CHE COS'E' L'ANTIPSICHIATRIA ?
"Ricordo di aver pensato che gli schizofrenici sono i poeti strangolati della nostra epoca. Forse per noi, che dovremmo essere i loro risanatori, è giunto il tempo di togliere le mani dalle loro gole"
(David COOPER)
C'è un momento in cui le cose complesse diventano improvvisamente semplici e quelle confuse chiare e rilucenti. I buddisti lo chiamano satori, è un'illuminazione che ci fa vedere nella natura delle cose e di noi stessi, che ci fa afferrare in maniera immediata ciò che la nostra mente non riesce a immaginare. Non è un'idea o il pensiero di qualcosa, ma l'esperienza di una verità. Qualcosa di incomunicabile a parole o negli scritti, che sembra trasmettersi solo attraverso un'infezione invisibile e solo se ci esponiamo al contagio. Finché stiamo al sicuro dentro la nostra mente ordinata, niente può accaderci e niente accade...
Dieci anni fa, all'inizio dell'avventura del Comitato d'Iniziativa Antipsichiatrica, in un giorno mite di gennaio del 1986, nella sala comunale addobbata per l'occasione del nostro primo convegno pubblico, qualcosa del genere mi prese. Mi succede spesso, da allora, di essere invitato a tenere conferenze in sale come quella e incontrare, anche lì, lo sguardo di qualcuno che mi passa da parte a parte e che, sento, sa già ogni cosa.
Io allora non ero diverso da molti fra coloro che leggono i miei libri. Ero capace di citare brani, esperienze, idee e pratiche di ognuno dei padri storici della critica antipsichiatrica, mi accaloravo in lunghissime discussioni teoriche con altre persone che come me, erano più o meno ordinate nel vestire e nel comportamento, come amano dire gli psichiatri. Ma non sapevo ancora cosa significasse ciò che dicevo. Al contrario le parole e i concetti che andavo via via accatastando, andavano a erigere, nella mia mente e nella mia vita, dei muri solidi che dividevano la mente ordinaria da quella straordinaria, la mia normalità dalla mia possibilità di impazzire.
Non era quello che questi uomini dicevano, così come non è quello che io adesso scrivo, ma la mia mente aveva bisogno di trasformare ogni informazione circa ciò che può essere o significare la follia, in strumenti di difesa per permettermi di controllare l'ansia e il terrore di perdere il controllo o di non avere controllo sulle esperienze o sulle menti altrui. Mi succedeva ciò che penso succeda al giovane che, mi dicono, rifiuti le terapie psichiatriche che cercano di fargli ingurgitare, affermando 'Come dice Bucalo, io sono una persona, capace di scegliere e decidere della mia vita...', stimolando in quella santa donna di sua madre il comprensibile desiderio di far sequestrare tutti i miei scritti... Cercavo un modo per non afferrare i carboni con le mie mani, usavo mani simboliche per tirare pietre vere e non prendevo posizione.
Quella sera, dicevo, dopo un milione di parole, aprimmo il dibattito, e, come mi è successo un centinaio di altre volte, anche allora venne giù dalla sala un omone truce a prendere la parola. Conoscevo Pippo come tutti. Ne avevo paura come tutti. Giocava certo a suo sfavore la massa corporea e lo sguardo eternamente minaccioso. Del resto, per ben due volte, aveva conosciuto il manicomio criminale, per le sue reazioni violente nei confronti del padre e dei vigili urbani. Non avevo mai sentito la sua voce e, credo, difficilmente e volontariamente l'avrei fermato in strada per chiedergli un informazione, l'ora o una sigaretta.
Pippo si schiarì la voce e attaccò. Raccontò dal suo punto di vista quella sua storia che tutti si tramandavano, aggiungendo ogni volta particolari sempre più inquietanti. Come vi sentireste se vostro padre e vostra madre giudicassero tutto quello che fate sbagliato e tradissero la vostra fiducia internandovi poco più che quindicenne in manicomio? Cosa fareste se dessero sempre ragione agli altri e non prendessero mai le vostre difese? Di chi altri potreste più fidarvi? A chi aprireste il vostro cuore, a chi dareste la vostra amicizia? Il mostro tenuto lontano, ora era lì vicino ad un passo; il pazzo pericoloso mostrava il suo cuore e i suoi sentimenti: e questi sembravano straordinariamente simili ai nostri.
Se, e sottolineò se, era malato era affar suo. Lui solo era a conoscenza di quale fosse questa malattia, lui solo sapeva quale dovesse essere la cura. In realtà nessuno si era mai fatto carico delle esperienze che lo facevano sentire diverso e lo allontanavano dal mondo, nessuno lo aveva mai facilitato nelle cose che lo facevano sentire bene. Al contrario i suoi rimedi erano considerati essi stessi sintomi di una malattia che lui non riteneva di avere.
Ci disse che non esisteva cura migliore che lanciarsi nel vuoto con un paracadute, salire su un palco e cantare, fare ogni tipo di sport, bere alcool... Per queste cose lui era schernito e considerato sconnesso dai suoi concittadini, isolato e provocato dai vigili urbani che godevano nel ricoverarlo in psichiatria.
Allora Pippo era una sorta di parafulmini di tutte le nostre più segrete paure e pregiudizi. Sentirlo fronteggiare il nostro presunto ordine, quello stesso che aveva chiuso la questione con un non luogo a procedere per vizio totale di mente, metteva in crisi dalle radici la nostra normalità.
Due cose mi furono chiare in quel momento.
La prima: ciò che chiamavamo malattia mentale, non aveva niente a che fare con qualcosa che succedeva dentro la testa o nei sentimenti di Pippo, ma riguardava ogni genere di guai e problemi, presunti o reali, che lui ci creava.
La seconda: ciò che vedevamo come le prove della sua malattia, in realtà erano modi sensati di agire i propri sentimenti, le proprie idee o di fronteggiare le proprie emozioni. Invece di curarlo di malattie inesistenti, avremmo dovuto aiutarlo a realizzare le sue follie.
Man mano che parlava, il volo libero col paracadute o le canzoni di Celentano sul palco della festa del patrono, ci sembravano realtà di gran lunga più sensate di qualsiasi cura psichiatrica o antipsichiatrica egli avesse subito.
Era dunque questa l'antipsichiatria di cui avevo letto. Niente di diverso da quello che comunemente facevo e pensavo. C'erano dei fatti, dietro questi c'erano sicuramente dei vissuti. Non sempre mi interessava conoscerli, ma anche quando li ignoravo, non dicevo alle persone che erano pazze o malate, perché facevano quello che facevano. Pensavo, avrete pure i vostri buoni motivi, ma io ora voglio essere lasciato in pace a scrivere o a pensare ai fatti miei. Altre volte invece certe storie mi coinvolgevano e allora andavo a fondo e cercavo di dare una mano.
Sentendo Pippo, nella mia mente cominciò a sgretolarsi quel muro che divideva la normalità dalla follia. Cominciavo a vedere, sia l'una che l'altra, come due dei modi in cui chi ci sta intorno può definire ciò che riesce a capire o intuire di noi. Nella nostra vita non c'é alcuna discontinuità di sentimento o di senso fra la normalità e la follia. Le preoccupazioni di Pippo per la sua condizione economica, stavano accanto alla sua ansia di riuscire a convincere Adriano Celentano a battezzarlo. Non è che la sua mente fosse sana in un caso e malata nell'altro. Eravamo noi a fare questa differenza. Non c'era in lui nessuna rottura fra il suo pensiero ordinario e quello straordinario. C'era vera ansia sia nell'incertezza economica che nell'attesa di una risposta dal suo idolo.
Ho riflettuto a lungo su quel luogo comune che vuole che i pazzi non siano coscienti di esserlo. Ciò che salta ai nostri occhi, è quell'irragionevole presunzione che hanno nell'affermare che non c'é niente che non vada in quello che dicono, pensano o fanno, quando a noi appare evidente che non si comportano in modo normale. Cos'é che li rende ciechi di fronte a qualcosa che ci sembra obiettivamente insensato? Probabilmente niente. Dal loro punto di vista ogni cosa si muove in modo sensato e significativo. Sarebbe lo stesso per noi. Saremmo capaci di riconoscere la follia nel comportamento degli altri, ma non ne riconosceremmo traccia nel nostro.
Una donna incontra e parla da anni con la madre defunta. Poi dice alla figlia che è pazza se si iscrive alla scuola di maestro liutaio. In realtà nessuna delle due lo è, ma ciascuna può essere così definita se le sue scelte e la sua esperienza diventano intollerabile per gli altri. Così Irene che voleva farsi suora e che hanno internato con la diagnosi di delirio mistico. Lei non avrebbe potuto sposarsi, né lasciare in altro modo la madre, era stata destinata ad assisterla, molto tempo prima che nascesse. Ora da pazza, sedata dalla terapia del caso, segue la madre per il paese senza più ribellarsi.
Anche ammesso che si riesca a distinguere un delirio mistico da una vocazione, la psichiatria non cura niente del genere: impedisce semplicemente che Irene faccia le sue scelte o ne annulla l'efficacia. A questo servono i ricoveri, le gocce di serenase sciolte di nascosto nella minestra , le psicoterapie, i centri diurni, i tornei di calcetto, le mostre di quadri, le rappresentazioni teatrali, l'elettroshock... Molto più profondamente ed efficacemente dei letti di contenzione o delle camice di forza, le pratiche psichiatriche rendono impossibili le nostre scelte. Anche quando riuscisse a scappare di casa e a raggiungere un monastero, nessun ordine religioso accetterebbe Irene. Chiamerebbero casa e verrebbero a prenderla di nuovo.
Per anni avevo pensato l'antipsichiatria come la teoria e la pratica di tecnici competenti dell'umana follia, così come la psichiatria mi sembrava essere patrimonio esclusivo degli psichiatri. Di colpo sentivo di aver fatto parte per anni di quell'ordine che aveva calpestato, rinchiuso e distrutto la vita di Pippo. Per la prima volta sentivo il potere implicito nella mia normalità, nelle mie parole, nei miei sguardi e nei miei silenzi. Non era necessario aver partecipato attivamente e concretamente al suo internamento, sapevo che se fossi stato al posto dei vigili urbani o dei carabinieri, avrei fatto anch'io il mio dovere, magari con qualche dubbio, ma non mi sarei tirato indietro. Così come per anni avevo attraversato reparti psichiatrici, scansando l'invadenza dei suoi coatti e rifugiandomi nelle stanze sane degli operatori, magari a scontrarmi con loro, lasciandoli fuori dalla porta. Credevo davvero di sapere cosa servisse loro e di cosa avessero davvero bisogno. Non lo ammettevo ma mi aspettavo che mi parlassero male delle cure psichiatriche, che facessero il diavolo a quattro per uscire, che difendessero la loro posizione ideale. Come un qualsiasi truce e inumano psichiatra, mi interessava solo che l'altro con il suo comportamento confermasse una mia teoria...
Come sa ogni buon critico della psichiatria, ciò non sempre avviene. Giovanni non scappava dal reparto, ma se ne stava a terra a contare a palmi quella che per me era la sua prigione, ma che per lui sembrava essere un labirinto. Spesso facevo fatica a capire quegli uomini in fila per la terapia. Nessuno di loro sputava via la terapia e molti mi sembravano così confusi da non capire più quello che stava loro succedendo. Poi c'erano quelli che si presentavano puntuali alla puntura mensile e gli altri che chiedevano di ricoverarsi volontariamente. Altri ancora dicevano di essere guariti grazie all'elettroshock o di essere stati salvati dal ricovero in psichiatria...
Cosa dimostrava questo? Forse che la psichiatria poteva essere considerata una forma di aiuto? Forse eravamo troppo critici e le cose orribili di cui eravamo e siamo testimoni, erano frutto di una minoranza di psichiatri impreparati e in malafede? Così almeno ci sentiamo rispondere spesso quando denunciamo la violenza psichiatrica. Così dicevano gli psichiatri che praticavano la lobotomia dei loro colleghi che continuavano ad iniettare la malaria e ogni sorta di virus alle loro vittime; così dicono quelli che praticano l'elettroshock a coloro che usano gli psicofarmaci e viceversa. Salvo poi qualcuno che recupera tutte queste strategie terapeutiche organizzandole secondo un criterio di gradualità: si inizia con il convincimento e si finisce con la distruzione fisica della capacità di pensiero dell'altro.
La gravità e l'urgenza che giustifica il passaggio da una terapia dolce a una più radicale è l'insensata resistenza che i pazienti oppongono alla modifica del proprio comportamento e dei propri pensieri.
Questa resistenza se in una prima fase è attiva, man mano che gli interventi psichiatrici hanno efficacia, si trasforma generalmente in un atteggiamento di passiva accettazione della propria esistenza coatta, con l'abbandono di ogni velleità di comunicare la propria esperienza e di confrontarsi con il mondo. Non c'é da stupirsi se alcuni fra coloro che sono rinchiusi nel manicomio o altre strutture psichiatriche, non mostrano nessun interesse ad uscire. Per loro non c'é più un mondo fuori, qualcosa o qualcuno per cui essere ancora significativi. Anche se uscissero a nessuno interesserebbe niente delle loro esperienze, della loro visione del mondo, dei loro desideri. Sarebbero sempre e in ogni luogo degli ex internati, si parlerebbe di ognuno di loro come una categoria, si deciderebbe ancora in nome loro... Perché uscire?
Viene sempre il momento in cui ci troviamo di fronte all'esperienza dell'altro. Per quanto noi tentiamo di evitare questo confronto, trattando da vittime coloro che gli psichiatri chiamano pazienti, arriva sempre un punto in cui la vittima, liberata dalla cura psichiatrica, ricomincia a parlare liberamente di ciò che sente, vuole e fa. Si scompensa, come amano dire gli psichiatri. Riprende a provare e suscitare emozioni, fa delle scelte, agisce e ci chiede una mano.
La persona che ci troviamo di fronte può o meno piacerci, come qualsiasi altro individuo che ci può accadere di incontrare. Quello che dice può trovarci d'accordo oppure no. Quello che chiede o che fa può sembrarci ridicolo, divertente, inquietante, pericoloso, insensato, profondo... così come normalmente ci accade nelle relazioni con gli altri esseri umani. Non dovremmo sentire una responsabilità diversa da quella che abbiamo nei confronti di tutti coloro con cui veniamo a contatto, eppure cominciamo ad entrare in ansia perché riteniamo ci sia qualcosa di giusto da fare, pensare o sentire, e che noi non conosciamo.
Le cose che abbiamo letto, compreso questo libro, ci danno alcune coordinate. Noi le applichiamo generalmente cercando di forzare l'esperienza dell'altro. La cosa generalmente non ci riesce. Tutto ci sfugge di mano. All'altro non sembra affatto interessare dimostrare di essere una persona sensata, vuole semplicemente essere quello che è, senza più mediazioni.
La cosa più umana e naturale che potremmo fare, dovrebbe essere forse quella di confrontarci con questi uomini. Come farlo non sta scritto in alcun testo. Probabilmente non esiste un modo giusto per farlo: bisogna accettare il rischio di sbagliare.
Questo rischio, a volte, può apparirci enorme, ma a pensarci bene è lo stesso identico rischio che accettiamo con il semplice fatto di esistere.
Ho scritto in altri luoghi: l'antipsichiatria non è una teoria ma una pratica. (cfr. G. BUCALO, 1996a e 1996b)
E' la pratica quotidiana con cui ci confrontiamo con le esperienze altrui o gestiamo le nostre. La rivoluzione antipsichiatrica consiste nella rinuncia a considerare alcune esperienze come malattie e alcune azioni, pensieri o omissioni come sintomi di esse. Il che, sul fronte delle relazioni interpersonali, non si limita solo al rifiuto dell'internamento o della coercizione della soggettività altrui, ma anche e soprattutto al recupero di quelle stesse esperienze nel patrimonio delle nostre possibilità umane.
Per capirci. L'antipsichiatria non solo non interviene per guarire Franco che sente la voce di una signora che gli fa da guida, ma cerca di confrontarsi con lei, accettando questa esperienza come una relazione significativa e l'esistenza della signora come una possibilità concreta. Mi è successo molte volte di intavolare un dialogo con le voci delle persone o degli esseri invisibili che i miei amici sentivano. Il dialogo con loro non ha niente di meno della profondità, del dolore, dell'autorità, della fantasia, della verità che può avere qualsiasi altra relazione interumana. Ci sono gli stessi margini di errore a credere alla voce di una persona che gli altri non vedono, di quelli che sono connessi alla lettura di questo mio libro. Corriamo gli stessi rischi a fidarci di loro, di quelli che corriamo a riporre la nostra fiducia in qualsiasi altro essere umano. Possiamo non condividere quello che ci viene detto o ordinato, così come può non esserci chiaro, ma ciò non ci autorizza a ritenere frutto di fantasia quello che stiamo sentendo. Il sergente che ci urla l'attenti e ci invita al saluto, può non trovarci d'accordo e può spingerci ad un atto, a guardar bene, totalmente insensato, ma non per questo diremmo di non aver sentito l'ordine o, peggio ancora, che non ci sia stato alcun ordine.
Nel caso della signora, però, argomentano gli psichiatri, nessuno tranne Franco la sente. Se lasciamo un registratore nella stanza, probabilmente la sua voce non resterà incisa. Questo proverebbe la natura essenzialmente soggettiva di quella esperienza, ma non certamente la sua irrealtà. Allo stesso modo, anche a voler escludere a priori la sua esistenza, niente ci vieta di ascoltare cosa la signora ha da dire e se è possibile trovare un accordo con lei.
Come afferma Cooper "...antipsichiatra è colui che è pronto ad accettare i rischi inerenti al cambiamento progressivo e radicale del suo modo di vivere". (COOPER D. 1977, pag. 70)
Non si cerca essenzialmente di zittire la voce della signora, ma di trovare un modo in cui la parte di conoscenza e di esperienza che essa esprime, possa coordinarsi, nel modo più naturale possibile, con le esigenze della nostra vita materiale e sociale. Il problema che ci poniamo è il seguente: può Franco continuare a ascoltare la signora e comunicarlo, senza che questa esperienza lo assorba così tanto da fargli disattendere tutti gli impegni che il suo corpo ha preso con i corpi delle persone accanto? E possiamo noi avvicinarci a lui e alla signora con sincera volontà di confrontarci, di ascoltare e di agire, fin dove è possibile, e oltre?
Una soluzione antipsichiatrica è una pratica in cui non è richiesto solo a Franco di cambiare. Ogni cambiamento realmente necessario interessa tutti coloro che sono coinvolti nella sua vita, cambia progressivamente il modo di vedere, di sentire e di comunicare di tutti.
Mi succede a volte di difendere il comportamento improduttivo e antisociale di Franco, perchè riconosco valore alla sua esperienza e a quello che sta tentando di fare. Spesso di lui dicono che se ne sta a letto a poltrire e a non fare niente. In realtà egli sta salvando Taormina che rischia di essere cancellata dalla Redazione che ha preso il controllo delle menti e dei corpi di tutti i suoi abitanti. Potrà apparirci come una fantasia o una scusa, ma è questo che lo inchioda a quel letto ed è a questo che va data risposta.
Ci sono periodi come questo in cui passo altrettante ore al computer a scrivere di queste storie, staccando il telefono ed evitando distrazioni e relazioni. Non posso escludere che in qualche angolo remoto della mia mente ci sia la segreta presunzione di stare qui a salvare il mondo o comunque le nostre vite. Molti penseranno che sia io che voi che state leggendo queste pagine, stiamo perdendo il nostro tempo dietro a fantasie, tralasciando chissà quale altro decisivo e reale impegno quotidiano. Niente però in questo momento può distrarci e, al contrario, pretendiamo di essere rispettati in questa scelta che altri possono giudicare improduttiva, ma che per noi può essere importante.
Cos'é che può farci dire che hanno torto coloro che dicono che stiamo perdendo il nostro tempo, e ragione quelli che dicono che Franco non sta facendo niente? Le motivazioni per cui facciamo o meno delle cose possono apparirci curiose, incomprensibili, futili o anche pericolose, ma ciò non ci esime da rispettarle come idee e scelte umane e a confrontarci con loro. Ho imparato ad avere per gli altri lo stesso rispetto che pretendo per le mie idee, per i miei sforzi, per le mie battaglie: ho imparato a riconoscere valore alle azioni di Franco. Non gli chiedo di abbandonare la strenua difesa dell'esistenza della sua gente. Cerco di trovare con lui una strada affinché egli non sacrifichi l'intera sua esistenza e le sue possibilità a questo scopo.
Anche qui, se vogliamo, c'é una mediazione razionale e un difendersi dall'inquietudine che certe situazioni estreme ci provocano. Mi chiedo cosa avrei fatto io di fronte alla scelta estrema di Francesco d'Assisi, o alla pittura estrema di Van Gogh, o alla scrittura estrema di Artaud. Avrei avuto la forza e il coraggio di schierarmi, di rivendicarne nei fatti l'esistenza e il valore?
L'antipsichiatria è anche testimonianza. Niente avviene senza un testimone, è un po' come nell'esempio dell'albero che cade in una foresta e che non fa rumore se non c'é nessuno a sentirlo. La ricerca di un testimone è la prima cosa che scatta quando ci troviamo di fronte ad un evento straordinario. Chiamiamo qualcuno perché veda o chiediamo 'non avete sentito?' Spesso questo atto istintivo ci costa l'internamento psichiatrico, ma è un rischio che dobbiamo correre. Senza un testimone potremmo anche dubitare di esistere.
Ci viene facile oggi testimoniare della santità di Francesco o dell'arte di Artaud, ma mi chiedo, saremmo stati capaci di sostenere allora il peso e l'inquietudine che il loro modo di sentire e di vivere ci ponevano?
Ricordo ancora come ci sentivamo quando Sonia ci urlava dal balcone di andare via e non disturbarla. La gente si affacciava dalle case a guardare cosa stava succedendo e noi avremmo voluto sprofondare. Cosa avremmo potuto mai rispondere ai negozianti che le impedivano di entrare nelle loro botteghe, perché insisteva a pagarli con 50 lire? Come avremmo potuto convincere i suoi a permettergli di gestire i suoi soldi, quando ci dicevano li avrebbe spesi tutti in vestiti e trucchi?
Riuscivamo a capire perfettamente le ragioni di tutti, stentavamo a rivendicare quelle di Sonia. Cosa avrebbero pensato di noi? Che figura avremmo fatto di fronte a tutti, se avessimo detto Sonia ha ragione? E soprattutto: cosa sarebbe successo se fossimo riusciti a farlo?L'esperienza antipsichiatrica in cui sono stato coinvolto a Furci, ha mostrato che nel nostro prendere posizione sta la chiave dell'abbandono delle pratiche di negazione psichiatrica.
Sonia veniva ricoverata mensilmente per essere sottoposta a cure. Senza riuscire a scambiare più di una decina di parole con lei, riuscimmo ad evitare che ciò si ripetesse. L'impossibilità di parlarle, fece sì che capissimo che potevamo far molto di più per cambiare la mente ordinaria dei nostri compaesani, di quanto non saremmo riusciti a fare per cambiare la sua mente. Capimmo che il giudizio degli altri era legato al nostro giudizio. Nessuno si sentiva in colpa per ciò che le andava capitando ogni mese, nessuno ne era accusato, tutti eravamo d'accordo che fosse curata. Non solo l'assenso esplicito, ma anche il nostro silenzio, faceva sì che si ritenesse ovvio che così andassero le cose.
Quando cominciammo, dapprima timidamente, poi con più forza, a dire no, qualcosa di inaspettato accadde. Non si poteva più ricoverare Sonia. Non si poteva negare il conflitto che era nato con lei. Non si poteva far finta che essa non avesse ragioni. Altri esseri ragionevoli, nostri amici, fratelli, concittadini, si schieravano dalla sua parte, rendevano concrete le sue opinioni, testimoniavano della verità delle sue accuse, prendevano parte al conflitto.
C'è un continuum, una catena, una rete che lega le menti di tutti coloro che pretendono o credono di essere normali: se la catena si spezza tutto ritorna ad essere possibile. Il ricovero di Sonia non cancellava più la sua voce. Le sue ragioni erano amplificate da noi e noi le diffondevamo nella comunità.
Scoprimmo che non esistono fatti in ragione dei quali si viene chiamati matti e ricoverati. Ciò che davvero conta è il giudizio che ci formiamo sui fatti. Quando il nostro giudizio cambia in relazione agli stessi fatti, le nostre azioni possono essere profondamente diverse, quando non opposte. Qualcosa di simile è successo anche nella psichiatria. Essa ritiene di avere a che fare da sempre con gli stessi fatti patologici, eppure ha ritenuto di farvi fronte prima con l'internamento a vita, oggi con la cura ambulatoriale.
Ritenere una persona incapace di intendere e di volere, non è un fatto ma un'opinione. Artaud era considerato malato di mente per gli stessi fatti per cui oggi lo riteniamo un grande artista. Così nell'atteggiamento di Sonia noi possiamo leggervi sia i segni di una malattia che necessita di una cura urgente, come di una ribellione che chiama una nostra scesa in campo al suo fianco.
Una persona è anoressica o sta facendo lo sciopero della fame? A guardare bene i fatti sono gli stessi: è il nostro giudizio a cambiare la realtà di ciò che vediamo e a giustificare la nostra azione. I soldati che si fronteggiano nelle trincee affermano di sparare gli uni sugli altri per difendersi: per ciascuna delle parti i fatti sono quelli. Saranno i vincitori ad imporre ai vinti la loro versione dei fatti.
Più che le nostre azioni, dunque, era il giudizio che avevamo trovato il coraggio di esprimere a cambiare le cose. Era il giudizio di gente comune che accettava di prendere per buone le ragioni dell'altro e di rispettarle anche quando provenienti da esperienze non ordinarie. La pratica che ne discendeva era quella di dare risposte coerenti alle domande e ai conflitti che ci si ponevano. Non si dava una pillola a chi non riusciva a dormire perché la sua casa era invasa da insetti invisibili. Si cercava di trovare un insetticida visibile o invisibile che potesse arrestarne l'invasione e ricacciarli indietro. Si faceva cioè ciò che normalmente fanno tutte le persone sensate coinvolte in esperienze extrasensoriali: cercare una risposta concreta ai problemi che la nostra percezione ci pone. Paradossalmente tutti questi tentativi si trasformavano per Sonia e gli altri, in prove inconfutabili della loro malattia. Ma chiediamoci: chi accetterebbe di addormentarsi dentro una stanza infestata dagli insetti, sapendo di esserne in balia? Probabilmente nessuno di noi. Eppure troviamo insensato che le persone rifiutino a volte di assumere sonniferi per dormire.
Quello che facevamo era di esporre le persone al caso. Spesso l'intervento psichiatrico interrompe l'evolversi naturale degli eventi, provocando danni ben più gravi di quelli che intende evitare. Molti ricoveri potrebbero essere evitati se solo non fossimo presi dall'ansia di ciò che potrebbe succedere se non interveniamo a bloccare il folle di turno. In realtà la nostra ansia sale in ragione dell'impossibilità di comunicare con lui. Non ci sorge neanche lontanamente il dubbio che possiamo essere noi a non essere sintonizzati sulla sua lunghezza d'onda e che, se lasciato libero di muoversi, può incontrare qualcuno, nel suo vagabondare, che possa capirlo e aiutarlo per come vuole essere aiutato.
Ci affrettiamo a dire che ciò non è possibile. Non si può abbandonare le persone a loro stesse: siamo certi che senza il nostro aiuto sarebbero persi. Mi viene in mente una psichiatra democratica alcuni anni fa che sembrava credere davvero che le persone o stanno in manicomio, o stanno nelle case famiglia, o vivono alla stazione Termini. L'idea che senza il nostro aiuto la stragrande maggioranza dei pazienti psichiatrici si suiciderebbe, ucciderebbe qualcuno o vivrebbe sotto i ponti è del tutto infondata. Al contrario abbiamo prove documentate del fatto che il nostro aiuto, si è risolto per loro troppo spesso nella distruzione sistematica e, a volte, irreversibile del loro cervello e della loro vita.
La cosa chi mi impressiona di più nel nostro atteggiamento ordinario, sta nella contraddizione implicita di credere di poter aiutare persone che affermiamo di non saper o poter capire. In noi non c'é neanche l'umiltà di comprendere che a volte mettersi da parte è la cosa migliore che possiamo fare gli uni per gli altri.
"Un giovane di 25 anni, che vive a Kingsley Hall, aveva avuto il terrore di essere visto. Percepiva il suo corpo come morto ed aveva inoltre l'impressione di essere donna nella parte sinistra e uomo nella parte destra; di essere allo stesso tempo un uomo molto vecchio ed una donna molto giovane e di non essere affatto un essere umano ma un mostro non umano. (...)
Egli aveva subito due operazioni per ernia inguinale ed aveva il terrore di essere castrato. (...) Durante la sua permanenza a Kingsley Hall egli decise di provare a fare, nell'edificio, ciò di cui maggiormente aveva paura. (...) Si tolse i vestiti ed andò in giro nudo, cominciò a dipingersi sia la faccia che il corpo. (...)
Mentre quest'uomo si trovava a Kingsley Hall, vi giunse un giovane di 19 anni che era stato in manicomio per un anno. Costui andava in giro con un grande uccello sulla testa, poggiato sul cappello. I due non si erano incontrati. Ero seduto nella cucina e Jack (il fantasma) era accanto al lavandino, nudo, dipinto. Aveva una scatoletta di talco con il quale si stava cospargendo i genitali. Era abituato a girare con una scatoletta di talco con il quale si cospargeva i genitali per un po'. Poiché aveva molta paura che succedesse qualcosa ai suoi genitali, cercava di camminare molto eretto, in contrasto con la sua andatura abituale. Prima della sua nudità antifobica si copriva abitualmente, con qualsiasi tempo, con molti strati di abiti, un impermeabile e sul tutto un cappotto grande e pesante, lungo e largo, diverse taglie più della sua. Tutto ciò perchè i suoi genitali fossero completamente protetti sotto l'imbottitura. Camminava come un vecchio. Ora invece cercava di fare esattamente l'opposto, mostrandosi piuttosto che nascondersi.
Nella cucina entrò il tipo con l'uccello sulla testa. Egli fu assai rapido nell'afferrare la situazione non appena vide David, e tirò fuori rapidamente una Luger e esplose un colpo mirando direttamente ai genitali di lui. Il peggio era accaduto. Per una frazione di secondo sia David che io non sapemmo se la pistola era carica o meno. La pistola sembrava vera ed aveva un suono vero. In realtà non era carica. David guardò e vide che i suoi genitali erano ancora al loro posto. In pochi secondi seguenti egli perse circa il 50 per cento della sua ansietà di castrazione. In seguito non fu mai più così terrorizzato. Perse in quell'incidente tanta della sua ansietà di castrazione quanta ne aveva persa nei quattro anni durante i quali lo avevo avuto in cura. Nessuna interpretazione avrebbe potuto essere così primitiva come quell'atto drammatico assolutamente imprevedibile e irripetibile. A Kingsley Hall abbiamo sperato di avere un luogo dove potessero verificarsi simili incontri". (R.D.LAING, in L. FORTI 1979, pagg. 101-102)
Esperienze di questo genere sono all'ordine del giorno nell'esistenza di ognuno di noi. Possiamo rintracciare moltissime situazioni in cui solo il caso ci ha permesso di affrontare situazioni impossibili. La soluzione di un problema, in genere, nasce o produce un evento nuovo nella nostra esistenza. I cambiamenti avvengono spesso in modo del tutto inaspettato e non previsto.
Il brano di Laing dice però di più: al caso bisogna esporsi. L'antipsichiatria così come praticata nella comunità da lui creata a Kingsley Hall, cercava di rendere possibile questo evento in un ambiente protetto e libero allo stesso tempo. Allora si era convinti che
"...c'é bisogno di un luogo in cui coloro che si sono spinti più in là nel viaggio e, di conseguenza, può darsi siano più sperduti degli psichiatri e delle altre persone sane, possano trovare una via per proseguire oltre nello spazio e nel tempo interiori, e per tornare indietro. Invece della cerimonia di degradazione dell'esame psichiatrico, della diagnosi e della prognosi, c'é bisogno, per coloro che sono pronti a ciò (e che, nella terminologia psichiatrica, sono spesso coloro che stanno per cadere nella schizofrenia), di un cerimoniale di iniziazione, nel corso del quale l'individuo venga guidato, con ogni legalità e con ogni incoraggiamento della società, nello spazio e nel tempo interiori, da persone che vi sono già state e ne hanno fatto ritorno. Dal punto di vista psichiatrico, ciò si tradurrebbe col dire che degli ex-pazienti aiutino i futuri pazienti a diventare matti".(R.D.LAING 1980, pag. 128)
Non so se ci sia più bisogno di luoghi così. Sicuramente questo pensare di creare luoghi per la follia e luoghi per la normalità, ha il sapore tipico della logica manicomiale. Certamente la nostra esistenza quotidiana è ordinata in modo tale che appare impossibile poter vivere e sperimentare le proprie esperienze in piena libertà di movimento e di relazione. Per questo può sembrare sensato predisporre dei luoghi dove tutto sia possibile. Il problema sta nel fatto che tutto ciò che viene prodotto in questi luoghi e con queste persone non ordinarie, rimane comunque fuori dalla nostre menti e dei nostri corpi ordinari.
Quando penso all'antipsichiatria, io mi riferisco ad una pratica comune e quotidiana, che coinvolga le persone ordinarie e che si svolga attraverso i luoghi in cui noi abitualmente viviamo. Può servire a volte trovare un luogo dove nasconderci allo sguardo degli altri, così come può esserci utile a volte alterare il nostro stato di coscienza con gli psicofarmaci, ma né quei luoghi, né quei farmaci, possono essere pensati e trattati come fatti terapeutici. Pensare che possa esistere un luogo istituzionalmente predisposto all'accoglienza delle esperienze di ognuno di noi è un'idea del tutto infondata. Ci serve solo per limitare in qualche modo gli spazi e i tempi del nostro confronto con ciò che non riusciamo a capire.
In quale casa ordinaria avremmo accettato che Jack se ne stesse nudo, cospargendosi di talco i genitali? Probabilmente in nessuna. Chi di noi avrebbe saputo che fare? Probabilmente nessuno.
L'esperienza antipsichiatrica di Laing si trasforma così nell'esatto contrario di ciò che è, e ci viene tramandata come una sorta di nuova terapia psichiatrica. Esistono delle esperienze impossibili gestibili solo in luoghi e da persone impossibili. Le persone ordinarie, ancora una volta, rimangono fuori dalla possibilità di comprendere e agire le proprie e altrui esperienze.
Eppure David COOPER era stato chiaro nel definire la funzione dell'antipsichiatria.
"L'antipsichiatria tenta di capovolgere le regole del gioco psichiatrico come preludio all'eliminazione di tali giochi". (COOPER D. 1977, pag. 62)
Forse non poteva essere che così. Esistono due storie dell'antipsichiatria: la prima è quella che si riferisce al processo di liberazione dalla psichiatria che gli operatori hanno innescato togliendo le mani dalla gola dei loro pazienti; la seconda è quella quotidiana che da sempre coinvolge tutte le persone ordinarie che vivono e praticano la loro o altrui follia. Se il fine è
"... che il comportamento profondamente disturbante, incomprensibile, 'folle', deve essere contenuto, incorporato e diffuso attraverso l'intera società come una fonte sovversiva di creatività e di spontaneità, non come 'malattia'". (COOPER D. 1979, pag. 100),
allora vanno recuperate la conoscenza e l'esperienza che le persone costruiscono nella relazione fra di loro e con i vissuti extraordinari che le coinvolgono.
Questo libro allora è un pezzo di antipsichiatria, ma lo è anche e soprattutto il calcio con cui Salvatore abbatte la porta del reparto in cui è rinchiuso. E' antipsichiatrico costruire uno spazio dove Jack può stare nudo, ma lo è anche e soprattutto organizzare una conferenza pubblica in cui chi sente voci spieghi e comunichi con chi non le sente.
Gran parte delle esperienze psichiatriche storiche, compresa quella che mi ha visto coinvolto a Furci Siculo, vengono come annullate e psichiatrizzate dal giudizio di straordinarietà che esse assumono. La sfida vera che l'antipsichiatria ha di fronte è quella di rendere accessibile e fruibile la conoscenza che nasce quotidianamente dall'incontro e dal confronto con queste esperienze che cambiano la nostra vita.
Forse non vanno pensati luoghi, ma vanno costruite occasioni in cui sia possibile vivere e comunicare fino in fondo la propria percezione, idea e visione del mondo. Occorre scendere in campo e prendere posizione circa il diritto di ognuno di vivere secondo le proprie esigenze e emozioni e praticare i propri deliri. Nelle piazze, nei bar, sui pullman di linea, nelle stazioni, a scuola o in caserma, in ogni luogo in cui normalmente ci incontriamo.
Dovremmo essere irragionevoli come Alessandra che alla madre che accusa la figlia di delirio di persecuzione, perché afferma che i genitori la vogliono avvelenare, risponde che non si preclude il diritto di crederle. Certo l'antipsichiatria non è credere ad ogni cosa che ci si racconta: ma sicuramente è credere che ogni esperienza sia vera e va trattata, nel bene e nel male, come tale.
Forse Artaud può chiarire in poche parole ciò che intendo. Non c'é infatti a tutt'oggi manifesto dell'antipsichiatria più chiaro e attuale della sua lettera ai direttori dei manicomi. Non è un caso che queste parole così chiare siano state scritte, pensate e agite, da una vittima della psichiatria, piuttosto che da un suo critico ufficiale.
Scrive Artaud:
" Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per evitarvi il penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione ufficiale, sono, anch'essi, internati arbitrariamente. Non ammettiamo che si interferisca con il libero sviluppo di un delirio, altrettanto legittimo, altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni umane. La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica quanto inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa individualità, che è propria dell'uomo, noi reclamiamo la liberazione di questi prigionieri forzati della sensibilità, perché è pur vero che non è nel potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono.
Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo in grado di apprezzarle, affermiamo la assoluta legittimità della loro concezione della realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano".
E conclude:
"Possiate ricordarvene domattina, all'ora in cui visitate, quando tenterete, senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete riconoscerlo, non avete altro vantaggio che quello della forza". (A.ARTAUD, in L. FORTI 1979, pagg. 29-30)
Nessuna parola per quanto incisiva può sostituire o descrivere un'esperienza. Potrà sembrare paradossale, ma l'unico modo giusto per iniziare è quello di chiudere questo libro e dimenticare quello che vi ho scritto.
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