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DIzionARIO ANTIPSICHIATRICO
esplorazioni e viaggi attraverso la follia
INDICE 1.Introduzione 4.Paradossi psichiatrici 7.Dizionario minimo
  2.Che cos'è
la malattia mentale?
5.Ipotesi di sopravvivenza 8.Bibliografia
3.Che cos'è
l'antipsichiatria?
6.Mitologie
antipsichiatriche
 

MITOLOGIE ANTIPSICHIATRICHE


Non so se quanto ho scritto fin qui sia riuscito a distruggere i luoghi comuni che abbiamo ereditato circa la natura e le idee del movimento antipsichiatrico. Provo qui a esplicitare i più diffusi, così come mi vengono posti o vengono proposti nei vari trattati psichiatrici.

Gli antipsichiatri affermano che la malattia mentale non esiste e che essa è determinata da fattori sociali e familiari.


Questa è già in sè un'idea paradossale. Se una cosa non esiste non vi è nessuna causa che possa determinarla. In realtà, come ho avuto modo già di chiarire, l'antipsichiatria afferma che, non la 'malattia mentale', ma il definire qualcuno 'malato di mente' è un fatto sociale e culturale che non ha niente a che fare con la medicina. L'esistenza della malattia mentale non è un fatto ma un'opinione, e, come tutte le opinioni, frutto della sensibilità, della cultura, dei desideri e delle scelte di chi la esprime.

L'antipsichiatria non propone alcuna teoria sociogenetica della cosidetta malattia mentale. Il suo atteggiamento nei confronti di questa questione è quello ben espresso da Laing:

" Io non sono interessato al problema dell'eziologia della malattia mentale. Devo ancora convincermi che la malattia mentale esista, indipendentemente da ipotesi e da giudizi di valore" (R.D.LAING 1970, pag. xxxv)

Se poi per sociogenesi si intende la semplice applicazione del buon senso, che vuole che non si addebiti ad una malattia sconosciuta quello che deriva dalla realtà materiale e umana in cui le persone sono inserite, è tuttaltra cosa. Non si fa sociogenesi della malattia mentale quando si fa notare che il sintomo psichiatrico della mancata cura di sè di Pippo, che allontana tutti con il suo maleodore, in realtà è frutto della sua povertà e della mancanza di servizi igienici in casa sua. Non è sociogenesi di malattia mentale pensare sensata l'azione di Salvatore che distrugge suppellettili, sedie e finestre del reparto psichiatrico, per tentare una via di fuga. Dovrebbe essere semplice buon senso quello che ci fa scegliere di non obbligare nessuno in luoghi in cui vuole stare o a attenzioni che non vuole ricevere, specie se per un qualsiasi motivo fatica a contenere le proprie emozioni.

Affermare che nei manicomi e nei reparti psichiatrici vengono internati più facilmente persone appartenenti alle classi meno abbienti e con meno potere sociale, non è fare sociogenesi della malattia mentale, ma è constatare un fatto. Anche qui non si intende dire che la malattia mentale colpisce i più poveri, ma piuttosto che è più facile che questi vengano definiti tali.

L'antipsichiatria non è interessata a spiegare cos'é che fa stendere Cesare per terra alla stazione, così come generalmente non siamo interessati a spiegare cos'é che ci fa innamorare. Ciò che le interessa è rendere queste esperienze possibili, vivibili e comunicabili. Dire che la malattia mentale non esiste significa essenzialmente credere che il modo in cui Cesare prende le sue decisioni, giudica se stesso e valuta la realtà non è diverso dal mio. La differenza fra di noi può, semmai, stare nelle decisioni che prende o nei giudizi che esprime. Non c'é niente nel suo comportamento o nel suo ragionamento che nasca da processi biochimici, umani o interpersonali alterati. Come me egli crede a quello che vede, impara dall'esperienza, verifica le sue ipotesi, agisce secondo coscienza e per raggiungere un fine. Il fatto che io non condivida la sua logica non è, nè può essere, prova di una patologia del suo cervello, ma solo della differenza dei nostri punti di vista.



Gli antipsichiatri dicono che non esistono i malati di mente, così facendo giustificano i maniaci e i serial killer


Il sottotitolo potrebbe essere: cosa direbbero se uno di questi violentasse e uccidesse le loro madri o sorelle? Sembra che Thomas SZASZ, ad una domanda del genere, abbia risposto, senza scomporsi, che per reati del genere, dalle sue parti, c'é la pena di morte!

Senza entrare nelle implicazioni morali e politiche di questa risposta, credo che SZASZ abbia voluto denunciare con forza l'insensata differenza che facciamo fra gli stupri e assassinii compiuti dai sani soldati serbi, e quelli frutto della malattia mentale, di cui sicuramente è affetto il mostro di Firenze. Perché non un solo sospetto di insanità mentale è stato sollevato per gli addetti alle camere a gas dei lager nazisti o per i torturatori dei dissidenti politici di ogni epoca e stato?

La differenza fra omicidi sani e malati non sta tanto nell'efferratezza del gesto o nelle motivazioni enunciate dall'assassino, quanto piuttosto nel fatto che tali azioni siano (o possono essere) riconosciute e condivise collettivamente.

Affermare che la negazione della malattia mentale equivale ad assolvere il mostro, è un tentativo di confondere le carte. In realtà è vero il contrario.

Il fatto che non consideriamo malato di mente il soldato serbo che attua la pulizia etnica, ad esempio, non lo assolve certo da quell'orrore, al contrario ne determina la sua piena responsabilità. Analogamente il mostro, se non è malato, è responsabile di quello che fa e deve risponderne.

In realtà è proprio questo che tentiamo di evitare. Il nostro scopo non è solo quello di tentare di neutralizzare le azioni del mostro, ma anche il suo pensiero. Definendolo malato noi possiamo punirlo affermando di non farlo: possiamo affermare che lo stiamo aiutando a dimenticare quelle idee che lo hanno portato a fare qualcosa che lui non avrebbe mai fatto. In qualche modo ci serve pensarlo malato: serve a non guardarci dentro.

Cosa succederebbe a considerare responsabile il mostro di Firenze delle sue azioni? A riconoscergli la dignità e la soggettività di un essere umano che fa le sue scelte? In nessun caso verrebbe meno il nostro impegno volto a bloccarlo e neutralizzarlo. Non solo, ciò non intaccherebbe neanche il nostro giudizio morale, etico o politico sul suo comportamento. Ciò che necessariamente dovrebbe cambiare è il nostro rapporto con lui e, soprattutto, con le sue ragioni.

Se il mostro fosse responsabile anche noi potremmo esserlo. Intanto perchè è patrimonio comune che nessuna scelta o idea umana nasce o si risolve nel soggetto che la elabora. Le convinzioni che sto esprimendo in queste pagine non nascono dalla mia biochimica o dalla mia mente. Sono frutto di una relazione continua fra me, le mie esperienze interpersonali e il confronto con le idee e le esperienze degli altri. Se oggi credo che non esista nessuna pericolosità insita nel comportamento delle persone arbitrariamente definite malate di mente, è anche perchè ho conosciuto accoltellatori di sorelle, distruttori di case, molestatori di quiete pubblica, resistenti a pubblici ufficiali... uomini e donne le cui ragioni sono state zittite e distrutte dalla diagnosi psichiatrica.

Perché Gino ha bruciato la sua casa? Perché Dorella ha graffiato il vigile urbano? Perché Rosa insulta i vicini e tira loro dietro ogni sorta di cosa? Perché Sonia lancia dalla finestra il suo corredo da sposa? Perché Giuseppe accoltella la sorella? Che ragioni possono avere? A che pro esporsi e esporre le persone più care al ridicolo e al pericolo? Se non una malattia, quale altro motivo? Avere delle ragioni non significa avere necessariamente ragione: però significa mantenere ancora qualcosa di umano con cui gli altri devono fare i conti.

Perché i soldati russi bruciavano case e raccolti durante la loro ritirata di fronte all'esercito napoleonico come a quello nazista? L'hanno chiamata la tattica della terra bruciata: non bisognava lasciare al nemico né viveri, né risorse. Bruciare le proprie case non è comunemente indicato come un'azione sensata, ma in quel contesto di pericolo collettivo diventa logico, se non necessario.

I Russi avevano le loro ragioni per bruciare le loro case, Gino no. Perché? Immaginiamo di sapere davvero e fino in fondo cosa lui abbia voluto fare con quel gesto. Immaginiamo che abbia attuato la stessa identica tattica per scoraggiare, allontanare, sottrarsi ai suoi nemici. Immaginiamo che la sua unica ragione fosse quella di allontanare e distruggere le presenze negative che coabitavano con lui, oppure di non lasciare nulla di sé a persone che non lo meritavano, oppure di voler chiudere con la sua vita passata e cambiare ogni cosa. In ogni caso la sua azione è altrettanto sensata di colui che assume psicofarmaci sperando di non vedere più i fantasmi girare per casa pensando di essere impazzito o di chi la casa la vende per non farla godere ad altri. Bruciare casa è un altro modo, forse particolarmente viscerale e inquietante, di fare la stessa cosa. Del resto, come mi diceva un altro piromane, nella nostra tradizione biblica, il fuoco purifica.

Chi di noi, del resto, non ha mai bruciato la foto di qualche amore deluso?

Se Gino ha bruciato la casa di sua iniziativa e per sua scelta, se l'ha fatto per impedirci di averla o perché si sentiva minacciato da noi e se non è un malato di mente affetto da un delirio di persecuzione: allora noi possiamo davvero averlo spinto a tale gesto, minacciandolo e tentando di sottrargliene la proprietà. E' possibile naturalmente che Gino si sia sbagliato e abbia interpretato male ciò che abbiamo detto o fatto, ma un errore (o una serie di errori anche gravi) non sono sintomi di alcuna malattia, casomai frutto dei nostri pregiudizi.

Se è responsabile di quello che ha fatto, allora quello che ha fatto è una possibilità umana, qualcosa che chiunque di noi si potrebbe trovare a fare date certe condizioni. Non c'é altro motivo di negare la sua responsabilità, se non quello di allontanare da noi la possibilità di compiere azioni analoghe. Chi di noi potrebbe escludere categoricamente che mai si comporterebbe come i soldati serbi se fosse coinvolto in un conflitto militare e etnico? Io stesso non mi sento di escludere che se fossi un infermiere/carceriere in qualche reparto psichiatrico, non finirei per legare le persone ai letti e a sperare che i medici mi diano l'ordine di sedarle per poter riposarmi. E un po' la sfida che mi lanciano spesso nei reparti psichiatrici: 'Vorrei vedere te quando portano qualcuno i vigili urbani che rifiuta di entrare. Vorrei vedere cosa faresti quando comincia a dar calci, sfondare le porte, lanciare suppelletti e sedie contro le finestre'. A volte ho risposto semplicemente: 'Lo lascerei andare, perchè io non farei diversamente se fossi al suo posto, tu non faresti niente di meglio se ti costringessero a forza da qualche parte e ti facessero passare per matto'.

Ho imparato che la violenza non sta dentro nessuno, ma fra di noi o nella situazione sociale in cui siamo inseriti. Nessuna violenza è gratuita: può essere inaccettabile ma mai insensata; può essere inquietante ma mai insignificante; può apparirci orrenda ma non è mai frutto della mente di un solo uomo. Anche quando un uomo abbraccia un fucile e spara ad una folla inerme e sconosciuta c'é come un filo che lega il carnefice con le proprie vittime. In realtà ho imparato che nessuno di noi può essere assolto da ciò che accade ai suoi simili, nessuno può esserne indicato come colpevole, tutti ne siamo coinvolti.

Se ci mettessimo per un istante dalla parte di coloro che in atto giacciono, in pose impossibili, nei manicomi e provassimo a immaginare come vedano il mondo attraverso i loro occhi, forse sentiremmo cosa intendo dire: c'é come un tutto ordinato e indistinto terrore là fuori che ci minaccia e ci assedia. Se vogliamo è la stessa esperienza che credo provano i soldati ammassati nelle trincee. Quando vengono fuori sparano all'impazzata, l'unico limite non sparare su chi veste delle stesso colore, ma il nemico è indistinto, senza identità, storia, faccia o nome, un corpo unico,ogni essere vivente è nemico oltre la trincea non importa se ha scelto o se vuole farci del male, non importa se armato o disarmato, sorridente o truce.

Non dobbiamo stupirci che questo possa accaderci anche in tempo di pace apparente.



Gli antipsichiatri sono contrari all'uso degli psicofarmaci

Anche qui voglio aprire con una dichiarazione di SZASZ che condivido:

"...ho sempre sostenuto di essere contro la cura psichiatrica imposta e contro la violenza sul paziente da parte dello psichiatra. Ma non sono affatto contro un trattamento psichiatrico liberamente scelto o contro rapporti psichiatrici fra persone adulte e consenzienti". (SZASZ T. 1984, pag. 55)


Ciò potrà suonare strano a quanti hanno sempre immaginato un'antipsichiatria come una lotta senza quartiere alle pratiche psichiatriche. In realtà non c'é niente di più lontano dalla mente antipsichiatrica del tentativo di manipolare, decidere o imporre ad altri la propria volontà. Il rifiuto della psichiatria non è solo rifiuto delle sue teorie o delle sue pratiche, ma anche rifiuto della sua logica. Il che, in altre parole, significa che in nessun caso il giudizio che noi diamo può sostituire l'autodefinizione, le scelte e i giudizi delle persone interessate.

Lo scopo dell'antipsichiatria non è quello di far cambiare idea a qualcuno. In linea di principio non è neanche quello di condividere sempre e comunque le idee e le menti altrui. In via assoluta l'antipsichiatria rivendica il valore e il diritto alla follia degli individui e cerca di renderlo possibile e praticabile.

Gli psicofarmaci sono sostanze chimiche che alterano il nostro stato di coscienza. In questo senso non sono diversi da altre sostanze, legali o illegali, che noi abitualmente usiamo. Saranno più tossiche di alcune di queste e meno di altre, ma in loro non c'é niente che possa definirsi terapeutico.

Conosco persone che non riescono a lasciarsi andare ad un sano rapporto sessuale se prima non hanno bevuto un litro di vino. Eppure né loro né noi diciamo che il vino, in questo caso, sia una medicina. Sergio è curato con farmaci disinibenti per un profondo stato di depressione. Egli preferisce agli antidepressivi la cocaina, solo così riesce a uscire fuori da se stesso e andare sicuro incontro agli altri. Se è l'effetto sull'umore del paziente quello che prova la terapeuticità dell'antidepressivo, allora non c'é niente di più terapeutico della cocaina per Sergio. Questo almeno sul piano della logica. In realtà Sergio è finito in manette più di una volta per il semplice possesso e uso della sua medicina.

La differenza fra antidepressivi e cocaina non sta solo o tanto nella loro composizione chimica o nel diverso effetto che hanno sulla nostra biochimica, quanto piuttosto in chi la prescrive: tutto ciò che viene prescritto da un medico è una medicina, tutto ciò che ci autoprescriviamo è una droga. Ciò vale anche per gli psicofarmaci in commercio. Quando ce li prescrive uno psichiatra sono una terapia, quando siamo noi a farlo diventano una droga da cui dipendiamo. Gli psichiatri ci rendono dipendenti e poi ci prescrivono di apparire indipendenti. La nostra dipendenza dalle sostanze che ci prescrivono, se manifestata, viene curata con altri farmaci che ci danno dipendenza, e così via finché il nostro organismo regge.

Se chiamiamo alcune sostanze farmaci e altre droghe questo non è dovuto ad una qualche differenza sostanziale nella loro tossicità. Diciamo piuttosto che i primi vengono usati da altri per produrre in noi cambiamenti con cui possiamo non essere d'accordo; le seconde vengono usate da noi per produrre in noi stessi cambiamenti che gli altri possono non condividere.

Del resto circa l'innocuità o la terapeuticità degli psicofarmaci più di un medico nutre seri, e scientifici, dubbi. Ad esempio Oliver SACKS, eminente neurologo, che, dopo aver fatto un parallelismo inquietante fra lobotomia e uso di psicofarmaci, afferma:



Di sicuro questi farmaci, se somministrati in dosi massicce, possono come la chirurgia, indurre 'tranquillità' e bloccare le allucinazioni e i deliri del paziente psicotico; il blocco così indotto può essere però simile all'immobilità della morte e, per un crudele paradosso, può privare i pazienti della guarigione naturale che a volte a luogo nella psicosi, murandoli invece per tutta la vita in una malattia indotta dal farmaco". (O. SACKS 1995, pag. 102)


A questa considerazione vanno aggiunti gli studi sulle malattie neurologiche prodotte dall'uso degli psicofarmaci, come la discinesia tardiva, citati tra gli altri da Peter Breggin, o altre osservazioni paradossali come quella che rivela che le stesse sostanze che vengono usate per curare i malati di mente, sono usate per torturare i dissidenti politici in tutto il mondo. Non solo, per diversi anni alcuni psichiatri hanno usato LSD come strumento di indagine e terapia, prima che questo fosse dichiarato una droga illegale.

Chi non è avvezzo agli studi scientifici, può leggere i fogli illustrativi degli psicofarmaci per rendersi facilmente conto della loro pericolosità per il nostro sistema corporeo e psichico. E' chiaro che, allo stato attuale, non dobbiamo aver meno paura di assumere psicofarmaci di quanta ne abbiamo di assumere cocaina.

Detto questo, la questione per l'antipsichiatria non è tanto quella di scegliere fra sostanze cattive e buone, né quella di vietare e combattere l'uso di una qualsiasi di queste sostanze. Ognuno ha diritto di aiutarsi come meglio crede, assumendo le sostanze che ritiene più opportune. Il mio caffe mattutino non cura la mia stanchezza, così come un antidepressivo non cura la mia tristezza e un bicchiere di vino non cura la mia depressione. Queste sostanze ci possono aiutare a reagire alle difficoltà che abbiamo di fronte o a renderci incoscienti di fronte a loro, ma non le risolvono. Del resto anche se nello stato mentale che la loro assunzione produce in noi, ci illudessimo di aver risolto i nostri problemi, ciò non proverebbe affatto che queste sostanze siano delle terapie, se non altro perchè i problemi non sono malattie.

La scelta se usare o no sostanze per alterare lo stato della propria coscienza, così come la scelta di quale sostanza usare, va lasciata all'individuo. Solo così questo uso ritorna ad essere quello che è: uno strumento per fronteggiare e modificare gli eventi che accadono dentro e fuori di noi.

Gli psichiatri non hanno mai valutato che il rifiuto dei loro pazienti di assumere le sostanze che loro propongono e impongono, non nasce da un ulteriore squilibrio mentale, ma dalla esigenza propriamente umana di rimanere persone con senso, identità e significato. Una sostanza prescritta come terapia psichiatrica, non mette a rischio, nell'essere assunta, solo la nostra integrità fisica e psichica, distrugge anche la verità dei nostri problemi e la realtà della nostra identità e storia.

Quando ci autoprescriviamo una sostanza in genere non neghiamo la realtà di ciò che sentiamo o percepiamo, semplicemente cerchiamo un aiuto per poterla affrontare. Così quando assumiamo sonniferi per dormire la notte, non necessariamente intendiamo negare le ragioni o i pensieri che ci impediscono di dormire: sentiamo che ci necessita il riposo per essere in grado di risolverli. Allo stesso modo chi beve non intende negare i suoi vissuti, cerca soltanto di attutirne l'effetto devastante sulla propria vita. Che poi, tanto il sonno chimico che l'oblio alcolico siano o meno di aiuto e non invece un ulteriore trappola mortale, è questione che ognuno può valutare a suo modo.

Vino e sonniferi danneggiano l'organismo, così come fanno il caffè, le sigarette, l'eroina, i neurolettici... non è su questo piano che si può distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è. Di eroina, del resto, si muore molto meno che di alcool o di tabacco, sostanze entrambi legali: il che indica quantomeno che non è la nocività il criterio che fa sì che una sostanza sia bandita come droga, usata come medicina o commercializzata come genere voluttuario.

Quando e se una sostanza viene prescritta dal medico, essa non solo perde la sua connotazione di droga, ma nell'assumerla il soggetto acquista per ciò stesso lo status di malato. Se prima la persona assumeva il sonnifero per sottrarsi alla morsa delle preoccupazioni che non lo facevano dormire, ora la sua assunzione serve a curarla da quella che è visto come un eccessivo, patologico e immotivato stato d'ansia. Viene da chiedersi come fanno, e quali parametri scientifici usano, gli psichiatri per definire immotivato o eccessivo un sentimento umano. Per il lutto essi affermano che è il conteggio dei giorni in cui appariamo tristi o disperati che determina la natura della nostra malattia. Entro i tre mesi rimaniamo nella norma, superato questo limite siamo considerati affetti da depressione. Verrebbe da ridere se tutto questo non fosse così tragico e inquietante.

Ad ogni modo, appare evidente che chi voglia mantenere la verità di ciò che prova, deve per forza di cose rifiutare la terapia. Non si tratta tanto di rifiutarsi di assumere psicofarmaci, quanto piuttosto di rifiutare il giudizio implicito che essi portano con sé. E' molto probabile che un uso di queste sostanze, separato dall'ideologia psichiatrica, potrebbe essere accettato e, forse, anche aiutare qualcuno in certe situazioni della sua vita. Non si tratta di cure ma di supporti per rendere la nostra vita più tollerabile.

Se assumo sonniferi per tentare di dormire e smettere di pensare ad una persona che mi ha lasciato, non sto facendo una cura, allo stesso modo in cui non mi curo andando tutte le sere ad ubriacarmi in un bar. Tento più semplicemente di sopravvivere ai miei sentimenti. Così se sento delle voci di persone invisibili che mi terrorizzano posso anche desiderare di assumere qualche pillola che mi impedisca di sentirle, ma questa non è una cura, allo stesso modo in cui non lo è alzare il volume della radio per coprirne il suono. Quello che faccio è tentare di sopravvivere alla mia esperienza. Il dolore e le voci sono esperienze reali, e restano tali per noi anche se tentiamo di zittirle coi psicofarmaci, con l'alcool o con la musica ad alto volume.

Così come la psichiatria presta poca attenzione alle ragioni di chi rifiuta le cure, lo stesso fa per chi le accetta. Tale comportamento viene considerato sintomo di buon compenso psicologico, il più delle volte invece è semplicemente una resa incondizionata alla volontà altrui e l'abbandono di ogni idea di trasformazione o mutamento della propria esistenza. Chi accetta le cure tradisce spesso i suoi sentimenti, i suoi vissuti e le sue percezioni, rinuncia alla sua autonomia e alla sua libertà di scelta, smette di essere responsabile della propria esistenza. Non esiste effetto collaterale più devastante di questo, anche perchè inevitabile, intrattabile e praticamente generalizzabile a tutti coloro che assumono terapie psichiatriche.

Anche qui non è tanto la sostanza, quanto il definirla una cura che è umanamente inaccettabile. Se mi curano per le cose che penso, che vedo o che sento, è come se mi dicono che niente di tutto ciò che mi sta a cuore o nella mente, ha senso, esiste o ha valore. Se mi curano per quello che faccio è come se dicono 'Sei tu a sbagliare'. E' una situazione totalmente diversa da quella in cui assumo un tranquillante per impedirmi di sbagliare assestando un pugno alla persona che minaccia di farmi internare. In quel caso io so di avere ragione e non voglio passare dalla parte del torto seguendo il mio istinto. Questa si chiama autogestione e non cura. Non curo una rabbia immotivata, cerco solo di non lasciarmi usare da lei.

Se veramente si crede che una situazione di crisi interpersonale vada risolta tranquillizzando qualcuno, i farmaci vanno prescritti a tutti i soggetti del conflitto. Se la convivenza risulta intollerabile e si ritiene necessario allontanare le persone le une dalle altre, esse vanno ricoverate a turno, senza designare un solo capro espiatorio. Queste sono due proposte antipsichiatriche per i cultori delle terapie e dei ricoveri psichiatrici.

Per quanto ci riguarda la nostra critica alle terapie psichiatriche non è critica alle scelte dei suoi pazienti volontari. L'idea di essere malati e di avere bisogno di cure, non è diversa dall'idea di essere stati scelti da dio e di aver bisogno di un albero sul quale stare appolaiati. L'antipsichiatria rispetta queste idee e chi le formula, indipendentemente dal giudizio che ognuno di noi può esprimere sulla psichiatria o sulla religione e dal fatto di riconoscerle o meno reali.

Da una parte e dall'altra, occorre che tutti smettiamo di pensare che le scelte delle persone hanno senso solo se provano le verità che abbiamo in testa. Il fatto che le persone rifiutino le terapie psichiatriche non prova che esse non siano utili, così come il fatto che le accettino non prova che lo siano. Analogamente, chi rifiuta queste cure non prova di essere malato, cosi come chi le accetta non prova di essere sano. Queste scelte mostrano solo ciò che un individuo,in un dato momento, riesce, o può, prospettarsi o subire, come soluzioni ai problemi che ha con o procura a se stesso e agli altri.

Accettare o rifiutare gli psicofarmaci possono essere ambedue scelte antipsichiatriche. In entrambi i casi la persona può cercare di trovare un senso a ciò che gli accade e cercare di affrontarlo. Non dobbiamo necessariamente condividere nessuna di queste scelte, non dobbiamo aspettarci che esse confermino o meno le nostre teorie, dobbiamo aiutare le persone, se lo chiedono, ad agire fino in fondo le loro scelte, a verificarle e a cambiarle, se occorre.

In questi casi, l'unico aiuto davvero necessario che possiamo dare è quello di smettere di tentare di farli ragionare e smettere di ragionare anche noi.


L'applicazione delle teorie antipsichiatriche ha portato all'abbandono dei malati mentali e al sovraccarico delle famiglie

In realtà ciò che è successo in Italia negli ultim decenni, poco o niente ha a che fare con l'antipsichiatria. La chiusura dei manicomi non è la rivoluzione che hanno voluto farci credere. Essa è piuttosto una riforma, soltanto in apparenza radicale, delle pratiche di invalidazione e internamento psichiatrico. Riforma resasi indispensabile e improrogabile solo dopo la denuncia della realtà manicomiale.

Non c'é però in questa riforma nessun segno della volontà di abbandonare l'oggetto su cui si sono accaniti gli psichiatri, né tantomeno, prendendo ad esempio le parole di COOPER, di togliere le mani dalla gola di nessuno.

L'abbandono che i più lamentano non è frutto della scelta di non interferire su persone che non l'hanno chiesto o su esperienze che non siamo in grado di capire. Esso è piuttosto frutto di un vuoto di controllo determinatosi nel passaggio da un sistema all'altro. I fautori della legge fanno notare che questo abbandono si è verificato, contro la loro volontà e intenzioni, per un presumibile interesse politico a far saltare la riforma, non finanziandone le nuove strutture di ricovero previste. Ciò è probabilmente vero.

Quello che questa polemica chiarisce, ad ogni modo, è che nessuno ha mai inteso, chiudendo i manicomi, affermare il principio che nessun essere umano può essere privato della propria libertà sulla base del giudizio che altri danno della moralità o della sensatezza del suo pensiero e comportamento. Non c'é una discontinuità evidente fra le diagnosi e le terapie praticate dentro o fuori dai manicomi. Si viene giudicati malati di mente e curati sempre per le stesse ragioni di ordine pubblico e di pubblico scandalo. Quello che sono certamente cambiate sono le strategie e le strutture attraverso i quali si esercita il controllo.

L'evidenza delle grate, la violenza manifesta delle camice di forza, l'azione punitiva degli elettroshock, sono oggi sostituite dalla conversazione, dalle case famiglia e dagli psicofarmaci. La minaccia resta sempre nell'armamentario psichiatrico, ma viene camuffata sotto il nome di emergenza medica. L'internamento coatto oggi è chiamato trattamento sanitario obbligatorio, qualcosa che suona più simile ad un'attività medica estrema volta a salvare la vita ad un uomo che, inspiegabilmente, si lascia morire, piuttosto che ad una incarcerazione. Niente viene più fatto per difendere la società dai folli: tutto è oggi frutto del tentativo di difenderli da se stessi, dalla loro famiglia o dalla società. Ecco che gli internati diventano ospiti, e i luoghi deputati alla loro custodia assumono definizioni sanitarie, come ospedali, reparti di diagnosi e cura, day hospital... oppure socio-assistenziali, come case famiglia, centri sociali, centri diurni, cooperative... Non c'é più niente nella terminologia psichiatrica che tradisca quello che realmente fa. A sentir loro la psichiatria è solo una pratica medica come un altra. In realtà, come ben sa chi la usa o ne è usato, non è così.

La sfida che la psichiatria alternativa italiana ha lanciato è quella di dimostrare che si può impedire alle persone di sragionare e di farci star male, senza necessariamente distruggere la loro esistenza materiale e sociale. Li si può controllare senza bisogno di tenerle sotto chiave e, quindi, senza rischiare di passare agli occhi di qualche profano, che non s'intende di psichiatria, come dei carcerieri o torturatori. In questo senso ha ragione chi dice che sono stati gli psicofarmaci il vero motore della psichiatria alternativa italiana, e non le decine di migliaia di persone impegnate nel tentativo di cambiare il loro destino di vittime e di carnefici, la loro mente e il loro modo di comunicare. E' certamente un giudizio iniquo, ma è vero che, se non è nata dagli psicofarmaci, la riforma psichiatrica italiana è affogata in essi, incapace di uscire fuori dall'errore di considerare le persone e le loro esperienze oggetti di cure e non soggetti di esperienza.

La polemica che animò in Italia il dibattito post 180, fra lo psichiatra Mario Tobino e i basagliani, è paradigmatica del dibattito esistente all'interno della professione. Tobino criticava i nuovi psichiatri per aver di fatto zittito e cancellato la follia, impedendole, con gli psicofarmaci, di esprimersi in tutta la sua realtà. Questa critica però non riconosceva il valore e la realtà delle esperienze così strozzate. Il loro posto restava comunque il manicomio: unico luogo in cui essa poteva esprimersi non vista, non compresa e innocua.

In atto i fautori dell'elettroshock criticano e mettono in guardia dagli effetti collaterali degli psicofarmaci, mentre chi usa psicofarmaci, giudica pericoloso l'uso dell'elettroshock. Del resto siamo abituati a questo modo di (s)ragionare. Molti fra i milioni di fumatori di tabacco, ad esempio, concordano con noi nel giudicare insensato e autodistruttivo il comportamento di chi assume droghe. E gli esempi potrebbero continuare all'infinito.

Il dibattito critico all'interno della psichiatria non ha mai messo in crisi veramente il fondamento stesso della sua esistenza. Ci sono le malattie mentali? Ci sono persone che ne soffrono? E' lecito intervenire sul loro cervello e nella loro vita senza esserne richiesti? Le idee o i comportamenti che non capiamo, non tolleriamo o non condividiamo possono provare che il loro cervello è malato?

A queste domande c'é un'unica risposta affermativa, tanto per Tobino quanto per gli psichiatri alternativi. Cambiano, se si vuole, le strategie con cui si cerca di correggere il comportamento o le idee anomale del malato. Nell'uno e nell'altro caso, il fatto che la persona abbandoni quei comportamenti o smetta di esprimere quelle idee per cui è in cura, è considerato un miglioramento. In tutti e due le pratiche lo scopo è quello di far accettare al paziente il punto di vista dello psichiatra. Non importa se questi punti di vista cambiano a seconda dell'orientamento e della storia di ogni singolo psichiatra. Non ci scandalizza pensare, ad esempio, che quella che è stata per anni curata come crisi psichiatrica, il tentativo cioè di slegare se stessi e i compagni contenuti nei letti, sia oggi considerata dagli psichiatri e dall'organizzazione mondiale della sanità, un obiettivo scientifico e culturale da raggiungere. Tanto importante da considerare patologica la richiesta di alcuni di continuare ad essere legati.

La differenza fra psichiatri manicomiali e alternativi sta nella diversa concezione che loro hanno della malattia mentale. Per i primi essa appare come una forza oscura della natura più profonda dell'uomo, creatrice e distruttrice, non socializzabile nè compatibile con la vita civile. Per i secondi essa è una reazione patologica a situazioni individuali, familiari e sociali, che può essere tenuta sotto controllo difendendo il paziente dal suo contesto di vita e sostituendo i suoi punti di riferimento affettivi e sociali. Una nuova famiglia, nuovi amici, nuove occasioni di socialità, un nuovo lavoro... la psichiatria alternativa abbandona le persone in un mondo alternativo a quello in cui hanno sempre vissuto, dove crede che loro possano e debbano vivere. Ciò, se si vuole, è qualcosa di straordinariamente simile all'idea manicomiale di costruire una città della follia, in cui rinchiudere tutti coloro incapaci di sostenere il girone A dell'esistenza sociale.

Le famiglie fanno parte di questo sistema. Esse vengono ingaggiate direttamente dall'èquipe curante. Non devono solo accompagnare, spingere e confondere i loro cari fino al punto da fargli accettare di essere malati e di aver bisogno di quelle cure. Essi devono trasformare la loro casa in un reparto psichiatrico, devono diventare gli infermieri/carcerieri dei loro cari, devono coinvolgere il vicinato, i loro amici e gli amici dei loro cari in questa opera di assistenza.

E' certo che un ruolo più attivo all'interno del sistema di cure, abbia messo le famiglie in difficoltà, obbligandole a confrontarsi con le loro scelte. Essi devono partecipare alla somministrazione della terapia e devono prendere posizione circa l'internamento o meno dei loro congiunti.

Non è un caso se non esistono, o sono rare, associazioni di familiari delle persone internate in manicomio. Le associazioni raccolgono in genere familiari di persone che, in un modo o nell'altro, sono il libertà (anche se vigilata). Questo la dice lunga sulle reali ragioni che muovono coloro che si battono perché ai loro cari siano riconosciute le cure, che essi non chiedono, e di cui probabilmente farebbero a meno. In realtà l'unica loro richiesta è quella di una manicomialità, anche se camuffata in mille sigle e strutture diverse.

Cercare un posto dove collocare una persona, specie se contro il suo parere, o costringerla a vivere una vita che non ha scelto o con persone con cui non ha storia o affetto, è una forma di abbandono. Nessuno di noi si sente abbandonato del fatto che altri smettono di tenerci chiusi a chiave, di affermare che tutto ciò che diciamo o pensiamo è frutto di fantasia, di prenderci in giro, di farci dormire quando vogliamo stare svegli... Non ci sentiamo abbandonati per il fatto che nessuno viene più a prenderci alla stazione Termini e ci scaraventa in un reparto psichiatrico. Ci sentiamo abbandonati, probabilmente, solo dalle persone a noi care, quando queste abbandonano ogni tentativo di capire, di ascoltare e di aiutarci.

Le persone che sono uscite dai manicomi e sono state inserite in strutture alternative, non sono meno sole di prima. La psichiatria le ha rese così, distruggendo tutti i loro legami e i loro affetti. Una persona diagnosticata malata di mente viene scaraventata nella solitudine estrema della diversità. Tutti abbandonano ogni tentativo di capirla, di trovare un senso a quello che dice, di rispettarla nelle sue scelte, di comunicarle le loro.

Non ci può consolare tutto questo darsi da fare intorno per cercare di distrarci e per non farci pensare: perchè sappiamo di essere soli. Le mura e le grate dei manicomi, con la loro evidente violenza, sembravano essere i soli ostacoli fra noi e la libertà. Ora che ne siamo fuori capiamo che eravamo già invisibili prima di essere internati, che siamo invisibili anche adesso che giriamo nei centri storici delle città, ci invitano in televisione o recitiamo le nostre poesie. Non siamo più quelli che eravamo, ma non possiamo essere neanche ciò che siamo.

Non conosco modo peggiore di abbandonare un essere umano, che distruggerne l'identità e il valore e poi scaraventarlo nel mondo. L'antipsichiatria non ha niente a che vedere con questo abbandono. Non ha niente a che vedere con questa violenza che gli psichiatri chiamano, paradossalmente, presa in carico. L'antipsichiatria afferma che c'é un senso in ciò che ogni persona esprime e che questo va rispettato, che la sua volontà non va coartata, che nessuno può chiamrsi fuori da ciò che succede, che ciò che non capiamo può essere un'occasione di conoscenza, che il confronto con ciò che non condividiamo è una possibilità di crescita... Per l'antipsichiatria non un solo delirio deve andare perduto, non va perduta nessuna possibilità di capire come siamo fatti e di cosa possiamo essere capaci.

La liberazione dai manicomi, di nome e di fatto, in cui abbiamo rinchiuso i nostri simili, passa dalla liberazione del significato e del valore delle loro esperienze. Nessuno va abbandonato nella solitudine di un reparto, ma nessuno va condannato alla solitudine della incomprensibilità.

Così, se la psichiatria avesse davvero abbandonato le sue vittime, avesse ammesso di non sapere cosa e come fare, avesse escluso che in loro ci fosse qualcosa che non andava, forse la questione che ci troveremmo di fronte oggi non sarebbe come controllare le cose che accadono dentro e fra di noi, ma come viverle