INTRODUZIONE
"Lei sta delirando, ecco che si lascia riprendere da quel suo solito delirio, Sig. Artaud, le faccio fare un altro elettroshock'. Come, sto delirando? Sono venuto a dirle che ho qui la prova che gli affatturamenti esistono e le porto dei fatti precisi'. E' falso, Sig. Artaud, non c'é mai stato al mondo un solo affatturamento scientificamente provato, e dato che lei insiste, comincerò sin da domani mattina su di lei la nuova cura di elettroshock' "
(Antonin ARTAUD)
Tenterò di chiarire in questo libro come e perché delle persone, all'apparenza sensate, siano potute giungere alla conclusione, all'apparenza tanto insensata, che non esista una malattia mentale. Questa negazione, che diamo per scontata nei pazienti psichiatrici, ci fa una certa impressione quando è praticata da gente con cui frequentiamo l'università, andiamo a giocare a pallone, insegniamo in una scuola o nuotiamo in una piscina. Passi che lo dicano alcuni psichiatri un po' estrosi: a loro, del resto, è permesso dire ogni sorta di cosa e il contrario di ogni cosa. Ma che davvero qualcuno possa pensare che il barbone solitario che sta gridando nella stazione di Bologna, inveendo contro donne immaginarie, non sia malato ci sembra davvero inaccettabile e frutto anch'esso di malattia mentale.
In realtà il barbone non è malato, ma deve essere malato. Perché? Cambierebbe forse qualcosa a considerarlo, che ne so, innamorato? Ne avremmo meno paura? Lo lasceremmo avvicinare con tranquillità? Certamente no. Innamorato o malato, il rapporto che abbiamo con lui non cambierebbe. E allora a che serve chiamarlo malato? A chi serve?
Certamente non a lui. Serve alla polizia ferroviaria per bloccarlo e per chiamare un'autoambulanza che lo porti in qualche reparto psichiatrico dove lo curino di questa sua malattia del gridare. Chiaramente se fosse solo innamorato, ciò non sarebbe possibile. Prelevare un cittadino che non ha violato alcuna norma penale e limitarne la libertà personale, sarebbe evidentemente un abuso, quando non un reato, se questa persona non fosse stata precedentemente definita come malata e bisognosa di cure.
E' paradossale, ma nessuna delle persone sensate impegnate a trattenere e strattonare il folle fuori dalla stazione, ha il benché minimo dubbio sulla liceità delle sue azioni. Al contrario ritiene questa violenza parte integrante di un processo di aiuto.
Il barbone deve essere malato perché solo così può essere curato.
Ma deve esserlo anche perché non può davvero voler fare quello che fa. Nessuno di noi se la sentirebbe di gridare in quel modo in una stazione. Non ci sembra una questione di coraggio, è semplicemente che non si può, non si deve, non ha senso. Possiamo gridare a squarciagola allo stadio o ai concerti, ma in una stazione si deve stare in silenzio o parlare con un tono adeguato. E poi, non si devono mettere in piazza le proprie questioni personali, la propria rabbia, la propria incapacità a vivere. Siamo considerati normali quanto più sappiamo comportarci nel modo corretto nei posti giusti.
In questa stazione in cui l'uomo grida sono passati assassini, psichiatri che hanno lobotomizzato loro simili, seguaci di Satana e cultori della razza ariana: nessuno di loro è stato fermato, nessuno di loro è mai stato considerato folle. Loro sanno come comportarsi, sanno cosa ci si aspetta da loro, si adeguano, non gridano. Ci siedono accanto e noi facciamo loro un sorriso.
Questa è la normalità. Niente a che vedere con il modo in cui funziona il nostro cervello. Tutto dipende dalla nostra capacità e dalle possibilità concrete che abbiamo di apparire normali. Non importa ciò che succede dietro questa nostra apparenza. Il segreto sta nel vivere normalmente ogni deviazione dalla norma.
Così possiamo portare ad esempio di malattia Alberto, che vuole strappare 10 milioni in piazza, e considerare perfettamente capace di intendere e volere Franco che truffa le vecchine dei soldi della loro pensione. Le azioni che tendono ad accumulare denaro o acquisire potere, sono considerate sensate, anche se possono essere, a volte, moralmente o penalmente condannate. Le azioni contrarie, invece, sono viste come frutto di squilibri mentali.
E' questo un criterio medico o scientifico? O non è piuttosto una scelta di tipo culturale?
Allo stesso modo possiamo beatificare Francesco d'Assisi per la sua scelta di povertà, e rinchiudere Alberto perché tenta di praticarla. Se i contemporanei di Francesco avevano ancora la decenza del dubbio e l'umiltà della loro ignoranza circa ciò che lo aveva trasformato così radicalmente, i familiari e gli amici di Alberto non hanno dubbi: Dio non gli parla, Alberto non vuole fare quello che fa, tutto questo è solo sintomo della sua malattia.
E' certamente possibile che sia così, ma è probabile che non lo sia. Dovremmo mantenere sempre un margine per il dubbio che l'altro abbia ragione, se non vogliamo passare sistematicamente dalla parte del torto. Del resto mi sento di poter affermare, dati alla mano, che il contrario della follia non è mai stata la ragione ma appunto il torto. Ha tragicamente torto chi pensa e pratica ogni sorta di invasione chimica, elettrica o chirurgica, nel corpo e nel cervello di Alberto pensando di farlo smettere di parlare con Dio. E' un torto ancora più grande distruggere la sua credibilità e la sua esistenza definendo le sue idee deliri, le sue percezioni allucinazioni, le sue scelte malattia.
Il comportamento di Alberto può apparirci insensato, e certamente lo è per coloro che gli stanno intorno, ma è una possibilità umana praticata da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Il fatto di essere vista come una scelta di liberazione personale o come una grave malattia mentale dipende esclusivamente dal contesto familiare e microsociale in cui si è inseriti. Mi chiedo, se Alberto, invece di strappare i suoi soldi, li avesse regalati ad uno dei familiari che ora si affrettano a chiamare la polizia psichiatrica per fermarlo, avrebbe iniziato la sua carriera psichiatrica? Forse sì, ma probabilmente no.
E che dire delle migliaia di persone che rinunciano a tutto per entrare a far parte di congregazioni religiose, donando i loro averi alla comunità? Scelta osteggiata senz'altro, incomprensibile per i più, ma non di dominio psichiatrico. Forse Alberto è pazzo per la drammatizzazione che ha fatto della sua scelta? Avesse semplicemente versato i suoi dieci milioni sul conto corrente di qualche associazione umanitaria, ci sarebbe sembrato più sensato o meno malato?
Le vie della psichiatria sono infinite. Si può essere accusati e rinchiusi in manicomio criminale, come è successo ad un esponente dei Verdi, anche con diagnosi di altruismo morboso. Non c'é modo di sfuggire alla nostra cattura e normalizzazione forzata. Ma a chi dovrebbe somigliare Alberto per sembrare sano? Basterebbe che investisse i suoi soldi nel traffico di eroina per non essere più considerato un malato di mente ed acquistare un ruolo sociale attivo e significativo.
Non è un ragionamento paradossale quello che propongo, ma il paradosso in cui viviamo e che chiamiamo normalità. E' forse vero il detto che dice che chi non perde la testa in certe situazioni, probabilmente non ha una testa da perdere. Questa è la situazione che interessa la maggiorparte delle persone fra noi che si considerano o sono considerate sane di mente.
L'incoscienza è una condizione tipica della normalità più di quanto non lo sia della follia. Come spiegare se no il fatto che i sensati familiari e amici di Alberto, sempre pronti a rilevare ogni suo deragliamento dalla logica corrente, per anni non abbiano visto l'insensatezza delle pratiche terapeutiche a cui veniva sottoposto. Per decenni abbiamo permesso che i nostri cari fossero legati sui tavoli e mandati in coma con l'insulina senza battere ciglio, totalmente incoscienti del fatto di votarli a sicura morte civile, se non fisica, dentro i manicomi.
L'incoscienza è ciò che guida la nostra vita sensata nel mondo. Se fossimo sempre coscienti della nostra morte, ad esempio, troveremmo ancora sensato costruire case, accumulare ricchezze, leggere o scrivere libri? Tutto questo nostro normale darci da fare non è forse un enorme gioco per distrarci dal fatto che dobbiamo morire? Cosa ne sarebbe delle nostre regole, delle nostre leggi, della nostra morale, se fossimo coscienti di essere inevitabilmente votati a finire?
L'incoscienza ci salva dalla disgregazione personale e sociale: per questo, forse, reagiamo con tutta questa insensata violenza nei confronti di Alberto. In qualche modo sentiamo che seguirlo nel suo ragionamento ci espone al rischio di perdere noi stessi, la nostra identità sociale, il senso del nostro stare al mondo.
In realtà nessuno di noi riuscirebbe a trovar il benché minimo valido motivo per convincerlo che è insensato distruggere i propri risparmi piuttosto che accumularli. Così come non troverebbe alcuna argomentazione sensata per convincere Nino che è normale ciò che io sto facendo e, cioè, scrivere di lui al riparo di queste quattro mura, e anormale andarsene in giro, come fa lui, ad inseguire l'Aquila. Non solo. Rischierebbe che Alberto o Nino lo convincano a lasciar perdere le sue sicurezze e a seguirli.
A differenza che in Francesco d'Assisi, né in Alberto, né in Nino, c'é alcuna velleità a metterci in discussione o a trasformare la nostra vita. Il pericolo che loro rappresentano non è frutto di un attacco cosciente all'ordine mentale e sociale in cui viviamo. E' la loro stessa esistenza che mette in pericolo quell'ordine: che chiede che esso venga ridiscusso. Un po' come la presenza degli extracomunitari ci spinge a trovare nuovi equilibri, identità e regole di convivenza.
La normalità è incoscienza. La stessa normalità e la stessa incoscienza che avevo impressa nella mente e nel corpo la mattina di 15 anni fa in cui lasciai la mia prima orma invisibile in un manicomio.
Posso ancora sentire il clamore dei miei pensieri. Pensieri, parole e omissioni, che da allora ritrovo nelle centinaia di persone che ho incontrato e che chiedono, criticano, si confrontano, insultano e si disperano con me. Non ero diverso da loro. Non ero diverso dai familiari di Alberto, non ero meno incosciente, e, certamente, non avrei saputo fare di meglio. Il mio immaginario non era meno confuso del loro, le mie paure non erano meno intense delle loro, i miei pregiudizi non mi rendevano meno cieco di loro.
Ero dissociato. La mia mente afferrava pienamente l'insensatezza di affidare ad alcuni (gli psichiatri) il dovere e il potere di definire e controllare i nostri pensieri, le nostre scelte e i nostri comportamenti. Sentivo in ciò il rischio concreto di un totale e cieco arbitrio da parte della psichiatria. Sapevo che un manicomio è l'ultimo posto in cui un uomo, qualsiasi cosa sia successa nel o del suo cervello, può trovare conforto. Credevo che una persona, anche contro tutte le apparenze, è sempre viva e cosciente di ogni cosa gli accade.
Allo stesso tempo non riuscivo a staccarmi di dosso la paura di ciò che quegli uomini e quelle donne, una volta liberi dai legacci o aperte le porte avrebbero potuto fare di loro e di me. Mi ripugnava l'idea che esseri umani potessero finire i loro giorni in luoghi come questi ma, pensavo, se c'erano qualche motivo ci doveva pur essere. Il trattamento era certo sbagliato ma quegli uomini e quelle donne erano sicuramente fuori di sé e andavano condotti alla ragione, con dolcezza e buon senso certo, ma andavano fatti ragionare. Non so cosa era successo loro, e probabilmente non mi interessava saperlo, mi bastava trovare un modo per convincerli dell'insensatezza delle loro affermazioni e, quindi, per fare in modo che accettassero la realtà.
Non c'era in me, o almeno io non lo vedevo, alcun intento terapeutico o educativo: molto più semplicemente vedevo in questa loro diversità la causa della loro sofferenza e del loro internamento. Se avessero smesso di dire le cose che dicevano o di fare le cose che facevano, allora sarebbero sembrate guarite e avrebbero potuto lasciare il manicomio e riprendere in mano la loro vita. Non pretendevo che smettessero di credere nelle cose straordinarie in cui credevano, ma solo che fossero così occupati (o si facessero così furbi) da smetterne di parlarne in pubblico e comunque davanti agli psichiatri.
Come altri anch'io sentivo la violenza implicita nell'addormentare le persone con gli psicofarmaci, nell'impedire loro di alzare la voce e nel renderli docili e ubbidienti anche di fronte alle regole più assurde e degradanti. Sentivo che non era una cura, constatavo che aldilà del cerimoniale medico, il fine che ogni somministrazione intendeva raggiungere non era guarire una qualche affezione, ma far smettere di sragionare il matto di turno. In fondo i medici usavano una scorciatoia, certo più inquinante e dannosa, per raggiungere lo stesso mio fine. Se quello che mi appariva come un problema (il pensare, parlare e comportarsi in modo non reale), veniva chiamato malattia dagli psichiatri, ecco che il confronto dialettico che io cercavo col folle, sicuro di riuscire a dimostrargli la realtà della realtà, poteva essere sostituito efficacemente dalla somministrazione di droghe che curavano nel momento stesso che impedivano alla persona di comportarsi in maniera bizzarra o lo riportavano coi piedi per terra.
Sentivo in questa scorciatoia un che di tragico e inumano, ma non sapevo pensare ad altro se non 'sta meglio' di Giovanni che non mi parlava più del fuoco che lo divorava dall'interno. Dopo la cura appropriata Giovanni smetteva di condurmi in discorsi dove non avevo terreno su cui poggiare i miei ragionamenti e i miei schemi logici, confondendomi oltre ogni misura. Mi inquietava di meno, potevamo finalmente intavolare lunghissime e interminabili discussioni razionali sulla realtà dei suoi cinquantanni, del suo peso e dei miei capelli. Non dovevo più sdraiarmi per terra con lui, nel tentativo disperato di non lasciarlo punire dagli infermieri, mentre misurava a palmi la sala d'aspetto del reparto. E, cosa più importante, loro non erano più costretti a legarlo al termosifone per impedirgli ogni tipo di stranezze.
In realtà trovavo più accettabile che Giovanni fosse legato dal di dentro piuttosto che dover subire impotente il fatto di vederlo legato come un cane. Il mio bisogno di incoscienza era soddisfatto così e, del resto, per quanto mi sforzassi non ero riuscito mai a dissuadere Giovanni da nessuno dei suoi propositi.
Quel giorno, distesi per terra, osservando da quell'angolazione gli infermieri che ci guardavano curiosi e osservandomi coi loro occhi, mi aveva preso una strana inquietudine che non sapevo spiegarmi. La mia normalità era fuori discussione. Ciò che per Giovanni sembrava essere un fatto stramaledettamente serio e importante, per me era un gioco, qualcosa a metà fra l'accondiscendere e lo scendere strategicamente al suo livello per apparirgli più vicino. Molti nei secoli hanno giocato questo gioco. Qualcuno non si è più alzato. Io fra questi.
Non è possibile spiegare quello che ho visto quel giorno. Ma è come se il velo che copriva la mia coscienza si fosse sguarciato e dalla nebbia ecco apparire il mio volto, il mio corpo, la mia identità. Ero lì, in piedi, accanto agli infermieri a giudicare, ridacchiare, guardare pietoso quella scena.
Non avrei accettato mai che qualcuno si prendesse gioco dei miei sentimenti e di ciò che avevo di più caro. Non avrei mai accettato i consigli e i suggerimenti di gente che disprezzavo o che mi teneva prigioniera. Non mi sarei mai piegato a rinunciare o negare le mie convinzioni. Non avrei mai permesso a nessuno di privarmi della mia libertà. Non sarei mai sceso a compromessi coi miei carcerieri neanche per aver salva la vita.
Era questo che muoveva l'insensata resistenza di Giovanni. Era questa familiarità che sentivo fra la sua lotta e la mia. Per la prima volta, ma mi succede ancora adesso quando entro in un reparto o in una struttura psichiatrica, sentii quale crimine contro la mia e altrui umanità possa essere, a volte, l'essere o il sentirmi normale. Capii, e questa consapevolezza non mi ha mai abbandonato, che avevo più cose di cui vergognarmi nella mia normalità di quante non ne avesse Giovanni in cinquantanni di autentica vita da folle. Se non altro perché lui non aveva mai mascherato i suoi sentimenti e le sue intenzioni, non aveva mai tentato di cambiare la mia vita, non aveva mai provato a convincermi, né gli era mai sfiorato l'idea di obbligarmi a misurare la mia libertà a palmi.
Non so se Giovanni mi abbia mai disprezzato. So che io lo avrei fatto al suo posto.
Non so se a chi legge sia mai capitato di far visita a qualcuno in un reparto psichiatrico. Vorrei che provasse a rivedere ogni scena con gli occhi di chi vi è internato. Provate ad immaginare di essere il ragazzo magro, intontito, che vi assale alla ricerca di una sigaretta. Provate a sentire su di voi l'impatto tremendo, lacerante della vostra espressione di paura o di disgusto, il vostro ritrarvi, il vostro tirare diritti. Provate ad immaginarvi in fondo al corridoio, oppure costretti in un letto, vedere aprire e chiudere la porta del reparto e non poter chiedere aiuto, oppure farlo e sentire che la voce non esce o nessuno ti sente o ti capisce. Provate a sentire le voci gentili dei visitatori mentre si scambiano cortesie con l'infermiere che ieri vi ha legato o costretto a inghiottire con la forza le medicine. Provate a sentire l'odore di libertà e normalità che emana da quei vestiti, la sicurezza del passo, i sorrisi che si scambiano. Provate a immaginare la disperazione nel sentirvi dire che dovete rimanere la dentro ancora un altro giorno. Cos'é in fondo un altro giorno... per noi che ci chiudiamo la porta alle spalle? Un niente. Forse, ma proviamo a pensare come ci si possa sentire a restare un altro giorno, anche uno solo, all'inferno, soprattutto se sai che non è detto, non è scritto da nessuna parte, non c'é nessuno obbligo per i medici di farti uscire domani.
La psichiatria ci ha abituati ad ogni sorta di crudeltà. Sappiamo che nei manicomi le persone venivano tenute legate ai letti o alle inferriate per mesi. Ricordo che Nino mi raccontò di essere rimasto solo tre giorni legato per punizione. Solo tre giorni pensai, poco male, ti è andata bene. Nino ha imparato in manicomio a non sprecare parole e spesso mi risparmia l'esperienza di capire quanto possa essere crudele la mia normalità. Quel giorno disse solo: "Tre giorni sono un'eternità" . Non ci fu bisogno di aggiungere altro.
Non rimasi a lungo su quel pavimento. A un certo punto la mia dissociazione si fece insopportabile. Avevo bisogno di rientrare nel mio stato ordinario di incoscienza e ricompormi. Sentivo che la mia sensatezza e lucidità erano più utili in quel momento per Giovanni, di qualsiasi mio creativo e liberatorio colpo di testa. Non posso dire se questa fosse la motivazione autentica che mi muoveva o non fosse, più semplicemente, un modo per accettare la mia mancanza di coraggio, fatto sta che diedi la mano a Giovanni e lui, per la prima volta, la seguì fino alla posizione eretta.
Cos'é che fino a quel punto mi aveva fatto misconoscere che fra me, Giovanni e le centinaia di altre persone imprigionate in quell'inferno c'erano somiglianze oltre che differenze? Cos'é che aveva potuto rendermi così cieco da non capire che Giovanni stava solo difendendo le sue idee, la sua vita, la sua libertà, da un attacco e da un aiuto che non aveva richiesto? Cos'é che mi aveva mai potuto convincere che ci fosse una differenza fra ciò che avevano fatto i tribunali della Santa Inquisizione con le streghe o i Romani coi primi cristiani, da quello che veniva fatto in quel luogo? Non era tanto il fatto che avrei dovuto capire che tutte e tre fossero chiaramente forme di persecuzione ai danni di esseri umani non consenzienti, quanto piuttosto il fatto che non avevo capito come questa persecuzione non fosse considerata tale in nessuno dei tre casi da chi la praticava e come avesse un unico e identico scopo: far ritrattare a ciascuno le proprie idee, credenze o pratiche, considerate illegali, immorali, blasfeme, demoniache o...malate.
Ecco. Ogni volta che tentavo di dialogare con gli infermieri o gli operatori del reparto per tentare di far intravedere le ragioni di Giovanni, loro mi guardavano come chi sta perdendo tempo dietro fantasticherie e filosofie utopiche. Sembrava un paradosso, ma quegli uomini e quelle donne non l'avevano mai ascoltato: solo guardato a vista. Erano capaci di elencarmi tutte le infrazioni all'ordinato vivere del reparto, anche lontane negli anni, ma non sembrava che avessero mai seguito uno solo dei suoi discorsi o ascoltata una sola delle sue lamentele o richieste. Essi guardavano le sue parole o i suoi pensieri come stavano a guardia delle sue azioni. Guardavano solo se quelle parole e quei pensieri andavano inserite nel gruppo dei sintomi della categoria del miglioramento o del peggioramento. Cosa dicesse, a chi e perché, sembrava non interessarli.
Del resto gli psichiatri pretendono di curare una malattia: e si sa le malattie non guariscono con la conversazione. Sono malattie nella misura in cui sembrano non subire l'influenza decisiva dell'ambiente esterno. Così in psichiatria, contro ogni evidenza, si nega che queste influenze esistano, per affermare che ci si trova di fronte ad una malattia. L'esistenza della malattia mentale, così come l'individuazione dei malati, è una semplice dichiarazione verbale, un atto di fede e non una realtà scientifica. Alcune persone sono convinte in assoluta buona fede che ogni nostra deviazione dalle norme comportamentali e dall'ordine mentale che definiamo di volta in volta normale, sia frutto diretto di cambiamenti biochimici che avvengono nel nostro cervello. Se Giovanni non fosse malato, se il suo cervello funzionasse normalmente, egli non si opporrebbe al fatto di rimanere chiuso nel reparto psichiatrico. Ma chi fra di noi, che ci autodefiniamo sani di mente, lo accetterebbe? Nessuno. Allora perché non considerare il rifiuto delle cure come un sintomo di sanità piuttosto che di follia?
Del resto se si dà una breve occhiata alle cure che i pazienti psichiatrici hanno fin qui insensatamente rifiutate, come possiamo non essere d'accordo con loro? Chi di noi si sarebbe fatto tranquillamente legare ad una ruota e girare vorticosamente; chi avrebbe subito frequenti e improvvise docce fredde; chi si sarebbe sentito curato da un'iniezione infetta di malaria; chi avrebbe visto nella castrazione un rimedio medico alla tremenda deviazione mentale costituita dalla masturbazione; chi avrebbe acconsentito alla 'terapia di annientamento' con elettroshock, come opportunamente la chiamavano i suoi stessi fautori, per riaversi da un insensato desiderio di morire; chi avrebbe chiamato cura l'asportazione o la distruzione chirurgica di parte del suo cervello? Forse nessuno di noi. Gli psichiatri invece hanno chiamato tutto questo terapia e la corporazione medica internazionale ha sancito il valore di questa loro ricerca con il nobel al dr. Egas MONIZ, sperimentatore della lobotomia.
La malattia mentale, in breve, era (ed è) ciò che accecava quegli uomini e quelle donne all'apparenza umani, trasformati in aguzzini e carcerieri dei propri simili, nella più totale incoscienza. La stessa cosa accecava me. Non vedevo Giovanni come un uomo che parlava, ma come uno malato che delirava. Le cose che diceva mi sembravano importanti soltanto nella misura in cui mi indicavano se stesse cambiando idea o meno. Non erano parole ma cose. Se si versava un secchio d'acqua gelata sopra il capo per spegnere il fuoco che lo stava divorando, non sentivo il dolore, l'angoscia, la sofferenza che lo attraversavano. Cercavo di spiegargli che non c'era alcun fuoco e che quell'acqua reale non avrebbe potuto spegnere quella che era solo una sua allucinazione. Facevo, forse per l'ultima volta, l'errore (e l'orrore) di non capire che non esistono percezioni reali e allucinatorie: tutte le nostre percezioni sono costruzioni dei nostri sensi. Che ci sia o meno il fuoco che vedo (ovvero che altri lo vedano o meno), io sto bruciando davvero in entrambi i casi. L'unica cosa che paradossalmente intuivo, è il fatto che con tutta probabilità non si può spegnere alcun incendio del tipo che divorava Giovanni con l'acqua gelata dei rubinetti di qualsiasi manicomio o reparto psichiatrico del mondo, così come non si possono far arrestare dalla polizia le persone che ci parlano dai muri o dagli elettrodomestici, né chiudere fuori dalla porta un angelo. Le porte, l'acqua dei rubinetti, la polizia, le manette, i muri sono costruzioni collettive e condivise che stanno cioè su uno stesso piano di realtà. Il fuoco di Giovanni, come le voci o l'angelo stanno, con tutta probabilità, su un altro piano, costruito dai nostri sensi e, quindi, reale, ma non condiviso. Tornerò su questo.
Se tutto ciò di cui ero capace era questa tragica e cieca incomprensione, a Giovanni gli esperti riservavano un trattamento ancora più insensato. Lui, arso da quel fuoco invisibile, veniva legato al termosifone. Ed era già una fortuna che non avessero pensato, come in passato, di vincere il fuoco con il fuoco, il terrore con altro terrore, provocandogli degli eccessi febbrili o attraversandolo con l'elettricità.
Legato a quel termosifone, Giovanni ci divertiva con i suoi giochi di parole. Gli infermieri erano in realtà gli infermi di ieri, oggi promossi a ruolo di carcerieri.
Ma il suo capolavoro di critica all'istituzione, alla barbarie, alla stupidità di tutti noi, era quando ripeteva ossessivamente, rivolto all'assistente sociale del reparto: "Signora Leonardi! Signora Leonardi!" Dava a quella donna sfuggente il suo cognome, sembrava implorarla. Lei sorrideva e commentava il fatto come un sintomo chiaro di delirio sessuale. Sicuramente quell'uomo credeva o desiderava che lei fosse sua moglie e, per fortuna, era sotto controllo.
E del resto sembrava proprio così. Ad essere sincero non riuscivo a capire, e mi sembrava paradossale quel suo modo di fare. Non riuscivo a sentire le sue parole, non ero in grado di ascoltarle.
Letizia, che con me in quei giorni esplorava quel mondo impossibile e che forse era l'unico essere umano che si aggirava in quei paraggi, un giorno scosse la mia sordità. Mi disse ascolta, senti che dice Giovanni. Lui come per venirmi incontro cominciò a scandire: "Signora Leonardi! Signora Leonardi!". Improvvisamente afferrai il mistero. Smisi per un attimo il tentativo di interpretare o di cercare le prove della sua follia in ciò che diceva, e ascoltai. Presto tutto divenne chiaro. Non sragionava, né rappresentava verità interiori o desideri inconfessabili, semplicemente denunciava: "S'ignora Leonardi! Si ignora Leonardi!"
Credevo di stare dalla parte della ragione, e invece mi ero messo di nuovo dalla parte del torto.
Fra le tecniche di resistenza attiva alla violenza psichiatrica, la parola è quella che tocca di più il cuore del problema. Si può dire che gli psichiatri temono di più quello che una persona può dire, piuttosto che quello che può fare. E' se si vuole l'esatto contrario di ciò che avviene nella vita sociale. Ognuno di noi, credo, sarebbe disposto anche a lasciar vivere e a riconoscere il diritto delle persone a costruirsi la vita che vogliono, a credere nelle cose più strambe e a vestirsi come gli pare, se queste stessero al loro posto e non invadessero il nostro spazio vitale. Se non per una cosciente tolleranza e solidarietà, quantomeno per una sana e chiara indifferenza. Se non mettessero in pericolo la nostra incolumità fisica, la nostra serenità mentale o i nostri beni, molto probabilmente non muoveremmo un dito per tentare di curarli, li lasceremmo a loro stessi facendo forse l'unica cosa sensata che va fatta quando non riusciamo, non vogliamo o non ci interessa comprendere qualcuno.
E' quello che Giovanni ha fatto (o che gli altri temevano potesse fare) ad aver convinto i suoi a chiamare la polizia psichiatrica e internarlo. E' quello che dice però che determina il fatto che venga rimesso in libertà. Se accetta di sentirsi e di essere malato e di avere, di conseguenza, bisogno di quelle cure, egli verrà giudicato migliorato e potrà sperare in una sua dimissione in libertà vigilata. Se insiste a ritenere arbitraria la sua carcerazione e a rivendicare il suo diritto alla libera comunicazione e al movimento, le sue condizioni verranno definite gravi ed egli verrà sottoposto ad un inasprimento delle misure restrittive.
Il dr. Mandalari, psichiatra e primo direttore del manicomio di Messina, già nei primi anni del '900, vantava una media di guarigioni del 40%. Le terapie sperimentate in quegli anni andavano dall'applicazione di sanguisughe all'inoculazione della malaria, dall'isolamento alla camicia di forza, dalla castrazione all'asportazione delle ovaie, e ad altre torture del genere. Il 40% delle sue vittime guarivano e non tornavano più per un altro ciclo di terapie. Credo che percentuali del genere siano simili alle percentuali di quanti, fra coloro che sono stati vittime della tortura, in diverse epoche storiche e sotto ogni forma di regime totalitario, hanno tradito se stessi, rinnegato le loro idee e accettato le idee dei loro torturatori.
Di fronte al potere della psichiatria non possiamo fare molto, anche se ciò che c'è da fare non è poco. L'infermiere che fa sparire dal reparto in cui lavora le fasce di contenzione, fa certamente qualcosa di concreto per limitare la violenza psichiatrica. Così come faceva Fiorenzo quando si lanciava a picchiare medici e infermieri nel tentativo impari di difendere i ricoverati trascinati a forza e con violenza nel reparto. Chi si sente di condannarlo dovrebbe provare a spiegarmi cosa farebbe lui al suo posto. Molti di noi credono di avere a che fare con persone sensate quando pensano agli operatori dei reparti psichiatrici. Persone con cui Fiorenzo potrebbe parlare e spiegare le sue ragioni. Lo pensavamo anche del Dr. Mandalari, del Dr. Cerletti sperimentatore dell'elettroshock, del Dr. Moniz, già citato premio nobel per la medicina, e del Dr. Coda, psichiatra torinese che usava dialogare coi suoi pazienti applicando gli elettrodi ai loro testicoli.
In realtà, per quanto possa sembrare paradossale, è proprio la volontà di esporre il proprio punto di vista a determinare l'intervento psichiatrico coattivo. I pazienti non possono avere opinioni o esprimere valutazioni su di sè o su gli operatori: essi devono solo condividere le opinioni e i giudizi dei loro terapeuti. Quando le opinioni degli uni e degli altri sono in conflitto, la questione viene risolta con la sedazione e la limitazione della capacità di pensiero e movimento del paziente.
Non deve stupirci per niente la frequenza con cui gli psichiatri riscontrano nei loro pazienti quel grave sintomo di malattia mentale che chiamano "atteggiamento autistico". Un atteggiamento di tal genere è prescritto, e si ritiene sia un loro dovere, ai prigionieri di guerra che cadono in mano nemica. E' così insensato pensare che una persona possa scegliere di non parlare con chi lo trattiene in un luogo in cui non vuole stare? La facoltà di non rispondere è un diritto sancito dalla legge. E' irrazionale scegliere di non rispondere perché certi che quello che si dirà sarà usato contro di noi?
Nel definire il comportamento di Giovanni autistico, gli psichiatri in realtà intendono dire che loro non sono i suoi carcerieri, né i suoi accusatori, ma dei medici che agiscono nel suo interesse. E' difficile però, se non impossibile, pensare ad una privazione della libertà più radicale del ricovero psichiatrico o a crudeltà più atroci di quelle che gli psichiatri, in oltre un secolo di storia, hanno elargito ai loro pazienti.
Questa violenza non si basa su un dato scientifico, ma su una convenzione linguistica. Affermando che esiste una malattia mentale, che Giovanni ne è affetto, che loro sono i medici deputati a curarla, legare Giovanni al termosifone non ci sembra un atto di violenza inumana, ma una forma di aiuto, quando non un atto necessario di forza maggiore.
La psichiatria non teme gli atti di forza dei suoi pazienti. Si è fornita negli anni di strumenti di controllo e di annichilimento sempre più sofisticati e incisivi. Teme di più che essi possano esprimersi, acquistare credibilità, svelare il segreto di pulcinella della psichiatria. Per questo la psichiatria ha diviso i suoi sforzi in due direzioni fondamentali: ricercare e sperimentare tecniche sempre più efficaci di controllo del corpo e della mente umani; elaborare teorie di invalidazione della soggettività e della libertà di scelta dei suoi pazienti.
Se avessimo ascoltato le sue vittime, invece di credere alla teoria della loro non coscienza di malattia, avremmo evitato un enorme mole di torti che non possono essere cancellati dalla nostra presunta incoscienza. Sentivamo Nino gridare mentre lo trascinavano nel reparto ma facevamo finta di non sentire quello che diceva. Antonio sarà scappato un centinaio di volte da quei reparti, veniva ricondotto alle cure, con le buone o con le cattive, in coma con l'insulina.
I loro familiari e amici si sentono tuttora innocenti e incoscienti, si giustificano che i medici dicevano loro che quella era la terapia giusta per loro. Certamente questi medici credevano in quello che facevano, certamente non era loro intenzione distruggere irreversibilmente il cervello e la vita di centinaia di migliaia di individui, certamente credevano di trovarsi di fronte ad una malattia e pensavano di curarla. Del resto quelle terapie funzionavano. Il Dr. Mandalari guariva i suoi pazienti, l'elettroshock rendeva le persone più ordinate, disponibili a obbedire alle disposizioni del personale, remissive e collaboranti, la lobotomia stroncava la loro aggressività, gli psicofarmaci permettevano di tenerli sotto controllo e esporli al pubblico. Se la malattia consiste in quello che io penso, dico o faccio, la terapia per forza di cose non potrà non assomigliare ad una punizione e usare atteggiamenti molto simili alla minaccia o al terrore.
La questione di far cambiare idea a qualcuno non è mai stata (e non potrà mai essere) un problema medico. Riguarda l'etica, la morale, la politica, la religione, il vivere civile, i sentimenti e quant'altro ancora ci coinvolge come esseri sociali. Definire le persone che non comprendiamo o le idee che non condividiamo malate, non le rende tali. Ciò che abbiamo davanti non è un fatto, ma una giustificazione che ci occorre per poter invalidare, negare e distruggere punti di vista alternativi ai nostri.
L'unica prova che abbiamo circa la realtà di una tale malattia è il fatto che gli psichiatri affermano la sua esistenza. Dobbiamo credere loro sulla parola. Possiamo anche farlo. Ma se guardiamo poi ai fatti, scopriamo che, paradossalmente, il ragionamento psichiatrico è del tutto simile a quello da loro stessi stigmatizzato come malato..
Mi viene in mente un ragazzo finito in psichiatria con l'accusa di delirio mistico e schizofrenia. Questo ragazzo affermava di essere stato scelto da dio per liberare la sua casa da tutte le energie demoniache che se ne erano impossessate. Questa idea non aveva allarmato più di tanto i suoi familiari fino al giorno in cui aveva deciso di coinvolgere nei suoi riti di esorcismo l'intera famiglia. Tutti dovevano stare svegli in certe notti, girare in un certo modo intorno al tavolo, lavarsi spesso, recitare delle preghiere... Chiaramente per i suoi familiari, poco inclini a credere alle correlazioni fra la cattiva sorte e le influenze soprannaturali, tutto ciò diventava motivo di profondo stress e di minaccia. Il ragazzo, da parte sua, interpretava ogni loro resistenza come prova dell'influenza del maligno che si era impossessato di loro. A questo punto le sue preoccupazioni e l'urgenza di intervenire diveniva pressante e sentiva che doveva agire subito anche contro la volontà dei suoi familiari. La loro volontà del resto era ottenebrata da Satana e loro non erano più coscienti di sé.
Il conflitto nato fra di loro, fu momentaneamente risolto dall'intervento dei vigili urbani e dal ricovero in psichiatria. Era lì ancora quando me ne parlò la psichiatra che lo aveva in cura.
Mi succede spesso, da quando ho rotto l'omertà su cui si fonda l'arbitrio psichiatrico, che psichiatri mi propongano ogni tipo di stranezza come prova dell'esistenza della malattia mentale, sfidandomi al contempo a dare una lettura diversa e soprattutto un'alternativa pratica alla loro azione di contenimento e cura. Naturalmente a me sembrava sensato quanto il ragazzo aveva fatto e riuscivo ad afferrare anche i termini insostenibili del conflitto che si era creato fra lui e i suoi familiari. Ma in quel momento ciò che mi parve paradossale fu la somiglianza inquietante fra la logica del curatore e quella di colui che doveva essere curato.
Tutti e due partivano da un assunto di fede: io sono inviato da dio, diceva il ragazzo; io sono un medico esperto nella cura della malattia mentale, diceva la psichiatra. Ambedue credevano fermamente di poter spiegare ogni cosa succedeva in quella casa a partire da questa competenza. Tutti e due avevano individuato ciò che determinava il disagio (il demonio, la malattia mentale). E soprattutto, ambedue credevano di dover agire contro la volontà degli altri, ritenendo prova sufficiente della loro ipotesi il fatto che gli altri si opponessero al loro aiuto. In altre parole se il ragazzo meritava di essere internato e punito perché, a partire dall'esercizio delle sue idee, aveva invaso la sfera di libertà degli altri, obbligandoli a sottostare a limitazioni pesanti nella loro vita sociale; allo stesso modo la dottoressa aveva limitato la sua libertà e invaso la sfera della sua intimità per esorcizzare una malattia che aveva per il semplice fatto che negava di avere.
Tutti e due, coscientemente e in piena buona fede, pensavano di fare del bene agli altri, di aprire la loro mente alla verità. Ambedue non trovavano d'accordo le loro vittime.
Cos'é che faceva di uno un delirio e dell'altro un intervento terapeutico? Non pensiate esista una risposta sensata a questa domanda. L'unica vera differenza fra i due sta nel diverso ruolo e potere sociale di ciascuno. Non ci sono più prove dell'esistenza della malattia mentale, infatti, di quante ce ne siano dell'esistenza di Satana. Ma se gli uomini sono liberi o meno di credere all'esistenza del demonio, nessuno di noi è libero dal rischio di essere definito malato di mente.
Buon senso vorrebbe che noi difendessimo il diritto delle persone di sottrarsi ad ambedue gli obblighi e le violenze. Niente se non le nostre opinioni e i nostri pregiudizi, ci autorizza a scandalizzarci per quello che il ragazzo fa e ad approvare quello che a lui viene fatto.
Quel ragazzo probabilmente ha torto, ma sicuramente ha ragioni per credere a ciò in cui crede. Allo stesso modo in cui la dottoressa ha torto a definirlo malato, ma ha le sue ragioni per farlo. Ragioni non di ordine medico, s'intende, ma morale, etico, religioso, personale... Sente l'obbligo morale e il dovere professionale di liberare quelle persone dall'incubo e dal pericolo costituito dal ragazzo, sente di dover dare una risposta alla loro richiesta di farlo smettere di turbarli e perseguitarli con le sue idee.
Nelle famiglie in cui, per tradizione e cultura, si crede all'influenza del soprannaturale sugli eventi della propria vita quotidiana, le idee e i comportamenti del ragazzo sono perfettamente riconoscibili e nella norma. Esse vengono considerate opinioni valide e vengono discusse, approfondite e gestite collettivamente da tutta la famiglia. In famiglie del genere non solo l'incoscienza di malattia è familiare, ma non c'é alcuna malattia mentale, pur presentandosi tutti gli elementi che permetterebbero ad uno psichiatra di formulare questa diagnosi se solo qualcuno richiedesse il suo intervento.
Se fossimo davvero nel campo della medicina, sarebbe come dire che un medico possa riconoscere il raffreddore quale malattia da curare solo se la persona disturba, con i suoi sintomi, il sonno o la quotidianità dei suoi familiari. Tutto ciò non per una mancanza di interesse della psichiatria che, al contrario, è interessata alla diagnosi di tutte le manifestazioni umane, ma piuttosto per il fatto che quelli che sono definiti essere i sintomi della malattia mentale non sono processi biologici o alterazioni fisiche, ma problemi che le idee, i pensieri e le azioni di certi individui provocano ad altri.
Giovanni, ad esempio, era malato anche perché il giorno che arrivò in manicomio, aveva con sé, mi dissero, una sdraio e un libro di poesie di Neruda. Il suo comportamento e le sue richieste erano incompatibili con il regime ospedaliero e con il lavoro degli operatori. Ciò che in qualsiasi luogo di villeggiatura o di riposo sarebbe stato considerato normale, in quel luogo diventava sintomo e prova delle sue manie.
Posso capire questo modo di sragionare perché per molto tempo è stato il mio. Quando entrai in manicomio mi sembrava molto stravagante, se non inquietante, il fatto che ci fossero degli individui, definiti laceratori, che facevano a pezzi gli indumenti che gli infermieri li obbligavano ad indossare. Questa era senz'altro una cosa che mi lasciava interdetto. Non sapevo pensare ad altra causa per questo comportamento, se non ad una profonda alterazione mentale. Era lo stesso sgomento che ci provoca, ad esempio, vedere un uomo oltre una siepe andare in tondo imitando una chioccia.
In quest'ultimo caso quell'uomo è un etologo, e l'esempio è quello reso famoso dall'antropologo Bateson per spiegare una verità elementare che da sempre sfugge agli psichiatri. La siepe nasconde i pulcini che quell'uomo si porta appresso per cercare di dimostrare la validità dell'ipotesi che vuole che esista una legge per cui, una volta schiuse le uova, questi riconoscano come madre la prima cosa o essere che vedono. La siepe ci impedisce di vedere il contesto in cui il comportamento dell'uomo si inserisce, mostrandocelo in un atteggiamento senza dubbio stravagante e inquietante.
Spesso non riusciamo a comprendere un evento o un comportamento perché ne nascondiamo gli aspetti più inquietanti con i rovi dei nostri pregiudizi. L'incomprensibilità che vedevo insita nel comportamento dei laceratori, allora era forse solo l'incomprensione attiva che io esercitavo nei loro confronti. Sono fermamente convinto che il nostro non saper che fare o pensare di fronte a certi comportamenti, non sia frutto di una nostra non competenza o dei nostri limiti di comprensione, ma piuttosto della scelta cosciente di non affrontare le contraddizioni in cui viviamo o i problemi che creiamo agli altri.
I laceratori sono uomini e donne scaraventate a forza in una prigione, privati dei loro vestiti, dei loro averi, della loro identità. Uomini e donne senza diritti, senza parola, senza futuro. Molti degli psichiatri che hanno diagnosticato questa forma di malattia mentale farebbero probabilmente di peggio se fossero chiusi nella situazione in cui hanno costretto queste persone. Quante possibilità ha un essere umano sensato di sopravvivere in un manicomio? Poche, e nessuna di queste può apparirci sensata. Non lo sono le poesie di Neruda di Giovanni, ma neanche la sottomissione di Luciano, non lo sono i laceratori o i sudici ma neanche i collaborazionisti, internati che scambiano qualche sigaretta o un'ora d'aria con il controllo dei loro compagni.
Probabilmente questi uomini e queste donne, ora laceratori, hanno, ad un certo punto della loro non vita manicomiale, scelto di cancellare in quel gesto ogni appartenenza al genere umano. Sono tornati ad esseri nudi, solo corpi senza storia, relazione, interiorità. Corpi animali non socializzati. In manicomio non si hanno vestiti ma divise. In psichiatria il vestire è un sintomo della sanità o meno di un individuo. Tanto più grave è lo stravolgimento dei canoni che regolano il modo di abbigliarsi, tanto più grave è la malattia mentale che esprime.
In realtà l'abbigliamento ha sempre rappresentato un ordine sociale e mentale. Nel vestirci noi indossiamo sempre una divisa e un'identità. Non a caso tutte le rivoluzioni personali, sociali, politiche passano anche per uno stravolgimento dei costumi. Il vestire ci distingue dagli altri animali e ci differenzia fra di noi. Ricchi, poveri, intellettuali e cafoni, uomini e donne, criminali e preti... ogni crisi di identità è una crisi nella cura che abbiamo di apparire così come ci si aspetta da noi. Ogni affermazione di identità passa attraverso le cose che indossiamo.
Il mio sgomento di fronte ai laceratori non era probabilmente diverso da quello che avrei provato nel trovarmi all'improvviso in un villaggio aborigeno. Certamente mi sarebbe venuta in aiuto l'idea di trovarmi comunque di fronte ad una cultura e, cioè, di fronte ad un ordine interiore e esteriore concluso e comprensibile. Cosa che mi veniva difficile, se non impossibile, applicare a quei corpi dispersi, in ordine sparso, nel manicomio.
I manicomi o i reparti di psichiatria, anche i più affollati, sembrano essere i luoghi preposti alla distruzione di ogni relazione e comunicazione interumana. La convivenza forzata e l'istinto di conservazione, impongono a ciascun internato di cercare di ritagliarsi un suo spazio e a distanziarsi il più possibile, psicologicamente e fisicamente, dagli altri ricoverati. Ciò spiega in parte perché la resistenza attiva dei ricoverati verso i loro carcerieri è quasi sempre disperatamente individuale. Non ho notizia di rivolte collettive dentro i manicomi. E' possibile che ce ne siano state, ma sicuramente non nel numero e con la frequenza che ci aspetteremmo facendo riferimento alle condizioni di vita in cui la psichiatria costringe centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo.
Questa resistenza passiva se da una parte rivela da quale parte stia la violenza e la pericolosità, dall'altra conferma l'idea che gli internati siano in fondo incoscienti delle condizioni in cui vivono, come lo sono della loro malattia. Se credessimo anche solo per un minuto che essi sono, come noi, esseri sensibili non accetteremmo per nessun motivo e a nessun costo che vengano internati e curati dalla psichiatria.
In qualche modo sentivo che i laceratori si mettevano fuori dal mondo della cultura, ne erano fuori, lontani da ciò che siamo capaci di descrivere con la parola o fare con il corpo. Ho incontrato proprio ieri Luciano che mi ha chiarito qual è la chiave di questi ed altri arcani: non è importante quello che tu sei capace di fare, ma solo quello che sei capace di sentire. Così è impossibile spiegare quello che fanno i laceratori, così come è impossibile trovare una qualche ragione ha quanto hanno fatto loro e di loro.
Nei reparti psichiatrici si perde il filo di tutto. Le ragioni, i conflitti, le contraddizioni, le paure... che hanno determinato l'internamento delle persone diventano realtà sempre più lontane e inesistenti, inascoltate e invisibili. Qualsiasi sia la ragione che ha portato lì quegli uomini e quelle donne, questa smette subito di aver un qualche valore o di spiegare alcunché. Il mondo della psichiatria è un altro mondo, le ragioni che normalmente usiamo per giustificare e spiegare le nostre scelte e il nostro comportamento non valgono, subiscono deroghe, sono ribaltate. Pensiamo normalmente che difendersi da un'aggressione sia un fatto istintivo e dovuto, in psichiatria questo è un sintomo di malattia: l'aggressione non è un'aggressione ma una terapia, l'aggressore non è un aggressore ma un medico, l'aggredito non è una vittima ma un malato.
I laceratori sono affetti da una strana malattia, sconosciuta come le altre malattie che gli psichiatri dicono di curare, tipica delle persone disperse in istituzioni manicomiali (o situazioni manicomiali). Che sia un effetto collaterale delle terapie che sono loro somministrate? Gli psichiatri li descrivono spesso come regrediti e deteriorati. Continuano a trattare ancora questi uomini come fossero dei pazienti affetti da una malattia che loro, nonostante i loro sforzi, non sono riusciti a curare. O almeno così vogliono farci credere. Dicono, invitati a spiegarci come fare a superare i manicomi che loro stessi hanno costruito e gestito, che le patologie degli internati sono tali che necessitano di strutture specialistiche e di ulteriori cure psichiatriche.
Cosa significa regrediti e deteriorati? Che si sono ritirati da ogni rapporto con la realtà sociale e umana. Ma in quale realtà vivevano e a contatto di quale umanità? Perché non chiedersi invece a quali risorse o perversioni mentali sia ricorso chi, in quella situazione, non è regredito.
Niente dentro i laceratori li poteva spingere così lontano da ogni realtà umana, quanto ha potuto fare il terrore, la violenza, l'umiliazione sistematica esercitata dai medici. Nessuna malattia neurologica poteva distruggere il loro cervello, la loro capacità di pensare e ricordare, come hanno fatto le terapie che sono state loro somministrate. Eppure tolleriamo ancora che gli psichiatri delirino di malattie, cure e alternative al manicomio.
Se i laceratori dovessero mai scegliere di tornare fra di noi, si troverebbero di fronte le stesse persone e le stesse ragioni da cui sono scappati e a cui non chiedono niente. Dovremmo imparare a fare anche noi così. Dovremmo guarire dalla nostra normalità.
Così
"Se quanto ho detto sopra rivela la mia rabbia, la risposta è sì, sono furioso. Non osereste esserlo anche voi?" (COOPER D. 1977, pag. 71) |