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DIzionARIO ANTIPSICHIATRICO
esplorazioni e viaggi attraverso la follia
INDICE 1.Introduzione 4.Paradossi psichiatrici 7.Dizionario minimo
  2.Che cos'è
la malattia mentale?
5.Ipotesi di sopravvivenza 8.Bibliografia
3.Che cos'è
l'antipsichiatria?
6.Mitologie
antipsichiatriche
 

IPOTESI DI SOPRAVVIVENZA

esperienze antipsichiatriche


Ricordo che a un certo punto chiesi a Louise:

Di cosa hai bisogno? Cosa ti può aiutare?

Louise rispose:


Vorrei essere un bruco e strisciare sul pavimento. Vorrei che ci fosse qualcuno, ma non vorrei che mi fermasse, mi tirasse su, mi impedisse di farlo. Vorrei che questo qualcuno stesse lì a guardarmi, senza intervenire.


Ricordo che dissi:


Forse così quel bruco potrebbe diventare finalmente una farfalla ?!


Louise mi guardò, sorrise e non disse più nulla.


Cosa occorreva a Louise? Un testimone! Quanto può essere lontano questo aiuto da ciò che aveva avuto dai suoi terapeuti (e che milioni di altri individui hanno dagli specialisti della salute mentale). Anche quando ti lasciano strisciare per terra, non c'é nessuno che ti guarda, che ti è testimone. L'unica attenzione che puoi sperare è che ti scansino nel loro via vai quotidiano.

Strisciare per terra: terapeutico, quando ti ci sbattono loro per tenerti fermo e sedarti con una puntura; patologico, se lo fai tu, per sentirti un bruco, per sparire, per prostrarti o pregare.

Non mi sono mai sperimentato come un bruco, mentre mi è capitato di essere testimone di meravigliose o inquietanti metamorfosi. Nessuno può stabilire con certezza se è di un testimone che si ha bisogno in certi momenti, piuttosto che di una sonora sculacciata o di una dose massiccia di tranquillanti. L'unica cosa certa è che questo aiuto è il più difficile da dare, quello che ci coinvolge in qualche modo nella follia dell'altro e ci spinge su un territorio sconosciuto. Sappiamo benissimo usare le nostre mani per picchiare qualcuno o infilargli una flebo nel braccio, ma poco o niente su come si fa a partecipare a ciò che gli accade.

Mi ricordo di Sandro, il giorno che andai a trovarlo per cercare di impedirne il ricovero. I suoi già sapevano com'é che andavano queste cose. Si metteva a letto, smetteva di parlare e di alimentarsi. Era necessario portarlo in ospedale, appenderlo ad una flebo e aspettare che tornasse in sé. Da quando suo padre era morto, era forse la terza volta che ciò succedeva. I familiari avevano sentito parlare da qualche parte di catatonia, anche il medico di famiglia era d'accordo: si trattava di un arresto catatonico.

Avevo visto decine e decine di catatonici, bloccati nelle pose più strane nei reparti manicomiali. A volte ero riuscito a vincere la mia paura e avevo tentato timidi approcci verbali ma, sempre più spesso, silenziosi. Ero, e sono, convinto che da qualche parte e in qualche modo c'era ancora una forma di vita che pulsava in quei corpi e con cui potevo ancora entrare in contatto. Ricordavo ancora i miei arresti catatonici quando ero bambino, lasciavo il mio corpo in posti sicuri e vagavo libero in ogni luogo. Se solo avessero un posto in cui tornare, probabilmente, loro lo farebbero. O forse no.

Non capivo bene cosa mi desse inquietudine in quegli uomini. Sentivo che quei corpi erano come una diga e che dietro di loro si agitavano acque irrequiete e tempestose: avrebbero potuto assalirmi e travolgermi in ogni momento. Ma non era solo questo a farmi paura. C'era quel silenzio, su cui si infrangevano tutti i miei propositi e le mie parole, a lasciarmi senza difese. Il silenzio di quegli uomini è simile a quello che si respira nel deserto. Un silenzio che non è una mera assenza di parole o di suoni, ma l'assordante presenza di qualcosa di assoluto e inafferrabile.

Così quando arrivai a casa di Sandro non potei fare a meno che allontanare tutti, cosa impossibile in un manicomio. Socchiusi le imposte e mi sedetti accanto a lui a vegliarlo. Non dicevo nulla, essenzialmente perché non trovavo niente di sensato da dire. Le ultime mie parole erano state 'Lasciatemi solo con lui. Sta viaggiando, non dobbiamo disturbarlo. Si sveglierà da solo e tornerà fra noi'.

Non so cosa mi dava questa certezza, ma quando erano venuti ad avvertirci che si preparava un ricovero coatto per questo ragazzo che si era abbandonato in un letto, dopo aver mangiato e bevuto oltre misura, mi era tornata in mente la storia di Mary Barnes a Kinsley Hall.

Questa donna era balzata alla cronaca e alla gloria degli anni settanta, come emblema della metamorfosi della follia da evento patologico a esperienza di trasformazione. Mary era allora un'infermiera di 42 anni. Prima di diventarlo aveva sperimentato il ricovero psichiatrico a causa di una crisi che i medici si erano affrettati a chiamare schizofrenica, e a curare di conseguenza. Scrive Mary:

"Nell'ospedale psichiatrico ero stata immobilizzata nella mia pazzia. La maggiorparte del tempo lo trascorrevo in celle (celle imbottite)... Nessuno sapeva perché e meno di tutti io".(cit. in L. FORTI 1979, pag.128)


Quando Mary raggiunge la comunità di Kinsley Hall sa bene di cosa ha bisogno:

"...andare giù, indietro fino a un tempo precedente quello della nascita, e tornare su di nuovo". (idem, pag. 128)

Come abbiamo già visto, un viaggio di questo genere era previsto, e anzi consigliato, nella comunità antipsichiatrica fondata da Laing. Mary inizia a raggiungere la comunità e a andare indietro ogni notte. Per un certo periodo mantiene il suo lavoro giornaliero, poi, una volta pronta per intraprendere il viaggio, dà le dimissioni.


"La vita divenne presto fantastica. Tutte le notti a Kingsley Hall mi spogliavo perchè sentivo il bisogno di essere nuda. Stavo sdraiata sul pavimento fra le feci e l'orina e sporcavo le pareti con le feci". (idem, pag. 129)


La situazione che si andava delineando non faceva soffrire Mary, ma poneva seri problemi di gestione a chi le stava accanto. Scrive Morton Shatzman:



"Gli altri si trovavano in difficoltà nel vivere insieme a lei quando sporcava di feci il suo corpo e le pareti della sua stanza. La sua stanza era infatti vicina alla cucina e l'odore passava attraverso le pareti. Dovevano permetterle di fare questo? Forse che una persona ha diritto ad uno 'spazio d'odore' che si estende al di là delle quattro pareti della sua stanza?"(idem, pag. 129)


Gli altri, in questo caso, erano esseri umani che credevano che in quello sporcarsi di feci ci fosse altro che non la mera espressione di un disordine mentale: altri che davano a ciò un significato positivo di trasformazione. Così Mary potè continuare ad andare indietro: smise di mangiare cibi solidi, smise di parlare e rimase lunghi periodi immobile sdraiata a letto. Veniva alimentata con il biberon a turno da tutti coloro che vivevano a Kinsley Hall. Ecco come lei descrive, dal suo punto di vista, quei momenti:



"A letto tenevo gli occhi chiusi in modo da non vedere le persone ma solo da sentirle... Anche il tatto era molto importante... Talvolta il corpo mi sembrava ad una certa distanza, con una gamba o un braccio dall'altra parte della stanza. Il muro divenne cavo e mi sembrava di penetrarvi come in una grande cavità. Vivamente consapevole delle persone, ero fisicamente isolata nella mia stanza, nel mio utero..."(idem, pag. 129)


A questo punto Mary era pronta a rinascere. Tornò su rapidamente e con una nuova profondità e senso di sè. Riprese la sua vita, cominciò a dipingere e scrisse la sua esperienza mostrando che si può viaggiare attraverso la follia.

Sembra che, a un certo punto di questa storia, Mary fu ricoverata in ospedale per le sue precarie condizioni fisiche derivanti dal lungo immobilismo e dalla mancanza di alimentazione. Una cosa del genere avrebbe potuto prospettarsi anche per Sandro. Logica vorrebbe, infatti, che coloro che dicono di voler aiutare la persona che non si alimenta, intervengano sugli eventuali problemi fisici che questo comporta, senza medicalizzare i motivi per cui questi ha smesso di mangiare. Il problema della condivisione o meno di questi motivi e il giudizio che può essere espresso su di loro, non è un fatto medico, né può essere oggetto di cure.

In realtà il ricovero psichiatrico, in questo caso, non rispondeva ad alcun problema personale di Sandro, ma ai problemi che egli creava ai suoi familiari. Perché non permettergli di continuare il suo viaggio, il suo sciopero della fame e della parola, la sua dieta o qualsiasi altra cosa lui avesse intenzione di fare? Sarebbe bastata una serie di flebo, fatte a casa dal medico di famiglia, per permettergli di agire ciò che aveva in mente e permettere a noi di interagire con lui e la sua esperienza. Ma forse era proprio questo che si voleva evitare.

Riflettevo su queste cose mentre stavo accanto a quel letto e a quel corpo disteso nella penombra. Non parlavo. Sandro muoveva le mani ritmicamente passandole su e giù la pancia, quasi a volersi schermare. Sapevo che mi sentiva. Sentivo che non riusciva a fare di me una cosa, una luce, un punto lontano, come intuivo avevano fatto i catatonici del manicomio. Io, voi e qualsiasi altro essere vivente attraversi il loro campo visivo, olfattivo, uditivo o tattile, siamo cose, oggetti inanimati come le grate, i muri, le porte, le cinghie di contenzione, le scarpe...

Volevo interrompere quel viaggio per un attimo. Non sapevo se questo era possibile, ma sapevo che se ci fossi riuscito, così senza ricovero e psicofarmaci, avrei mostrato che da questa catatonia Sandro poteva uscire, se solo avesse voluto, trovato l'ambiente e l'interlocutore adatto, finito il suo viaggio. Era chiaro che in quel momento io non stavo affatto considerando le esigenze di Sandro, stavo solo mediando fra le mie e quelle dei genitori. Sandro non sembrava affatto interessato a quanto poteva succedergli, nè a cercare di dimostrare alcunchè a nessuno: egli cercava solo di vivere ciò che gli accadeva (o che lui faceva accadere).

Avevo detto ai suoi 'Si sveglierà. Basta aspettare' e ora ero lì a sperimentare di nuovo quella dimensione del silenzio attraverso cui si può viaggiare in ogni luogo del reale o dell'immaginario. A poco a poco smisi di pensare al motivo per cui ero entrato in quella stanza. Smisi di pensare alla psichiatria, ai rischi che correva Sandro, alla sfida che avevo lanciato a me stesso e ai suoi, a quello che sarebbe successo se avessi fallito... Cominciai a vagare in una dimensione senza tempo, insensibile al suo passare. Non mi interessava più raggiungere un fine e, quindi, non disperavo più di riuscirci. Il tempo aveva allentato la morsa su noi due. Era sicuramente servito allontanare sua madre che impietosa ci ricordava, come i rintocchi della campana della chiesa, da quanti giorni, ore, minuti e secondi, il figlio era in quelle condizioni. Preso dalla sua ansia anch'io avrei detto 'Fate presto, chiamate un autoambulanza', indipendentemente da qualsiasi esame obiettivo della situazione.

In queste situazioni, chi si oppone agli urgenti ricoveri psichiatrici, è spinto ad agire con la stessa urgenza. Quello che fa deve agire con la stessa rapidità con cui agisce una fiala di valium o sopraggiungono i vigili urbani. Il che si risolve spesso in azioni che sono paradossalmente molto simili a quelle che intendono evitare.

Un esempio per tutti. Nino canta la notte. Vengo svegliato dai vicini. E' uscito da un anno dal manicomio. Deve mostrarci che sa comportarsi, che ci siamo sbagliati a tenerlo rinchiuso tutti questi anni e che le persone non vanno internate.

A volte ho l'impressione che pensiamo davvero che liberare i matti dai manicomi sia per loro come la fine di una pena. Non è così. Intanto ci sono quei decenni di prigionia insensata e inumana, che nessun reato o guerra giustifica. Poi si è rilasciati sulla parola e si resta comunque, a vita, un sorvegliato speciale. Infine non troviamo più niente che ricorda che noi ci siamo mai stati da qualche parte o qualcosa per qualcuno.

Se avessi fatto 30 anni di manicomio, come Nino, non so come mi sarei comportato uscendo da lì. Forse avrei fatto come lui, quando sarebbero venuti a dirmi di smettere di disturbare il loro sonno. Li avrei gettati fuori di casa in malo modo e avrei cantato ancora più forte, a sguarciagola, con tutto il fiato che avevo in corpo. Come lui mi sarei presa questa disperata rivincita, per tutte le volte che avevo gridato inascoltato e disperso nel manicomio. Adesso dovete ascoltarmi, avrei pensato, non potete fare finta di niente, continuare a costruire le vostre case, sposarvi, mettere su famiglia, mentre io sto rinchiuso qua dentro. Io non dormo ma neanche voi potete. Non lascerò che mi chiudate la bocca. Non ho motivo di rispettarvi e non ho niente da perdere. Non è la rivoluzione, ma il più sincero e genuino disprezzo per il nostro naturale stato di sonno, per la nostra normalità e per la nostra libertà.

Quando qualcuno esce da un manicomio ha come accumulato un credito infinito nei nostri confronti. Abbiamo limitato a tal punto l'area della sua libertà e della sua esistenza, che adesso non possiamo rivendicare alcun diritto o rispetto per le nostre libertà o esigenze. Dovremmo starcene in silenzio e svegli e non trovare il coraggio di fiatare. E invece no. Nessuno di noi pensa di aver colpa di quanto è successo. Dormono sonni tranquilli gli infermieri che tenevano legati per mesi i loro simili; godono della loro pensione e del rispetto della comunità scientifica i medici che davano quest'ordine: perchè dovremmo sentirci responsabili noi, vicini ignari e innocenti di Nino?

Arrivo a casa sua. Sta cantando ancora. Per Nino non ci siamo, non ci sono case intorno, esseri umani. Perché dovrebbe smettere? Per far riposare chi? Canta perché ha paura. Sono tornati gli infermieri in quella casa. La stanza è affollata. Vogliono afferrarlo, legarlo, abbandonarlo in un letto. Canta, non li vuole sentire.

So quello che sta succedendo, ma ciò non interessa i vicini. Vogliono solo che smetta. Vogliono riprendere a fare sonni tranquilli, come prima, come quando lui era dentro. Non importa quanto lui possa essere disperato, l'importante è non sentirlo.

Ma cosa importa a me delle loro ragioni? In teoria niente, ma in pratica io ne sono parte. Penso che Nino cantando la notte si stia giocando la possibilità di rimanere libero. Voglio che smetta, non voglio che gli altri pensino, dicano o chiedino di allontanarlo di nuovo. Credo di stare dalla sua parte e invece sono dalla parte di coloro che devono dormire stanotte.

Mi aspetto che, quasi per magia, Nino cancelli ogni cosa e si rassereni alle mie parole. Invece niente. Cerco di interrompere la canzone e zittirlo. Non ne ascolto neanche le parole, non ho tempo per cercare di capire cosa sta dicendo o a chi. Qualsiasi cosa stia tentando di comunicare, è ora che smetta. Qualsiasi cosa sia che lo inquieta, se ne può parlare domani.

Ci si mette così poco a indossare i panni degli infermieri... Lo metto a letto e cerco di convincerlo che la notte è fatta per il sonno, che non c'é niente di cui aver paura, che fra qualche ora è giorno e potrà andarsene in giro per il paese a cantare, saltare, disegnare e fare qualsiasi altra cosa gli salta in mente... Niente. Per qualche motivo, che non riesco né voglio comprendere, ha deciso di stare sveglio stanotte.

Penso alla gente nascosta dietro alle persiane che si aspetta che io lo convinca (o costringa) a smettere. Penso che domani non riuscirò a sostenere che è giusto o buono che lui sia tornato a casa dopo trentanni. Sento già le parole di quegli ipocriti esseri umani che si preoccupano del destino di questi poveri malati abbandonati: gli stessi che non hanno mosso un dito, né hanno alzato la loro accorata protesta, quando erano rinchiusi nel lager. Li sento argomentare: 'Dopo trentanni, non è più abituato al vivere civile. E' solo e non ha più niente da spartire con nessuno'. In realtà vogliono dire che non importava e non importa loro di ciò che gli hanno fatto o di come ha trascorso gli ultimi 30 anni, vogliono solo che si tolga di mezzo. E' entrato in manicomio per il suo bene, deve rientrarci sempre per il suo bene. Se prima la società doveva difendersi da lui, oggi va rinchiuso perchè va tutelato da una società a cui lui non appartiene più. Nessuno di quei bei esemplari di normalità dietro le persiane, ammetterebbe che è solo a se stessi e alla loro pace che erano e sono interessati.

Il tempo passa, Nino continua il suo canto. Sono solo e disperato. L'urgenza mi tira fuori di gola tutto l'armamentario di convincimento e minaccia con cui siamo soliti trattare i ribelli di ogni natura e cultura.

Nino non ha paura di tornare in manicomio: c'é già. Non me ne rendo conto, ma in me non c'é niente che possa davvero distinguermi dagli infermieri che lui ha conosciuto. Non c'é minaccia o tortura a cui lui non sia stato temprato: in qualche modo si aspetta questo da tutti, anche da me. Stremato gli propongo di prendere il sonnifero che tiene sul comodino. Deve dormire. Non può distruggere in un attimo tutto quello che ho fatto per lui.

Non c'é niente di medico nel fatto di assumere un sonnifero. Niente di più sanitario del fumare una sigaretta dopo pranzo o prendersi una sbronza con gli amici. Assumere psicofarmaci può essere un fatto meno psichiatrico della conversazione che possiamo instaurare con una persona. Ciò che fa di quella pillola, offerta con un bicchiere d'acqua di rubinetto, un fatto psichiatrico, è la voglia di zittire e di non prestare ascolto al canto di Nino. E' questo mettersi acriticamente dalla parte di un ordine sociale e mentale che si fonda sul suo silenzio e sulla sua morte civile.

Se avessimo cantato insieme, invece di parlare, e poi lui avesse deciso di porre fine alla sua battaglia scaraventando la sua mente nel sonno, seppur artificiale, di quella pillola abbandonata così sul comodino: la storia avrebbe preso un'altra direzione.

Dormire è una delle tecniche che uso più spesso per affrontare i problemi o le paure insormontabili che mi si parono a volte davanti. Riesco a farlo senza sforzi ma, se mi occoresse, userei ogni sorta di sostanza pur di accedere a questa dimensione che mi aiuta a svegliarmi in un mondo nuovo (o a darmi questa illusione). Non è una fuga, né come succede in psichiatria una punizione, ma una tecnica di gestione del proprio rapporto con l'esistenza. Immagino qualcosa di simile al letargo di certi animali o all'ibernazione, come speranza di risvegliarsi in un mondo in cui certe nostre domande hanno trovato (o possono trovare) una qualche soluzione.

Dicevo, avrei potuto cantare con lui... La mia distanza da Nino è tutta qui. Per quanto ci si possa sentire dalla parte di qualcuno, non lo si è se non si è capaci di farlo nel momento del pericolo. Gli amici si vedono nel momento del bisogno, usiamo dire, ed è proprio vero.

Torniamo a Sandro. Ad un certo punto notai un libro in bella vista sul comodino: Le grandezze di S. Michele Arcangelo. Sandro lo stava leggendo in quei giorni. Leggendolo, ebbi l'impressione che lui stesse seguendo il viaggio iniziatico descritto nel testo. Ciò confortava la mia ipotesi e dava un senso a ciò che stavo facendo.

Se infatti ciò che ci appare folle ha sempre un significato, spesso è il nostro modo di farvi fronte che può apparire o essere del tutto insensato. Sarebbe insensato, ad esempio, stare seduti in silenzio se Sandro giacesse svenuto, così come è insensato prenderlo a schiaffi se dorme o curarlo della sua scelta di digiunare.

Ero convinto che fosse solo una questione di tempo, ma era proprio il tempo che l'urgenza di intervenire comprimeva. La psichiatria è un modo di far precipitare gli eventi in modo da impedirci di fermarci a riflettere su ciò che accade. Nessuno di noi dubiterebbe del fatto che sia sensato che un uomo resista ai tentativi di legarlo ad un letto, ma se fossimo gli infermieri di un reparto psichiatrico, non solo troveremmo naturale farlo, ma considereremmo la sua reazione sintomo della sua follia e pericolosità. A gioco fermo e a mente lucida è facile vedere l'insensatezza e la violenza insita in ogni pratica psichiatrica. Nell'urgenza di far smettere l'altro di fare, di pensare o di parlare, perdiamo invece ogni traccia di buonsenso e di umanità.

Sandro sudava. Mi sembrò naturale asciugargli lentamente il sudore dalla fronte. Ripresi a leggere Le grandezze, dimenticandomi di quel gesto. Dopo alcuni istanti avvertii qualcosa di simile a quello che sentono gli uccelli prima di una bufera. Qualcosa aveva cambiato il colore della stanza, tutto si era trasformato in maniera sinistra. Mi voltai verso Sandro. Era lì, gli occhi sbarrati a guardarmi. Accennai ad un timido 'Bentornato', più per farmi coraggio che altro. Intanto un brivido freddo percorreva il mio corpo. Avevo paura. Mi sentivo come se avessi calpestato la coda di un gatto o svegliato il cane che dorme. Rimasi immobile, mentre nella mia mente si affollavano ogni sorta di paure e pregiudizi.

Cosa avevo fatto? Sandro aveva aperto gli occhi, come mi dicevano non poteva fare se non dopo una cura adeguata in qualche ospedale, ma ora cosa sarebbe successo? Non sapevo molto di lui, non sapevo neanche come avevo fatto, se avevo fatto qualcosa, per riportarlo alla realtà. E poi chi era tornato e da dove ?

Non dovetti attendere molto. Sandro cominciò a gridare in tedesco verso di me. Non capivo una sola parola, ma ne intendevo il senso. Stava mandandomi ogni sorta di maledizioni e intimandomi di uscire da quella stanza. Seppi poi, da una traduzione simultanea dei familiari, che vedeva in me Satana e che pensava che volessi rubargli l'anima. Fatto questo che, invece di tacciare come delirante o paranoico, dovrebbe farci riflettere su come può essere vissuto il nostro desiderio di entrare dentro la storia o la testa delle persone.

Ad ogni buon conto non si mosse dal letto, né accennò alla benché minima azione per difendere il suo spazio. Sandro probabilmente non reagiva alla mia corporeità, ma a quello che in quel momento io rappresentavo. Del resto io avevo invaso il suo spazio vitale e, in qualche modo, la sua interiorità. Il minimo che potessi aspettarmi era una sua reazione.

Non avevo avuto paura di Arturo, quel giorno di pioggia che mi afferrò per il collo e mi accompagnò alla porta, giù per le scale, tenendomi ben stretto e camminando all'incontrario. Così come non avevo avuto paura di dormire per terra a casa di Salvatore, il lupo, per mostrare ai suoi paesani che non era pericoloso. Conoscevo abbastanza di loro, e loro abbastanza di me, da intuire quali potevano essere i limti naturali del nostro rapporto. In qualche modo sapevo che né Arturo, né Salvatore mi avrebbero mai fatto del male. Probabilmente era solo una mia illusione, ma era così forte e salda che in tutti i due casi si trasformò in realtà.

Sulla paura che proviamo di fronte a certe persone si potrebbe scrivere un libro. Sicuramente però è la nostra ignoranza su di loro e sui loro pensieri che ci mette in agitazione. Non conoscendone storia e logica, non sappiamo mai cosa aspettarci da loro, e ci aspettiamo di tutto. Questa paura spesso si trasforma in terrore, perché alimentata dal fatto che ci hanno educato a credere che il modo migliore di interagire con loro sia quello di ignorare i loro pensieri e le le loro parole. Fate finta di niente, assecondatelo, non fate caso a quello che dice chè è frutto della sua malattia... e altri suggerimenti simili, la dicono lunga sulla nostra volontà di noncapire l'altro. Spesso non c'é cattiveria o sadismo in questo, ma la pura e semplice voglia di non vedere e l'assoluta incapacità a fronteggiare la realtà straordinaria che certe esperienze aprono nella nostra vita.

Se prestassimo ascolto alle parole di Sandro probabilmente avremmo meno paura di lui, ma ci perderemmo in un mondo di cui sembriamo non aver coscienza, conoscenza, né esperienza. Un mondo che, seppure così apparentemente insensato, non ci appare estraneo, tanto da aver paura di precipitarvici dentro.

Ricordo di aver provato quel brivido di terrore un'altra volta. Ero seduto di fronte ad un ragazzo che rispondeva cortese alle mie domande. Negli intervalli, mentre cercavo di far mente locale su ciò che poteva essere importante per me, muoveva il capo facendo segno di si e di no. Questo movimento era continuo, interrotto soltanto dalla necessità di rispondere alle mie domande.

Capivo che il ragazzo stava seguendo un altro discorso con qualcuno che non vedevo, da qualche parte dentro o fuori dalla sua testa. Questa cosa mi spiazzava e non sapevo far altro che cercare di distrarlo da quella sua conversazione fantastica, per riportarlo alla realtà del suo dialogo con me. Su questo piano sentivo di avere un senso e di poter controllare la situazione. Sul piano del suo discorso fantastico invece non avrei saputo che pesci pigliare, sarei stato sordo e cieco, in balia di ogni pericolo.

La distrazione è la strategia terapeutica più usata da psichiatri e non. Tenere la mente impegnata, è una sorta di imperativo categorico. E' come se volessimo ancorare la nostra mente alla materialità e alle leggi condivise, impedendole di esplorare spazi interiori ed esteriori sconosciuti o vietati. Così io chiedevo al ragazzo cosa avesse fatto quel giorno, che libri amava leggere, se aveva amici, dove aveva comprato la maglietta che indossava... e ogni sorta di altre assurdità, solo per cercare di distrarlo da quella conversazione invisibile e inudibile.

Avevo visto fare una cosa del genere con un tizio che chiamavano Crocifisso per via delle sue manie religiose. Partecipavo ad una gita di internati del manicomio criminale, eravamo a tavola e Crocifisso stava seduto di fronte a me, gli occhi intensi ma come annegati in oceano d'oblio, tipici di coloro la cui vista viene corretta e curata con gli psicofarmaci.

Il pasto in piatti di plastica, offerto da chissà quale parrocchia, gli sguardi chini nel piatto. Tutto tranquillo. Ad un certo punto Crocifisso scatta in piedi. Ha visto una luce, ce la indica. Il volontario al suo fianco non si scompone, lo ha già visto mille volte interrompere ogni cosa e indicare la luce, e per mille volte, senza mai dubitare della sensatezza di ciò, l'ha riportato seduto a riprendere ciò che stava facendo. Non c'era traccia di violenza in quel gesto. Non lo stava legando alla sedia, lo invitava gentilmente a sedersi e a cibarsi di pasta e non di luce. Eppure c'é più violenza in questo che in mille giorni di camicia di forza. Non so se riesco a spiegare quello che intendo. Immaginate a come vi sentireste se nessuno dei vostri sentimenti, nessuna vostra idea o pensiero, nessuna scelta da voi fatta, venisse prese sul serio. Pensate a ciò che può significare essere, sempre e comunque, ignorati da tutti. Non credo che potreste chiamare la vostra vita un'esistenza, non credo che pensereste di esistere o vi sentireste vivi. Ciò che è peggio è che nessun manicomio, mura, inferriata o camicia di forza, può fare ciò che quel gesto del volontario riesce a fare: niente e nessuno può rendervi invisibili e inesistenti, quanto il fatto di essere ignorati.

Non so se fossi cosciente di questo quando smisi di fare domande al ragazzo e gli chiesi: 'Bene, visto che stai parlando anche con qualcun altro e che stiamo facendo confusione, fammi sentire che dice e di cosa parlate, così da poter partecipare al discorso'. Mi sembrava senzaltro una mossa sensata. Del resto non mi rimaneva molto altro da fare. Mi sentivo uno stupido a far finta di non vedere, nè me la sentivo di continuare a fare domande senza senso al ragazzo che aveva altro a cui pensare o da cui difendersi.

Il ragazzo smise di colpo e disse: 'Brutto bastardo. Ti ammazzo. Io non voglio nascere'. La voce era la sua, ma il tono, l'espressione e la mimica rivelavano una persona che non avevo mai conosciuto. Non c'era più traccia di quell'omaccione mansueto e confuso che era seduto lì davanti. Nè per la verità c'era via di scampo. Fra noi c'era un tavolo e la porta della stanza era alle sue spalle.

Se qualcuno mi avesse raccontato questa storia, avrei annotata come straordinaria quella sua espressione, ma ero in stanza con lui e lì per lì non ci lessi altro messaggio se non quello di minaccia e di pericolo. Mi chiedevo chi mai mi avesse messo in bocca quella dannata domanda. Avrei potuto molto più tranquillamente continuare quella mia conversazione (in)sensata facendo finta di non vedere quel movimento continuo della testa e non interessandomi a ciò che il ragazzo poteva pensare o sentire. La malattia mentale serve proprio a non porsi questo tipo di domande e non sentire questo tipo di risposte.

Istintivamente scaricai una valanga di parole senza senso per chiudere in qualche modo quella falla. Il ragazzo non aveva intenzione di uccidermi, aveva solo risposto alla mia domanda. In un attimo mi aveva scaraventato nel mondo in cui lui viveva, mi aveva fatto sentire il terrore che lo attanagliava, mi aveva chiarito il perché non avrebbe potuto mai lasciarsi andare.

Il ragazzo riprese la sua espressione di sempre. Io cominciai a ragionare. La morte ci aveva camminato accanto in quelle nostre pacifiche discussioni intorno al tavolo. Lui mi aveva salvato mille volte dalla mia stupidità ed io non mi ero accorto di nulla. Anche adesso che avevo saputo, non avevo capito cosa il ragazzo intendesse dirmi. Avevo soltanto avuto paura. Avevo chiuso la falla per non sentire.

Uscii dalla stanza di Sandro. Qualsiasi cosa era successa i suoi familiari me la addebitarono. Comunque sia il suo risveglio avvalorava la mia tesi e aveva evitato il suo ricovero. Ad un certo punto tirò anche fuori il braccio affermando 'Sia fatta la volontà del padre mio'. Non so se intendesse che adesso avremmo potuto anche crocifiggerlo, io interpretai che ci diceva di essere disponibile ad alimentarsi attraverso le flebo. Non c'era alcun motivo apparente perché lui dovesse essere ricoverato in un ospedale. Non c'era niente che non potesse essere fatto a casa.

La mia idea era che gli fosse consentito di portare a termine quel suo viaggio, già più volte interrotto; e di farlo nell'ambiente e fra le persone che lui aveva scelto.

Per alcuni giorni Sandro rimase a casa, alimentandosi con le flebo e esplorando il suo mondo interiore. Man mano che il tempo passava, qualcosa avveniva anche in chi gli stava accanto. I suoi familiari cominciavano a porsi la domanda sul perché Sandro avrebbe avuto bisogno di fare quello che stava facendo. Cominciavano ad emergere risposte inquietanti che squarciavano l'apparente ordine familiare. Era forse questa la crisi che volevano evitare.

Guardando Sandro e i suoi attorno, era chiaro che non era malato ma doveva essere malato. Solo così si sarebbe potuto evitare di porsi quelle domande che potevano mettere in crisi l'unità familiare. Per questo Sandro andava ricoverato: bisognava sancire al più presto l'insensatezza di ciò che faceva, neutralizzandone ogni effetto.

Ciò avvenne dopo alcuni giorni e dopo l'ennesimo consulto medico.

Rividi Sandro in reparto e soltanto una volta dopo la dimissione. Non ricordava nulla. Era guarito. Scappò quasi subito e non mi guardò mai negli occhi.

Non l'ho più rivisto, ma niente in questa storia può farmi pensare che abbia fatto un percorso diverso da quello delle decine di giovani che ho visto in questi anni ricoverati contro la loro volontà, curati e dimessi in libertà vigilata. Ognuno di questi torna prima o poi a riprendere il viaggio, tentando di portarlo fino in fondo. Molti vengono bloccati e riportati dentro, una due tre o un'infinità di volte, fino a che sono così confusi da non capire più chi sono e che tipo di viaggio avessero in mente di fare... Questi ragazzi restano sempre a metà di un guado: hanno perso per sempre la possibilità di una vita normale e non hanno la possibilità di vivere in una qualsiasi altra maniera. Sono costretti ad interpretare se stessi e a assomigliare a persone che non sono più.

Altri si disperdono negli angoli più nascosti del mondo. Per loro il viaggio interiore equivale a spostarsi nel mondo esteriore che ci fa da cornice. Spesso senza biglietto, perchè non viaggiano per divertirsi o per lavoro, viaggiano per sopravvivere.

Non dobbiamo pensare a questo viaggio necessariamente nei modi di Sandro o dei barboni delle stazioni. Ogni trasformazione è un viaggio, un evento che mette in movimento le nostre cellule, i nostri pensieri, il nostro corpo e la mente, fino a farci diventare altri da quelli che siamo. Se questo processo è bloccato o confuso rischiamo di perdere irrimediabilmente noi stessi. Una volta lasciato l'approdo della nostra identità personale e sociale non ci è più possibile tornare ad essere quelli che si era prima. In questo senso è vero che non si può guarire la follia, così come è impossibile guarire la vita.

La follia di Sandro è l'esperienza di una trasformazione. Ogni cambiamento può essere o diventare disastroso, così come può aprirci le porte alla felicità e alla conoscenza. Il fatto di cambiare può lasciare contento chi ci sta accanto o può farlo soffrire. Non esistono in assoluto cambiamenti indolori, così come le scelte, anche più dolorose, possono col tempo diventare una vera e propria salvezza. Siamo noi a fare di queste esperienze una disgrazia o al contrario un colpo di fortuna. Non c'é niente nella nostra biochimica o nel nostro cervello capace di influenzare ciò: tutto ciò che conta sta nella nostra storia.

Ogni vero cambiamento se vogliamo è una follia, perché è la rottura dell'ordine mentale e sociale in cui siamo inseriti. Non è un caso che tutte le comunità umane abbiano rigidamente definito tutte le modalità attraverso cui i propri membri possono passare da uno status e da un ruolo ad un altro.

Esistono dei cambiamenti che potremmo definire obbligatori, attraverso i quali veniamo accettati come membri di una data cultura e società. Altri mutamenti invece sanciscono la nostra esclusione dal consesso civile. I primi vengono definiti normali e considerati alla stregua di fatti naturali, i secondi entrano a far parte di un quadro patologico. Salvo poi passare da una parte all'altra, a seconda dei cambiamenti che il nostro senso del pudore, la nostra etica e la nostra morale impongono.

La malattia di Sandro per alcuni è provata dal semplice fatto che egli abbia fatto questa scelta impossibile di esistenza. Altri lo giudicano malato per la ragione inversa, perchè qualcosa in lui sembra obbligarlo a comportarsi in un modo che non ha scelto. Sia che scelga o che subisca il suo rintanarsi in un letto, Sandro viene considerato folle. Quel modo di fare, infatti, non è riconosciuto dagli altri: appare ai loro occhi come innaturale, anche se, a guardar bene, esperienze del genere hanno sempre costituito per l'umanità una via per tentare di guardarsi dentro e trovare le risposte alle proprie domande essenziali.

Scrive R.D. Laing, a proposito dei metodi terapeutici degli antichi greci:

"Il trattamento di mali fisici, emozionali o mentali, in questi templi, consisteva nell'incubazione. Avevano incubatori che erano vere fosse di serpenti. Erano stanze rotonde, sotto terra, con un piano rialzato nel mezzo. Oggi si pensa che al malato venissero date sostanze psichedeliche e che poi fosse calato in questa stanza completamente buia, circondato da serpenti per tre giorni. Durante il periodo di permanenza in questo incubatorio, la persona poteva avere visioni o no, e gli si dava la cura. Se non guariva subito, il dio, il rappresentante o il messaggero del dio gli comunicava la cura necessaria; uscendo dalla fossa, dopo settantadue ore o più, egli riferiva la cura ai sacerdoti che provvedevano alla sua messa in pratica. La cura, cioè, proveniva dai recessi profondi dell'io del paziente e gli assistenti, i sacerdoti, eseguivano semplicemente le direzioni che il paziente dava loro".(R.D.LAING 1975, pagg. 351-352)


Ho sempre avuto la segreta convinzione che, a lasciar realizzare ai matti la loro follia, non può venirne niente di peggio di ciò che nasce dal nostro violento e cieco tentativo di impedirlo. Se a Giorgio, ad esempio, una trentina di anni fa, fosse stato permesso di raggiungere gli Stati Uniti d'America, come gli aveva prescritto la voce di dio, non gli sarebbe probabilmente successo niente di più orribile che passare tutti questi anni in un manicomio. In un modo o nell'altro, la questione circa la verità di quella chiamata sarebbe stata risolta, e Giorgio avrebbe potuto scegliere cosa fare e cosa essere. Invece è rimasto in bilico sul filo della disperazione e del vuoto. Se questo è il rimedio, è certamente preferibile il male.

Spesso, di fronte all'ovvietà con cui definiamo delirante il modo di fare di Sandro o di Giorgio, mi viene da pensare alle storie a cui, con tutta serietà, mi si chiedeva di credere da bambino. In esse dio parlava agli uomini, affidava loro delle missioni, li sottoponeva a prove e li spingeva ad agire in modi del tutto irrazionali. A leggere le sacre scritture di ogni epoca e religione, si ha la conferma che mai il dialogo fra esseri divini e umani si è risolto in un ordinato scambio di opinioni. Sempre l'esortazione divina ha spinto gli uomini a trascendere se stessi, la propria morale, le proprie leggi e il proprio corpo, esponendoli a scelte e comportamenti che oggi non esiteremmo a chiamare patologici.

Eppure mi hanno insegnato a considerare santo quell'uomo che devolse tutti i suoi averi ai poveri, così come l'uomo che, per fare la volontà di dio, fu disposto a sacrificare suo figlio. Oggi, mentre insegniamo ai nostri figli a considerare questi comportamenti come segni di santità, inabilitiamo o interdiamo chi distribuisce i suoi soldi a chi più gli aggrada, così come togliamo la patria potestà a quei genitori che seguono una loro convinzione che noi non comprendiamo.

Non c'é alcuna ragione sensata che possa giustificare il fatto che si consideri santo Giuseppe che carica la moglie e il figlio appena nato su un asino, ubbidendo all'esortazione di un angelo, e malato Giorgio a cui dio dice di raggiungere l'America.

A pensarci bene, forse una differenza c'é. Da bambino ero rimasto molto colpito dalla storia di Giacobbe e di suo figlio Isacco. Mi raccontavano che dio aveva voluto mettere alla prova la sua fede chiedendogli di sacrificare la vita di Isacco che, credo, fosse il suo unico figlio. Giacobbe, uomo di fede, aveva ubbidito e aveva condotto il figlio sul luogo del sacrificio. Ma proprio sul punto di colpirlo a morte, la sua mano era stata bloccata da un angelo che aveva sancito che la prova era finita. Giacobbe aveva mostrato che la sua fede in dio trascendeva ogni legame terreno. La conclusione di questa storia rendeva senso ad atti se no incomprensibili e inaccettabili. Così come la successiva strage degli innocenti, giustificava quella fuga tanto insensata di Giuseppe e della sua famiglia: l'aiuto divino gli aveva permesso di salvare Gesù.

Voglio dire che certe esperienze ci sembrano insensate forse per il solo fatto che non lasciamo che si realizzino. Molti dei miei conterranei, compreso mio padre, hanno attraversato l'oceano per raggiungere terre promesse in ogni angolo del globo. Non si può escludere che molti, fra coloro che hanno intrapreso questo viaggio, vi siano stati spinti, oltre che da un'esigenza di sopravvivenza, anche da esperienze visionarie molto simili a quelle di Giorgio.

Chi non è nato in Sicilia può non riuscire ad afferrare quanto sia forte, totale e assoluto il legame che noi sentiamo con la nostra terra. Tanto forte da non poter essere spezzato da tutto il tempo e tutto lo spazio che noi possiamo mettere fra noi e lei. Chi lascia la nostra terra deve cercare un senso o costruire un legame fra ciò che sta facendo e la vita della comunità in cui vive. Non è raro così che ci si senta come chiamati ad una missione impossibile, e che ciò giustifichi e ricomponga l'apparente distacco dalla propria terra.

Ai tempi in cui Giorgio fu internato, molti avevano visto i propri cari defunti o sentito degli esseri divini indicare loro la via del nuovo mondo: ciò dava l'imprimatur culturale necessario per fare questo passo. Certo non tutti erano così sprovveduti come il giovane contadino Giorgio, e sicuramente non tutti erano così essenziali per la sopravvivenza materiale e umana della propria famiglia, come lo era lui. Ma ciò non toglie che lo stesso dio che parlò a Giorgio quella sera, aveva già convinto molti altri primi di lui a sfidare l'ignoto.

Così se gli fosse stato consentito di seguire il proprio destino, probabilmente la scelta di Giorgio avrebbe potuto trovare un senso, anche tragico, ma avrebbe dato pur sempre un significato umano alla sua esistenza. Perso nella terra americana avrebbe potuto dire: 'è per questo che sono stato chiamato'.

E' così, del resto, che funziona la vita di noi tutti. Molte delle cose che scegliamo o che ci accadono ci appaiono chiare e sensate solo dopo che si sono realizzate. Riusciamo a capirle e a comunicarle solo dopo averle vissute. Spesso fare le cose è l'unico modo per convincere gli altri delle nostre ragioni. Quale altro modo avrebbe potuto usare, infatti, Giorgio per mostrare di non essere pazzo, se non quello di andare in America? E quale trappola peggiore si può immaginare di quella che fa proprio di questo la prova della sua pazzia? Sei pazzo perchè cerchi di dimostrare cose che non si possono dimostrare... Resti pazzo perchè non ti lasciano dimostrare di non esserlo.

Credete sia insensato lasciare a Giorgio il beneficio del dubbio? E' infatti probabile che il dio che gli ha parlato sia frutto della sua sola fantasia, così come è possibile, e nessuno può escluderlo con certezza, che sia lo stesso che diede a Mosè la tavola dei dieci comandamenti. Quelle stesse regole che ancora oggi gran parte dell'umanità rispetta o tenta di trasgredire senza farsi travolgere dal senso di colpa.

Non c'é alcuna differenza fra le azioni compiute da uomini che sparano addosso ad altri uomini, obbedendo agli ordini dei propri superiori o a quelli del demonio. Così come non c'é alcuna differenza fra le omissioni di uomini che temono la giustizia penale o quella divina.

Dovremmo forse imparare a confrontarci e rispettare le ragioni di ognuno, senza fare distinzioni arbitrarie fra cose possibili o impossibili. Il che significa che dovremmo rinunciare a tentare di tornare ad essere normali o a normalizzare qualcun altro, costruendo fra noi un nuovo equilibrio esistenziale.

Penso potrebbe essere praticabile considerare e trattare i pensieri, le idee e le azioni per quello che sono, aldilà del grado di condivisione e di comprensione che ne abbiamo. Personalmente trovo difficile da accettare il fatto che delle persone torturino altre per le loro idee, ma non considero per questo i torturatori dei malati che agiscono sotto l'influsso di un processo patologico, ma piuttosto esseri razionali che scelgono di agire in base alle loro convinzioni e idee. Le ragioni del serial killer che strappa il cuore delle sue vittime, non possono essere considerate sintomi di malattie mentali diverse di quelle da cui sono affetti i guerrieri indiani che strappano lo scalpo delle loro vittime o gli psichiatri che praticano la psicochirurgia. O ognuno di loro è malato o, molto più sensatamente, non lo è nessuno. Sono esseri umani che mutilano altri esseri umani per raggiungere un fine che ritengono più importante della vita stessa dell'altro. Convinzione tremenda senzaltro, ma parte del patrimonio delle possibilità umane.

Ho passato gli ultimi quindici anni della mia esistenza a confrontarmi con idee e esperienze più o meno lontane dal mio modo di pensare e di vivere. Ho accettato la sfida che queste lanciavano al mio corpo e alla mia mente. Ho dormito per terra a casa di Salvatore per mostrare ai suoi concittadini che la violenza di cui lo si accusava non stava in lui, ma da qualche parte fra di noi. Ricordo ancora lo sguardo sorpreso del vigile urbano mentre ascoltava che ero salito con lui in soffitta e avevo parlato tranquillo con lui mentre usava un martello. Quando mi avevano parlato di lui, correva voce che fosse un giorno entrato nella chiesa del paese e avesse lanciato un pesante candelabro contro i parrocchiani impauriti. Inutilmente avevo chiesto a tutti se ricordavano che cosa avesse detto o se avesse mai giustificato quell'atto. Nessuno aveva prestato attenzione alle sue parole, come normalmente si usa in questi casi, nessuno ricordava. Indagando non riuscii a trovare nessuno che avesse assistito a quel fatto. In realtà, come spesso succede, non era avvenuto niente di quanto si tramandava sul conto di Salvatore. Ciò che riuscii a ricostruire è che era entrato in quella chiesa e aveva afferrato un cero lasciando cadere innavertitamente il candelabro sul quale era posto. Se non c'era stata vera aggressione, ci fu vero terrore. Un terrore così certo da far ancora tremare le ragazze e i vecchi quando Salvatore passava loro vicino con il suo passo veloce da lupo.

Sopra uno dei muri di casa Salvatore aveva disegnato un semicerchio con una freccia che andava in senso antiorario. Gli chiesi cosa significasse. 'E' la direzione che seguo per fermare il tempo e costringerlo a tornare indietro'. Ognuno di noi ha una qualche idea o nostalgia di un paradiso perduto di felicità da cui è stato cacciato. Ognuno di noi si sente, a volte, esiliato in un mondo a cui non appartiene. Salvatore avrebbe voluto portare il tempo indietro fino all'ultimo battito del cuore della madre e fermarlo per sempre, lasciare che restasse viva per sempre. O almeno così credevo.

Mi avevano raccontato che era sempre stato un bambino molto legato alla madre, timido, sempre chiuso in casa a studiare e fantasticare, in quella casa con le persiane eternamente chiuse, senza aria, né luce. Se ne stava in soffitta a leggere, mentre la madre mandava via gli intrusi e lo proteggeva dal mondo. Allevava così il suo lupo e il suo dolore.

Era successo qualcosa prima che Salvatore nascesse. Me lo raccontarono i vicini tirandomi dentro una casa e usando il tono delle cose che tutti sanno ma che nessuno dice. Salvatore aveva già vissuto in quella casa, soltanto un anno prima che nascesse di nuovo. Era un bambino sorridente e socievole di quattro anni e sua madre era la gioia del quartiere. La porta era sempre aperta e lui giocava sul marciapiede fra le braccia del mondo.

Poi l'incantesimo era stato rotto, come nelle peggiori fiabe, da un auto con uomini in divisa che sbandando lo aveva travolto, uccidendolo sul colpo. Mi raccontarono sottovoce che la madre era impazzita dal dolore e, come se ciò non bastasse, era stata accusata di essere responsabile di quella morte per non aver saputo custodire quel suo bene prezioso. In un attimo la terra si era oscurata e sua madre era morta, anche se il suo cuore batteva ancora.

Chissà chi, e in nome di quale teoria, l'aveva convinta a partorire di nuovo per colmare quel vuoto. Chissà chi aveva potuto pensare che potesse nascere da lei, ormai morta, un'altra forma di vita. Ma così era stato e Salvatore si era ritrovato a rinascere in una casa sconosciuta e infernale, prigioniero di quel dolore e testimone di quella ferita che non si sarebbe più rimarginata.

Mentre me ne stavo per terra a sentire il corpo e l'anima di Salvatore rigirarsi nel letto senza pace, sentii in qualche modo che lui non voleva tornare ad essere bambino, voleva solo non essere mai nato, avrebbe voluto portare indietro il tempo fino all'attimo prima di nascere, stroncare quel piccolo cuore e chiudere quella maledizione per sempre. Il lupo, il pericoloso pazzo, imprevedibile e incosciente, voleva solo non essere mai esistito, voleva che lo cancellassero con una gomma di pane.

In qualche maniera intuii che il mandare in frantumi le vetrine del paese o provocare le reazioni della gente, come faceva lui, era come darsi un pizzicotto sul braccio per vedere se si sta sognando e se si è ancora vivi.

Da cosa doveva guarire Salvatore? E quella che chiameremmo una guarigione non sarebbe forse il puro e semplice rassegnarsi al proprio destino? C'é una verità paradossale nel vecchio assioma psichiatrico dell'inguaribilità e incurabilità della follia. Di fatto le cose stanno proprio così: nessuno guarisce dalla malattia di essere quello che è, se non a prezzo di perdere definitivamente se stesso.

Le esperienze antipsichiatriche non sono esperienze di guarigione. Il male, presunto o reale, non viene estirpato ma entra a far parte del modo in cui le persone guardano, pensano, parlano e si relazionano fra di loro. Questo con buona pace di tutti coloro che chiedono a noi alternative alla psichiatria: alternative che non esistono e che noi non cerchiamo. Sono convinto, infatti, che non ci sia niente di meglio della psichiatria per fare il lavoro sporco che la psichiatria fa, per farlo rispettando le apparenze e nel modo più scientifico possibile.

Se vogliamo, l'antipsichiatria è interessata solo a ridare senso e direzione a ciò che la psichiatria stigmatizza come insensato, cerca di praticare ciò che la psichiatria intende curare, di accettare il rischio di impazzire laddove la psichiatria ne alimenta la paura. Una volta che le idee e le azioni di Salvatore ritornano ad essere suoi pensieri e sue intenzioni, chiunque voglia entrare in relazione con lui vi si deve confrontare. Il confronto (e lo scontro) con il suo modo di essere non produce in sé gioia o dolore, fà sì che la sua vita ritorni ad essere considerata una forma di esistenza umana. Salvatore potrà essere inseguito con coltello da qualche negoziante irato, oppure unirsi ad un gruppo di cultori di riti misterici, freguentare la chiesa o i cimiteri, essere incriminato per danneggiamenti, avere riconosciuto torto o ragione... come succede ad ognuno di noi...

Non c'é alcuna patologia nel girare in senso antiorario per cercare di fermare il tempo, può essere anche divertente. Non c'é necessariamente sofferenza in questo, se non quella derivante dal fatto che ciò non funzioni o che gli altri non ti capiscano. Un aiuto allora potrebbe essere trovare un'altra strada meno faticosa e più efficace per raggiungere questo scopo.

Salvatore l'ha trovata, si è lasciato seppellire in una comunità psichiatrica e invadere chimicamente ogni angolo produttivo della propria mente. Si è lasciato cancellare, per quanto ciò sia possibile, dalla faccia della terra. Non l'ha fatto per guarire, ma per realizzare il suo folle tentativo di cancellare la sua nascita. Un tempo forse si sarebbe arruolato nella legione straniera. Nella nostra cultura non esiste alcuna scelta più radicale per chi voglia far perdere le proprie tracce e perdere lui stesso ogni traccia di se, che affidarsi alle cure psichiatriche. Dopo anni di resistenze è tornato nel ventre minaccioso della madre, ma non si aspetta più di nascere, ma quella puntura letale che spesso le vittime psichiatriche invocano per porre fine alla loro vita insensata.

Alle volte però sogna e si sveglia ancora in quella casa. Alle volte passando li accanto un brivido mi percorre lungo la schiena.