatti. (cfr. A. Papuzzi 1977, Portami su quello che canta.
Processo a uno psichiatra)
In atto sono operanti in Italia le seguenti sedi del Telefono Viola o di gruppi di tutela:
Telefono Viola Roma
c/o Libreria Anomalia, via dei Campani 73
06-4467375
Telefono Viola Bologna
piazza di Porta S.Stefano 1
051-342000
Telefono Viola Napoli
via Pasquale Scura 77
081-5510674
Telefono Viola Catania
c/o VI Consiglio di Quartiere, via Sardo 1
095-455060
Telefono Viola Genova
p.zza Embriaci 5 int. 13
010-255797
Telefono Viola Milano
c/o Ambulatorio medico popolare, via dei Transiti 28
02-2846009
Gruppo d'iniziativa nonpsichiatrica Tradate (VA)
c/o Centro Sociale Kinesis ,via Carducci 3
0331-811662
Telefono CCDU Milano
via Bizet 11 Pioltello
02-92140561
Telefono CCDU Catania
095-317495
I gruppi che hanno dato vita a queste esperienze sono molto etereogenei. Li unisce il tentativo di
pensare e praticare il superamento delle pratiche psichiatriche. Esistono contraddizioni e differenze
anche sostanziali nelle strategie dei gruppi. Essi rappresentano in ogni caso quanto di più avanzato
esista in atto sul terreno del riconoscimento dei diritti della follia e del diritto alla follia.
(cfr. anche G.Antonucci, A. Coppola 1995, Il Telefono Viola contro i metodi della psichiatria, e
N.Bermani, appendice allo stesso libro) .
|