Libri
DIzionARIO ANTIPSICHIATRICO
esplorazioni e viaggi attraverso la follia
INDICE 1.Introduzione 4.Paradossi psichiatrici 7.Dizionario minimo
  2.Che cos'è
la malattia mentale?
5.Ipotesi di sopravvivenza 8.Bibliografia
3.Che cos'è
l'antipsichiatria?
6.Mitologie
antipsichiatriche
 

CHE COS'E' LA MALATTIA MENTALE ?

" A che servirebbe, se conoscessimo tutto ciò che accade nel cervello durante la sua attività, se potessimo penetrare tutti i processi chimici, elettrici e così via, fino all'ultimo dettaglio? Qualsiasi oscillazione e vibrazione, qualsiasi evento chimico e meccanico, non è mai uno stato d'animo, idea. Comunque vadano le cose, quest'enigma resterà insoluto fino alla fine dei tempi, e io credo che se oggi venisse un angelo dal cielo e ci spiegasse tutto, il nostro intelletto non sarebbe nemmeno capace di comprenderlo "


(W. GRIESINGER)


Il dr. Griesinger è l'essere umano a cui viene imputata la responsabilità di aver affermato che le malattie mentali sono malattie del cervello, dando inizio probabilmente al più tragico errore scientifico della storia dell'evoluzione della conoscenza umana.

L'affermazione di Griesinger ci appare tanto ovvia quanto è falsa. Falsa perché non esisteva, né esiste, alcuna prova che quelli che via via individuiamo come comportamenti indesiderabili, siano dovuti a qualche cosa che non va nel nostro cervello. Il che non vuol dire che non ci siano comportamenti che possiamo trovare intollerabili, insensati, incomprensibili o pericolosi per la nostra integrità, ma solo che essi non sono frutto del modo in cui funziona il nostro cervello o la nostra biochimica, allo stesso modo in cui la paura del rapinatore che mi sta derubando non deriva dall'adrenalina che viene pompata in circolo nel mio corpo, ma dalla pistola con cui mi minaccia.

La paura non è l'adrenalina, come la mente non è il cervello. Se una persona ragiona in una maniera diversa dalla mia ciò non può essere prova che il mio o il suo cervello siano malati. Non possiamo usare come prova di malattia neanche il fatto che un ragionamento non sia condiviso da nessuno o che abbia un effetto che la maggiorparte di noi ritiene negativo. Ci sono una serie di esempi storici che ci dicono che l'evoluzione della nostra conoscenza avviene spesso attraverso queste intuizioni individuali e deliranti; così come esistono ragionamenti umani dalle conseguenze nefaste che vengono definiti e studiati come fenomeni culturali e storici. Non voglio ricordare qui quell'uomo che per primo intuì che viaggiamo nello spazio senza una metà apparente e non siamo il centro dell'universo; né rammentarvi che i ragionamenti su cui si sono fondate nazioni e sistemi sociali quali il nazismo o la russia staliniana, non sono considerate sintomi di malattia mentale e i cervelli che ancora oggi le pensano non sono per questo considerati malati.

Facciamo una differenza illogica fra le logiche che muovono i nostri comportamenti. E come se pensassimo che certi pensieri siano cose del tutto simili alla frequenza del battito cardiaco, alla pressione arteriosa o alla dopamina che trasmette gli impulsi da un cellula nervosa all'altra. Così come una delle funzioni del cuore è mandare in circolo il sangue, così crediamo che una delle funzioni del cervello sia quella di pensare. Come esiste una norma che regola la frequenza dei battiti del nostro cuore, crediamo che esista un modo normale di pensare.

Questa opinione, aldilà delle apparenze e delle similitudini che usa, non ha niente a che vedere con un approccio scientifico o medico, e può essere messo facilmente in crisi da uno sguardo alla nostra quotidianità.

Se i pensieri sono una funzione della biochimica cerebrale, e certi pensieri l'espressione del suo funzionamento normale, gli errori dovrebbero essere vere e proprie malattie mentali. In parte, come sappiamo, è così. Giudichiamo malata di mente la donna che ci ferma alla stazione e dice che siamo i suoi figli. Non abbiamo dubbi: si sbaglia perché la sua biochimica è sconvolta e il suo cervello è ammalato; così come riteniamo malato il cervello di chi afferma di essere uno qualsiasi dei personaggi storici vissuto nei tempi recenti e remoti.

E' indicativo rilevare a tal proposito che non consideriamo normalmente sintomo di malattia la credenza, diffusa in oriente, nella reincarnazione. Milioni di individui in tutto il mondo credono di aver già vissuto altre vite e, in questo senso, possono essere Napoleone come il principe Siddharta, eppure non si ritiene siano affette da alcuna malattia. Non c'é dubbio che se in quelle culture una persona afferma di essere in realtà qualcun altro, questo fatto viene preso in seria considerazione ed è attentamente valutato come una possibilità concreta.

Potrei portare decine di esempi come questo, tutti mostrerebbero che non esiste esperienza umana che non sia stata considerata sensata in qualche cultura o epoca, o che, al contrario, non possa diventare insensata in altre culture e epoche. Mentre non sembrano esserci differenze sostanziali sul modo di funzionare del cuore e dei polmoni di un buddista e di un cattolico, nell'anno mille o alla fine del ventesimo secolo, il loro cervello sembra funzionare in un modo del tutto diverso e elaborare via via concetti e idee sempre nuove. A chi è convinto di saper discernere fra i pensieri sani (quelli che denotano il buon funzionamento del cervello) e pensieri malati (quelli sintomo di malattia mentale), va chiesto: è sano il cervello occidentale che pensa che finiamo con la nostra morte fisica, o lo è quello orientale che crede alla reincarnazione? Erano sani i cervelli di coloro che pensavano che il sole girasse intorno alla terra e che questa fosse piatta? E cos'é che ha reso prima sani, poi malati, poi di nuovo sani, i cervelli di quelli che pensano di fare l'amore con persone del loro stesso sesso? E che dire dei cervelli degli psichiatri che hanno pensato che questa fosse una malattia?

Tutto questo non ha senso. Invece di continuare a tracciare grossolane e tragiche suddivisioni di tutti i possibili pensieri che possono passarci per testa, dovremmo accettare la verità elementare che il pensare non determina i contenuti dei pensieri. In altre parole, i meccanismi biochimici che rendono possibile l'elaborazione di quanto sto scrivendo, non sono causa (né responsabili) delle mie idee.

L'unico modo tollerabile di far cambiare idea ad una persona è il confronto. Si può usare anche la minaccia e il terrore, ma in questo caso non si cambia idea, si smette solo di comunicarla in pubblico. Se agiamo sul pensare, sui meccanismi biochimici e cerebrali che rendono possibili i pensieri, noi non agiamo su quella idea ma sulla capacità generale di essere una persona razionale e sensata. Tentare di far smettere qualcuno di pensare di essere Napoleone iniettandogli uno psicofarmaco, equivale a tentare di far paura a qualcuno iniettandogli qualche sostanza che stimoli la secrezione di adrenalina. Nell'un caso e nell'altro non c'é vera identità, né vera paura.

Forse tutto ci sembrerebbe meno confuso se accettassimo che:

" Ragione e Non-ragione sono entrambe dei modi di conoscenza. La follia è un modo di conoscere, un'altra maniera di esplorazione empirica sia del mondo 'interiore' che di quello 'esterno' ". (COOPER D. 1979, pag. 132)


Ma di che tipo di conoscenza è depositario chi afferma che lo spirito di un uomo sta nel colore dei suoi occhi e che coloro che hanno gli occhi scuri hanno perso l'anima? E che tipo di conoscenza è quella di chi legge gli astri? Antonio non ha fatto meno verifiche e correlazioni matematiche fra le sue idee e la realtà, di quanto ne abbiano fatto gli astrologi. Eppure della loro conoscenza si servono tutti. Alcuni la bollano come fantasia e superstizione, ma nessuno pensa che sia frutto di menti malate.

Quelli che chiamiamo deliri non sono altro se non ragionamenti non condivisi. La loro patologia non è data tanto dal fatto che essi siano necessariamente errati, quanto dal fatto che non siano condivisi. Questo spiega il significato di quel fenomeno, altrimenti inspiegabile, che fa sì che taluni sintomi di malattia mentale possono smettere di essere tali e, al contrario, alcune idee prima condivise possono entrare a far parte della diagnostica psichiatrica.

Naturalmente nessuno di noi accetterebbe di dire che l'unica differenza fra il nostro modo di ragionare e quello di un malato di mente sta solo nel grado di condivisione che il nostro contesto esprime nei nostri confronti. Accettare il fatto che il ragionamento dell'altro abbia un valore, significa ritenere le persone che definiamo malate come una minoranza perseguitata e discriminata in ragione delle proprie idee. Questo ci metterebbe nella posizione in cui loro ci vedono già da decenni: quelli di carcerieri e persecutori.

Forse lo siamo. Sicuramente lo siamo stati per tutti quegli uomini e quelle donne che abbiamo internato perché si masturbavano e che abbiamo castrato per curarli. Lo siamo stati per Luciano che abbiamo legato (o abbiamo acconsentito che lo facessero) ad un tavolo per il suo coma quotidiano. Lo siamo stati e lo siamo per tutti quelli che abbiamo trascinato via dalle loro case, dai loro affetti, dal loro lavoro, dalla loro fantasia e dalla loro missione e costretti a riabilitarsi, a rinnegare i loro sentimenti, i sogni e a rimangiarsi le loro idee.

Oggi magari siamo sinceramente scandalizzati del fatto che degli innocenti siano potuti finire in manicomio. In realtà chi ha internato per decenni e considerato sintomo di malattia mentale l'adulterio, la masturbazione o l'omosessualità, non ha fatto niente di diverso da chi oggi rinchiude o cura Franco perché non trova più il suo volto. Allora come adesso gli psichiatri sanzionano, con le loro cure, tutti i comportamenti e le opinioni che non rispettano l'Ordine mentale, familiare e sociale costituito. Fra qualche decennio, i nostri figli si scandalizzeranno, forse, del fatto che trattiamo da malati di mente coloro che esercitavano, o subivano, la telepatia, mentre saranno pronti a giurare che i veri malati sono, che ne sò, quelli che cercano il contatto fisico e lo preferiscono a quello virtuale. E così via all'infinito. Una volta che abbiamo costruito questo giocattolo mortale, siamo costretti a usarlo prima che altri lo usino contro di noi. Nessuno ne é esente. Nessuno può sperare di essere così conformista da non essere notato e schedato dalla polizia psichiatrica. Neanche gli psichiatri stessi.

Il paradosso in cui l'apparente ovvietà del giudizio psichiatrico ci intrappola, può essere chiarito da questa riflessione:

"...se ciò che rende le espressioni 'schizofreniche' 'sintomi' è il fatto che siano incomprensibili, rimangono ancora tali quando non lo sono più? E se tali espressioni divengono comprensibili, perché rinchiudere nei manicomi coloro che le esprimono? E ancora: perché rinchiudere delle persone anche se le loro espressioni sono incomprensibili?" (SZASZ T. 1984, pag. 28)


I sintomi della malattia mentale sono tali perché sono comportamenti e idee che non riusciamo a capire. Se ci trovassimo davvero in campo medico, ciò costituirebbe un paradosso. La natura dei sintomi psichiatrici non ha niente a che vedere con la malattia organica di cui dovrebbero essere i segni. La febbre è un evento fisico che indica un processo che sta avvenendo nel nostro organismo. Ma di quale processo biochimico è sintomo la paura che qualcuno mi voglia uccidere? E come è possibile che questa stessa paura sia considerata per alcuni di noi segno di un buon funzionamento cerebrale, mentre per altri sintomo psichiatrico fra i più gravi?

La paura di essere uccisi è sana se è condivisa da chi ci sta intorno, come ad esempio dai soldati in una trincea. Diventa patologica se altri non credono che esista questa minaccia o, ancora, se non la trovano comprensibile.

In genere l'incomprensibilità della nostra paura nasce dal rifiuto dei nostri aggressori di riconoscersi tali. Il giudizio psichiatrico entra in questo conflitto e sancisce che la nostra paura in realtà è una malattia mentale. Abbiamo decine e decine di prove raccolte e citate nei libri di testo di psichiatria del fatto che i pazienti sono affetti da deliri di persecuzione. Molte di queste prove sono esempi dell'insensata resistenza che i pazienti involontari oppongono alle loro cura, affermando che trattasi di una incarcerazione e di un complotto teso a distruggerli. Soffrono di un delirio di persecuzione perché rivelano qualcosa che non abbiamo voluto, e non vogliamo, vedere.

Un tipico esempio. Un omone prende la parola in un dibattito pubblico. Ha appena finito di parlare il signor C., internato per decenni nel manicomio di Reggio Calabria. Ha raccontato le sevizie subite. Era uno di quei sudici e irrecuperabili corpi, abbandonati per terra, di cui sono cosparsi i manicomi. Veniva scansato col piede dai medici e dagli infermieri. Lui rimaneva immobile, non reagiva, stretto nella morsa della paura.

Qualcuno di noi era ancora commosso da quel racconto, altri avevano avuto già il tempo di commentare quanto fosse necessario cambiare il modo di curare malati come il signor C. Nessuno si era chiesto, come spesso succede, cosa ne fosse stato dei suoi curatori. Forse qualcuno era lì con noi ad applaudire, forse qualcuno di loro poteva continuare a curarlo anche ora che era uscito dall'inferno.

Gli psichiatri non hanno cambiato idea,continuano a perseverare nel loro errore, continuano a pensare che il signor C. ha bisogno di loro, delle loro nuove terapie. In un altro dibattito, qualche anno dopo, Paolo mi avrebbe colpito con la sua lucida accusa alla nostra incosciente normalità: "Ora io sto fuori" dichiarava "Ma non sto bene, perché ci sono sempre questi psichiatri che vengono a comandare pure nelle case nostre". Il signor C. lanciava la sua accusa, ma nessuno di noi poteva raccoglierla. Noi non eravamo il suo pubblico ma i suoi aggressori.

Applaudivamo. L'omone cominciò a parlare. A braccio. Il tono oratorio. Il brusio smise di colpo. La sua voce sovrastò ogni cosa.

"Auditorio, cari amici presenti, vicini e lontani, come si suol dire, infermieri, professori di psichiatria e, se ce ne fossero, direttori di manicomio; gente che si appella ad una migliore società, meglio, proletariato e borghesia uniti insieme in un vincolo di infamia. Il signor C. è stato preso in giro, sì, il sig. C. è stato considerato un povero cicloide perché non ha una terminologia abbastanza scientifica, che veniva qua a portare le sue rimostranze, che veniva qua a dire che praticamente aveva bisogno delle feci, che gli avevano sottratto le feci.


Voi direte 'Ma lei cosa sta dicendo?' Ebbene io parlo in linguaggio psicanalitico".

L'omone non era più lì. Stava davanti allo psichiatra, in piedi, gli infermieri ai lati e rispondeva ad una ad una alle accuse, con il suo orgoglio e la sua dignità. In quella stanza c'eravamo tutti e tutti eravamo sordi alle sue parole.

"Perché voi non sapete che cos'é un ospedale psichiatrico, né che cos'é la società. Ma io vi dico che le porte sono illusorie, perché aldilà di quella porta voi potete trovare benissimo tre o quattro gorilla che possono farvi nove fiale di Serenase, tutte di seguito, endovena o quasi.

Perché io posso testimoniare con chiarezza: questa società è malvagia, è malsana. I padri di famiglia, i cosiddetti padri di famiglia, sono degli assassini, siano essi infermieri, siano essi professori.

Noi dobbiamo semplicemente lavarci la faccia per guardarci: e la nostra faccia è sporca. La faccia di questa società non vale nulla, perché voi, tutti quanti, siete in malafede..."


Era vero.

"Quando voi parlate di megacrania, di oligocrania, di frenastenia, di cicloidia, di schizoidia, voi non dite altro se non i vostri limiti. Perché voi siete dei fessi, voi non avete cuore e non sapete cosa vuol dire cordialità. Perché se aveste cuore avreste anche intelligenza. Lo disse anche S.Agostino, io non sono né cristiano, né cattolico: ' Credo ut intelligam, intelligo ut credam' . Credo per capire, capisco per credere.

Ma voi, oltre a non essere latinisti, non siete nemmeno uomini, perché voi non sapete che l'humanitas è l'unica cosa a cui si debba aspirare. Voi sedete nei tribunali, voi sedete negli ospedali, ma siete soltanto dei fasulli e degli otri gonfi. Voi siete dei saccenti ignoranti, degli svolazzatoi frottolanti. Umanità, voi potete ridere, ma siete sempre colpevoli..."


Un mezzo sorriso accompagnò tutto il discorso dell'omone. Quel mezzo sorriso tipico della gente comune che dice 'Questo non ci sta con la testa'. Io, come gli altri, non l'avevo ascoltato. Ero rimasto attonito a osservarne i movimenti veloci delle braccia, la figura enorme e nera piantata sul palco e quei suoi occhi fissi in un punto oltre la sala e il tempo in cui mi trovavo. Non avevo ascoltato le sue parole, la mia attenzione era rapita dal tono e dall'altisonanza del linguaggio. A me come agli altri, l'omone appariva come la caricatura di un attore che recita a soggetto. La stessa impressione che ci fanno le persone che si aggirano in tutte le piazze del mondo, gesticolando e declamando ogni sorta di verità. La nostra attenzione è rivolta a guardare dove vanno e a controllarne i movimenti. Non afferriamo ciò che ci dicono e, paradossalmente, tanto più tentano di farsi ascoltare e tanto meno noi lo facciamo, terrorizzati come siamo di quello che potrebbero farci.

Non so se l'omone soffriva di qualcosa che potesse sensatamente chiamarsi un delirio di persecuzione. Di fatto lui era stato aggredito, legato, bastonato, rinchiuso e trattato per anni da animale...a causa di ciò che pensava e delle cose in cui credeva. Se non una persecuzione, qualcosa di molto simile. E cosa dire di noi che siamo certi che l'omone possa o voglia farci del male, pur se non ci ha mai aggredito? Come chiamare la nostra paura? Un delirio? Niente affatto. E' un sano e sensato istinto di sopravvivenza che trasmettiamo ai nostri bambini. E' insensato e delirante temere quello che possono farci degli psichiatri, armati di mezzi fisici e chimici di contenzione, così come del potere di influire sulla nostra capacità e libertà di scelta; mentre è normale aspettarsi da coloro che sono sottoposti a cura psichiatrica ogni sorta di insensata violenza.

Fortunamente un amico aveva registrato il discorso dell'omone. La trascrizione letterale delle sue parole mi colpisce tuttora, non solo per la verità che ci leggo, ma anche per la mia sordità congenita. Era come se dentro la mia testa scattasse un meccanismo automatico di riconoscimento del discorso dell'omone come delirio. Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa e, probabilmente, non sarei andato oltre ad un mezzo sorriso.

Mi chiedo, se fossi trattato sistematicamente come io avevo trattato l'omone quella sera, arriverei a conclusioni diverse dalle sue? Potrei essere accusato di delirare se dico che c'é una congiura del silenzio nei miei confronti?

Sono quasi certo che molti fra coloro che sono giunti fin qui, hanno pensato che Giovanni e l'omone non erano in realtà pazzi, ma vittime di un'incomprensione o di un errore psichiatrico. Ciò è probabilmente vero, ma vale per tutti coloro che sono in cura psichiatrica. In questo senso non esistono errori psichiatrici: è la psichiatria stessa ad essere un errore (quando non un orrore).

L'unica differenza fra Giovanni e il nostro vicino di casa che sbraita dalla finestra tutta la notte contro persecutori invisibili, è che abbiamo avuto modo di ascoltarlo e di sapere qualcosa di lui attraverso la mediazione di un libro. Sono sicuro che nessuno di voi troverebbe normali né l'uno né l'altro se li incontrasse, così come la stragrande maggioranza di quei milioni di esseri umani che hanno visto e sono stati emozionati dal film Qualcuno volò sul nido del cuculo, non trovano normale né applaudono coloro che scappano dai reparti psichiatrici.

Del resto conosco psichiatri che si emozionano ancora di fronte al dramma shakespeariano di Giulietta e Romeo, ma non esitano un istante a considerare malati di mente e a ricoverare coattamente quanti dicono, vogliono o tentano di uccidersi per amore.

Gli psichiatri non si sentono carcerieri pur tenendo le persone sotto chiave. Loro, sembrano dire, non farebbero mai l'errore di lobotomizzare Jack Nicolson, come accade nel film, saprebbero distinguere fra chi ha bisogno di prendersi una vacanza dal suo cervello e chi no.

Presunzione tanto assurda quanto tragicamente falsa.

Alcuni anni fa feci questo esperimento. Entrai in un negozio di abbigliamento per avvertire la commessa che da lì a poco sarei tornato con una signora che era una mia paziente e che era affetta dalla strana mania di strappare i vestiti. La rassicurai che la donna adesso era sotto cura e compensata e, che ad ogni modo, ci sarei stato lì io per ogni evenienza. Naturalmente era tutto falso. Né la commessa, né la persona che era con me sapevano di questo mio esperimento. Chiunque di voi voglia ripetere l'esperimento troverà quanto innaturale possa essere l'atteggiamento di una persona che crede di aver davanti un malato di mente. Non solo, potrà osservare il potere pragmatico che hanno le nostre definizioni. La commessa aveva tradotto le mie parole da semplici affermazioni in dato di fatto.

I più ottimisti obietteranno che un errore così madormale non può capitare a dei professionisti del settore, preparati a distinguere fra comportamenti sani e patologici. Basta però che facciano un giro nei manicomi o presso i reparti e gli ambulatori psichiatrici per cambiare drammaticamente idea. E' sufficiente che leggano una qualsiasi cartella clinica per constatare come le informazioni dei familiari e i giudizi degli psichiatri vengano trascritti come dati di fatto, mentre le opinioni del paziente siano sempre precedute da espressioni come 'a detta del paziente...', 'il paziente riferisce che...'. Il che equivale a dire che tali idee non esprimono tanto la sua versione dei fatti, quanto la malattia per il quale è internato.

Le cartelle cliniche non raccolgono i dati o i sintomi di alcuna malattia. Le diagnosi psichiatriche, a rigore, non si basano neanche su ciò che un individuo fa, dice o pensa, ma su quanto gli altri riferiscono egli faccia, dice e pensa. Teoricamente, e praticamente, noi potremmo ottenere una diagnosi psichiatrica per ognuno dei nostri familiari e amici. Ci basterebbe riferire alcuni comportamenti che gli psichiatri chiamano sintomi e poi affermare che il nostro congiunto o amico nega di compierli. Il fatto che un individuo possa sembrare normale non rileva per uno psichiatra, questa normalità deve essere testimoniata da chi gli sta accanto.

L'esperimento di Rosenham, condotto da professionisti americani e più volte citato nei testi di critica alla psichiatria (cfr. ANTONUCCI G. 1986; FORTI L. 1975) , è un'altra prova dell'assurda pretesa della psichiatria di saper e poter distinguere il sano dal folle. Un gruppo di professionisti si presentarono in una serie di strutture psichiatriche con vario orientamento terapeutico cercando di farsi ricoverare. Tutti affermavano di aver udito delle voci che in maniera confusa affermavano cose come 'inutile' o 'vuoto'. Durante il colloquio di ammissione i pazienti avevano risposto alle domande correttamente riguardo alla loro situazione sociale, le loro esperienze e i loro rapporti. Subito dopo il ricovero avevano smesso di lamentare il sintomo per il quale erano stati ricoverati e avevano preso a collaborare attivamente con il personale.

Per tutta la durata del ricovero nessun membro dell'èquipe aveva avanzato dubbi circa la loro malattia. Nel loro rapporto gli sperimentatori citano il fatto paradossale che gli unici a nutrire dubbi sulla loro identità, erano stati altri ricoverati che li avevano accusati di non essere pazienti ma persone che erano lì per una qualche ricerca o controllo. Che i pazienti siano osservatori sensibili e attenti della realtà non deve stupirci, quello che invece bisogna chiedersi, e che gli sperimentatori dimenticano di segnalare nel loro rapporto, è se questi ricoverati che li avevano riconosciuti e, probabilmente, denunciati ai medici del reparto, siano stati curati di questo loro delirio. E, in caso di risposta affermativa, cosa avevano pensato questi terapeuti quando era stato loro rivelato che i loro pazienti avevano ragione? Come avevano giustificato questo errore? E come poteva essere evitato?

Credo di non aver mai sentito sulla bocca e negli scritti di alcun psichiatra una sola parola di sincera e chiara autocritica circa gli orrori a cui aveva partecipato, a volte ignaro e incosciente, altre volte consapevole e sadico. Ogni lobotomia, castrazione, febbre malarica, internamento, camicia di forza, discinesia tardiva, elettroshock, interdizione... è stata giustificata come il prezzo necessario da pagare sull'altare della ricerca medica per debellare questa terribile malattia. Una malattia tanto terribile che le persone non hanno mai ammesso di avere, una malattia che non è stata mai tanto terribile quanto le terapie che hanno cercato di curarla.

In psichiatria non ci troviamo mai davanti a delle terapie, ma a degli esperimenti. Le cose che gli psichiatri fanno non sevono a curare quanto a dimostrare l'esistenza della malattia mentale. Come scrive SZASZ:

"Per stabilire la natura organica della paralisi, i ricercatori medici studiarono il cervello dei cadaveri dei paretici e cercarono di definire e di dimostrare l'istopatologia della malattia. Non cercarono però di dimostrare che la paralisi era una malattia organica del cervello, mutilando il corpo del paretico, chiamando questa una 'cura' e facendo illazioni da tale intervento 'terapeutico' sulla natura della malattia. Comunque la lobotomia, così come lo shock da insulina prima e l'elettroshock poi, furono introdotti nella psichiatria, e il loro impiego fu giustificato, in basa ad un simile pervertimento della logica e del metodo scientifico". (SZASZ T. 1984, pag. 89)


Lo stesso MONIZ, premio nobel per la medicina e sperimentatore di uno degli interventi più radicali che la psichiatria abbia mai sperimentato su cavie viventi, "...riconosce che il suo scopo nello sperimentare la lobotomia sugli esseri umani non era quello di trovare una cura per la 'psicosi' ma un supporto ideologico alla 'psichiatria organicistica' (...):

All'epoca del mio primo tentativo, nella comprensibile ansia di quel momento, tutte le paure furono spazzate via dalla speranza di ottenere risultati favorevoli. Se fossimo riusciti a eliminare certi complessi sintomatici di natura psichica, distruggendo i gruppi di connessione delle cellule, avremmo dimostrato in modo inequivocabile che le funzioni psichiche e le zone del cervello che contribuivano alla loro elaborazione erano in stretta relazione. Questo sarebbe stato un grande passo avanti e un fatto fondamentale nello studio delle funzioni psichiche su basi organiche" (SZASZ T. 984, pagg. 88-89)

Questo modo di sragionare non è frutto di una psichiatria arcaica, ma è fondamento della stessa logica psichiatrica. Negli stessi termini vanno giudicate tutte le terapie che di volta in volta gli psichiatri ci propongono o propongono ai nostri cari. Ciò vale anche per gli psicofarmaci. Scrive SZASZ:

"Il fatto, per esempio, che i cosiddetti tranquillanti maggiori influiscano sul comportamento degli psicotici in modi che molta gente considera desiderabili 'prova' che i 'pazienti' così 'curati' soffrono di una 'malattia mentale' che ha una 'base organica' "(SZASZ T. 1984, pag. 89)


Il ragionamento che ne sta alla base suona più o meno così

"...siccome il comportamento di persone dette 'schizofreniche' può essere cambiato dai farmaci, la schizofrenia è una malattia. Che questa argomentazione, così popolare oggi in psichiatria, sia falsa, lo si può dimostrare facilmente sostenendo un'argomentazione parallela: siccome il comportamento della gente comune o cosiddetta normale, si può cambiare dando loro alcool, che è un farmaco, la normalità è una malattia e l'assunzione di alcoolici una cura" (SZASZ T. 1984, pag. 121)


Ad ogni modo tutti gli sperimentatori furoni dimessi dopo qualche settimana con la diagnosi di schizofrenia (in un solo caso di psicosi maniaco-depressiva) e la prescrizione di terapia domiciliare.

Che cos'é dunque la schizofrenia? A prima vista senbra solo una definizione che delle persone sono autorizzate ad applicare ad altre riguardo quanto queste dicono di se stesse (o altri riferiscono di loro). Possiamo dire che la schizofrenia non sta nella testa di chi subisce questa diagnosi, ma nella testa di chi la fa. Con lo stesso arbitrio con cui noi vediamo nel comportamento di Giovanni una schizofrenia, possiamo vedervi e leggervi ogni altro siginificato umano o sovraumano. Niente vieta a nessuno di noi di pensare che egli sia un indemoniato, un ribelle, un immaturo, un extraterrestre, piuttosto che un malato. Le prove che possiamo portare a sostegno di ognuna di queste nostre affermazioni, infatti, stanno in quello che noi percepiamo del suo comportamento o comprendiamo delle sue ragioni. Non c'è alcuna differenza, dal punto di vista scientifico e conoscitivo, nel definire Giovanni un malato o un ribelle, nessuna di queste definizioni ci dice la verità su di lui. La differenza fra queste due affermazioni è solo operativa: consiste in ciò che ci è possibile fare a e di lui.

Naturalmente anche per l'esperimento di Rosenham è possibile sollevare dubbi circa la professionalità di coloro che accettarono i ricoveri ed elaborarono quelle diagnosi. Come è comprensibile molti sfidarono Rosenahm a ripetere l'esperimento presso la loro struttura dove sicuramente un errore del genere non poteva verificarsi. Vi ricordo che la diagnosi di schizofrenia non ha equivalenti, per quanto riguarda ai danni fisici, psichici e sociali che può determinare su chi è così definito, in nessuna altra diagnosi medica. Il grado di invalidazione delle nostre azioni, della nostra libertà di scelta, dei nostri giudizi, della nostra identità e personalità civile, dei nostri affetti, è pressocché totale. Se non esiste alcun danno dimostrabile alla base della diagnosi di schizofrenia, esistono danni drammatici e dimostrabili che l'applicazione di questa diagnosi provoca nella vita organica, psichica e sociale delle persone. Parlare in psichiatria di errore è un eufemismo. In ogni caso si tratta di un orrore.

Rosenham rispose alla sfida dei suoi colleghi variando il tema del suo esperimento. Alcuni falsi pazienti avrebbero tentato, nei tre mesi successivi, di farsi ricoverare in una di queste cliniche che dichiaravano di usare una diagnostica scientifica e certa. La sfida, rilanciata loro da Rosenham, era di provare se erano capaci di riconoscere gli sperimentatori quando si sarebbero presentati. Nel periodo dell'esperimento furono rifiutati dalla struttura un gran numero di ricoveri e, in molti casi, uno o più degli operatori segnalava dubbi circa l'identità dei pazienti. In realtà nessun falso paziente si presentò in quel periodo presso quella struttura.

Ciò non significa che esistano veri pazienti, ma semplicemente che gli psichiatri non sono neanche in grado di riconoscere con certezza nelle persone gli aspetti che loro stessi definiscono sintomi di malattia. I ricoveri e le cure psichiatriche solo in parte sono giustificati dalle diagnosi, spesso le diagnosi stesse sono giustificate dal tentativo di intervenire e risolvere i conflitti sociali e relazionali in cui siamo implicati. Una fiala di neurolettici endovena non è la cura di una qualche malattia, ma il modo per bloccare un individuo che sta mettendo casa sottosopra alla ricerca del proprio libretto di risparmi che noi terapeuticamente gli abbiamo sottratto e nascosto.

Certo esistono situazioni in cui il conflitto appare impossibile e incomprensibile, come nel caso in cui Franco si scalda col padre perché non sopporta il suo modo di stare a tavola, oppure nel caso in cui Francesca accusa i suoi di volerla avvelenare. C'é il conflitto fra Nino che non dorme la notte e si aggira per le strade del paese gridando e i suoi vicini che devono tornare a lavoro domattina. Sono conflitti difficili, certo, ma non malattie. Chiamarli così serve solo a negarli, a non affrontarli e ad acuirli.

Possiamo senzaltro ricoverare Franco, Francesca o Nino, e questa potrebbe sembrarci una soluzione. Chi di noi non sfrutterebbe la possibilità, se l'avesse, di far passare per malati mentali tutti coloro che lo criticano? E come possiamo biasimare gli psichiatri per quello che hanno fatto, quando noi usiamo la stessa loro tecnica con chi ci è più caro?

Ma questa non è la sola strada che abbiamo di fronte. Un'altra potrebbe essere quella di capire...