P R O L O G O Non vuoi capire che ogni
Uccello che fende le vie dell’aria
E’ un universo di delizie, chiuso dai tuoi cinque
sensi?"
(W. Blake)
Se c’é un paradosso che muove la nostra cultura è quello che ci obbliga a credere solo a ciò che vediamo e, allo stesso tempo, ci chiede di provarne l’esistenza. Dobbiamo credere ai nostri occhi ma solo fino al momento in cui quello che vediamo è o può essere visto da altri. Se non riusciamo a registrare la voce che ci sta parlando o a fotografare la persona che lo sta facendo, non dobbiamo credere ai nostri occhi, né prestare ascolto alle nostre orecchie. Se lo facciamo corriamo il rischio di essere messi ai margini della realtà sociale e umana e costretti con ogni mezzo a rinunciare a comunicare la nostra esperienza. Non dovrebbe essere difficile accettare il fatto che la realtà di questo muro è frutto della mia percezione. Fossi cieco non ne avrei esperienza a meno che non ci andassi a sbattere contro. Il tatto sostituirebbe la vista in maniera dolorosa, ma concreta. Fossimo ciechi descriveremmo la realtà a partire dai suoni e dagli odori che la popolano. Non ne avremmo un’immagine, non troveremmo sensato percepire le forme o pensare che li dove c’è un suono ci debba per forza essere qualcosa (o qualcuno) che l’abbia prodotto. Non ci porremmo neanche un tale problema. Il muro semplicemente non esisterebbe e nessuno crederebbe reale l’esperienza di andare a sbatterci contro. Se qualcuno dicesse che esiste qualcosa come un muro, una forma o dei colori sarebbe presto internato e il suo cervello studiato per capire cosa non va nel suo funzionamento. Ciò è almeno ciò che succede sempre più spesso alle persone che sentono voci che non possono essere registrate, che non vengono avvertite dalla maggiorparte di noi e che provengono da persone invisibili o da cose inanimate. Le loro orecchie funzionano perfettamente. Esse sentono con chiarezza tanto le nostre voci impaurite di fronte a ciò che ci stanno raccontando, quanto le voci che suggeriscono loro di tacere. Spesso queste voci sono più sensate di noi. Non sempre. Uno degli errori fondamentali che vedo nel nostro rapportarci a questa esperienza sta nella domanda che generalmente poniamo a noi stessi e a coloro che sentono voci. Diciamo ‘Che cosa succede?’, quando andrebbe chiesto ‘Chi è che parla?’ Se sentiamo una voce per le scale non ci chiediamo cosa stia succedendo. Realizziamo subito che qualcuno sta salendo. Se siamo curiosi possiamo chiederci chi sia e se ne riconosciamo la voce, possiamo chiamarlo e aspettare che ci raggiunga. Bene. Per capire cosa intendo dire, provate a pensare che l’amico che avete sentito per le scale non arrivi mai al vostro pianerottolo. L’avete sentito, ma non c’era. Se vi chiedete ‘Chi era?’, credete alle vostre orecchie. Se vi chiedete ‘Cosa mi succede?’ cominciate a dubitare della vostra salute mentale e a temere che altri lo facciano. Chiedersi ‘Chi’ lascia aperta la ricerca del senso e della realtà di quella voce. Chiedersi ‘Cosa’ cancella questa esperienza e cerca in voi qualcosa che non funziona. Credo che nessuno possa negare la legittimità di ambedue le ipotesi. Non c’é, allo stato attuale delle nostre conoscenze, niente che possa far escludere la realtà della voce che abbiamo sentito per scala, né al contrario che ce la possa provare. Il problema se credere o meno che ci sia davvero qualcuno che ci chiama dalle scale, è un prodotto relativamente recente dell’idea del mondo e della mente che ci siamo formati. Con tutta probabilità è un falso problema. Gli uomini hanno sempre creduto nella possibilità di allargare l’area della propria percezione e ne hanno cercato le strade e gli strumenti. Implicitamente hanno sempre creduto che esistano realtà fuori e dentro di noi che non riusciamo a percepire coi sensi ma che hanno un’importanza decisiva per la nostra esistenza. Pensiamo ai movimenti del cuore e al funzionamento dell’intero nostro organismo, alla rotazione della terra sul suo asse o all’ossigeno che respiriamo. Tutte cose stramaledettamente reali e invisibili allo stesso tempo, indispensabili tanto per chi crede alle voci che sente, che per chi crede che vada curato. Microscopi, telescopi, apparecchi ricetrasmittenti ... Se non avessimo messo tutta la tenacia di cui siamo capaci nel credere, contro ogni evidenza e prova, che c’era qualcosa d’altro oltre a ciò che i nostri occhi e le nostre orecchie erano capaci di percepire, oggi gran parte di ciò che riteniamo ovvio, sarebbe stato considerato sensatamente delirante. Come spesso accade però, la rivoluzione scientifica, dopo aver aperto possibilità insperate alle nostre capacità sensorie, ha instaurato una dittatura percettiva pressoché assoluta. E’ certo solo ciò che può essere provato. Distrutta le certezza di ciò che percepiamo coi sensi, l’unica certezza che conta è ciò che può essere registrato e riprodotto dagli strumenti a nostra disposizione. Succede così di vedere schiere di spiritisti che cercano le prove dell’esistenza dell’aldilà attraverso le registrazioni delle voci dei morti o le fotografie dei fantasmi. Questi documenti servono a provare da una parte la sanità mentale di chi ne parla, dall’altra a dimostrare la continuità, nell’aldilà, delle leggi del mondo di qua. Il fine ultimo della conoscenza scientifica del mondo non è comprendere la natura della realtà, ma tenerla sotto controllo. In questo senso la mente degli spiritisti funziona allo stesso modo di quella dei materialisti. Tradurre il linguaggio del mondo di là in stimoli sonori udibili e registrabili, mostra la effettiva sostanzialità delle anime, il loro essere sottoposti alle leggi fisiche a cui sono sottoposti i nostri corpi. Percepire le anime dei morti significa in qualche modo controllarle, stabilire dei limiti alle loro azioni, intrappolarle. Lo spiritismo così aggiunge poco alla nostra conoscenza della realtà, più che altro tenta di allargare il dominio della ragione anche sui mondi immateriali che influenzano la nostra vita visibile. Non è un caso che gli spiritisti evitino quella psichiatrizzazione di massa che invece tocca sistematicamente le persone che affermano di sentire voci. Gli spiritisti costituiscono una comunità, hanno costruito una teoria di riferimento che spiega ciò che accade loro e hanno istruzioni precise su cosa fare e come comportarsi in ogni situazione. Le voci che sentono normalmente sono evocate e la loro natura è, per lo spiritista, chiara. Date certe condizioni e riti, essi si aspettano di sentire la voce di qualche defunto o essere appartenente alla comunità dell’aldilà, così come la immaginiamo e la descriviamo. Superato il problema di capire chi parla, la questione si pone su un piano di mero ascolto (cosa sta dicendo, a chi e perché). La volontà dello spiritista è tutta rivolta a sentire e dimostrare di sentire una voce. E’ chiaro che una tale attesa fa sì che l’esperienza delle voci sia vissuta alla stregua di qualsiasi altra percezione di realtà condivisa, con la stessa tranquillità o emozione che può darci un’esperienza conosciuta. La chiave di volta di questa esperienza è rappresentata dal dialogo sensato che si stabilisce fra di là e di qua. Il sentire voci o l’essere canale visibile delle anime defunte è una forma di relazione, è considerata tale ed è vissuta come tale da una comunità estesa di individui. Questo fa sì che, nonostante i tentativi psichiatrici, l’esperienza spiritica ancora oggi sia in gran parte riconosciuta nell’ambito della normalità delle credenze umane. Essa si fonda infatti su una fede e una speranza che sono comuni alla stragrande maggioranza degli esseri umani che popolano il pianeta terra: la sopravvivenza dell’anima alla morte. Torneremo su questo discorso. Adesso è sufficiente annotare il fatto che lo sguardo scientifico sul mondo trancia via tutta una serie di informazioni e esperienze decisive, nel bene e nel male, per lo sviluppo delle comunità umane. Non sapremo mai come sarebbe stata la nostra esistenza senza il dialogo di Mosé con Dio o l’Annunciazione dell’Angelo a Maria. Possiamo solamente essere certi che oggi né l’uno, né tantomeno l’altra, potrebbero evitare una perizia psichiatrica e, probabilmente, un ricovero. Eppure dobbiamo ad una Voce, quella di Dio, la rivelazione del codice universale dei comportamenti umani; e sempre una Voce annunciò e accompagnò la nascita di un uomo, Gesù Cristo, nel nome del quale milioni di esseri umani sono morti, hanno ucciso, hanno costruito e distrutto le loro esistenze, giudicato e sono stati giudicati... Così, anche se un giorno gli psichiatri riuscissero a dimostrare che non c’era alcun Angelo, nè alcun dio a parlare loro e a mostrare che quelle voci erano frutto di processi biochimici che avvenivano nei cervelli di Maria come di Mosé, ciò non cambierebbe i fatti e la loro realtà. Il fatto che non si può essere certi di qualcosa non significa che quella cosa non sia vera. Possiamo rimanere intrappolati in una stanza sia perchè siamo stati chiusi dentro a chiave, sia per il terrore di uscirne. Siamo in trappola comunque, sia che la porta sia stata chiusa che lasciata aperta. Gli esseri umani, del resto, non vivono di sole certezze, ma soprattutto di verità. I cristiani che oggi si affannano a discernere la genuina vocazione dal delirio, dovrebbero rammentare la tenacia e la sorte dei loro antenati, messi a morte perché negavano con la loro fede l’ordine costituito. Il monoteismo, infatti, non è solo una fede, ma soprattutto una visione del mondo, degli uomini e della relazione fra essi. I primi cristiani erano perseguitati per motivi del tutto simili a quelli che oggi giustificano i ricoveri e le terapie psichiatriche. Quanto andavano predicando doveva sembrare ai loro contemporanei interamente irrazionale, insensato e pericoloso. Ogni nuova fede, infatti, specie al suo primo sorgere, mette in discussione l’autorità costituita, se non altro perchè non ne riconosce più la sovranità e non ne condivide le leggi. Pensiamo a quanto sarà potuto sembrare folle ai romani l’imperativo cristiano che imponeva di non uccidere. Imperativo più forte di qualsiasi legge, minaccia o condanna a morte. Imperativo che poteva disgregare l’impero conquistato dal loro esercito e dalla loro violenza. Il Dio che essi adoravano era l’unica vera autorità che riconoscevano. Le sue leggi le uniche leggi che rispettavano. I primi cristiani erano perfettamente folli secondo le definizioni ufficiali che gli psichiatri usano per formulare le loro diagnosi. Essi, infatti, credevano in una realtà invisibile, impossibile e allucinatoria. Non erano integrati nel contesto sociale e culturale in cui vivevano. Le loro azioni violavano le leggi del vivere civile e quelle penali. Le motivazioni che adducevano a spiegazione delle loro azioni erano dei deliri e delle fantasie prive di qualsiasi riscontro oggettivo.... Naturalmente nessun psichiatra riuscirebbe, oggi, a convincere qualcuno che Maria era solo una giovinetta isterica o che Mosé uno schizofrenico allucinato. Ciò non toglie che l’applicazione corretta della logica psichiatrica ai loro casi avrebbe condotto a valutazioni di questo genere, con le conseguenze che conosciamo. L’Annunciazione dell’angelo a Maria o la trasmissione dei comandamenti a Mosè, sono eventi che se non possiamo cancellare, possiamo certamente neutralizzare relegandoli al mondo del simbolico, della fantasia e dell’immaginario. Se non facessimo così, dovremmo accettare la verità elementare che gran parte delle nostre idee circa il significato dell’esistenza umana e la liceità dei comportamenti umani, nascono da esperienze che oggi definiremmo allucinatorie. Molti fra di noi credono, di fatto, in verità frutto di dialoghi con voci, del tutto simili ai dialoghi che impegnano gli internati psichiatrici o i balordi nelle stazioni di tutto il mondo. Verità rivelate: tali perchè comunicate da una Voce divina, disincarnata e invisibile. La lettura simbolica di queste esperienze serve a neutralizzare l’influenza delle voci nella nostra vita materiale e mentale. Non c’é nessuno che parla, la voce che immaginiamo di sentire è frutto di un monologo interiore che noi, in qualche modo, produciamo. Il fatto di sentire le voci sarebbe così sintomo dell’emergere di vissuti interiori: il fatto che intere comunità di individui possano darvi credito, soltanto espressione di un’esigenza culturale. Un’ipotesi del genere è corretta e accettabile nella misura in cui non si propone come spiegazione scientifica e oggettiva della realtà, dimenticando che essa stessa è frutto di profonde esigenze individuali e collettive. Se è plausibile pensare che le persone si inventino le voci con cui parlano per vincere la solitudine, è altrettanto corretto pensare che chi cerca di convincerci di questo in realtà tenta di vincere l’inquietudine che la loro esistenza inserisce nella nostra. Negare realtà alle voci non è un atto di buon senso o di razionalità: è un’esigenza psicologica. E’ frutto della paura e del terrore che ci fa qualsiasi esperienza che sfugge al nostro controllo razionale o al controllo dei nostri strumenti. Prima di tentare di togliere il bruscolino nell’orecchio di chi sente le voci, gli psicologi farebbero bene ad estirpare la trave che hanno conficcata nei loro occhi. Negare è la parola d’ordine che ci passiamo gli uni con gli altri per tenere a distanza le voci e chi le sente. Il fatto che lo facciamo attraverso una lettura psichiatrica (e, quindi, dando del matto a chi le sente) o psicologica (e, quindi, affermando che immagina di sentirle), non cambia la sostanza della questione. In ambedue i casi rifiutiamo di aprire un dialogo con loro, affermando che non c’è nessuno con cui parlare oppure che esse stesse sono frutto di un monologo interiore. C’è da chiedersi perchè la nostra cultura abbia elaborato un sistema di negazione così sistematica di questa come di altre esperienze umane. La nostra, di fatto, è l’unica epoca in cui il sentire voci non ha alcuna possibilità di produrre senso o di avere un senso se non quello imposto da altri; in cui il dialogo con loro è considerato sintomo di una patologia; in cui ogni forma di relazione è negata. Questo almeno in linea di principio. Esistono poi delle situazioni, sempre più numerose, in cui questa gabbia percettiva che ci siamo costruiti viene scardinata, l’esperienza esce dalla solitudine del dialogo interiore e diventa patrimonio collettivo, luogo di confronto e di stimolo, strumento di ricerca della verità. Tali sono, ad esempio, i raduni estatici nei luoghi delle apparizioni mariane. Le visioni e i messaggi della Madonna vengono ascoltati e trasmessi da fanciulli o gente umile, trascritti e diffusi stimolano riflessioni, producono cambiamenti, influenzano i nostri comportamenti. Spesso si argomenta che certi fenomeni di accettazione collettiva di fatti in sé patologici, com’è per la psichiatria il sentire voci, nasca dal bisogno di rassicurazione e dalla ricerca tutta umana del senso da dare alla propria esistenza. Ma cos’é che ci fa dire che il bisogno di alimentarsi è concreto e il cibo reale, mentre quello di capire etereo e la voce che ci parla irreale? Se mettessimo in fila tutte le certezze che abbiamo saputo trovare circa noi stessi e il mondo che ci circonda, se le disponessimo in ogni possibile architettura, se le sviscerassimo in tutte le loro profondità, significati, relazioni, alla fine non arriveremmo a niente che assomigli neanche lontanamente ad una risposta del perchè noi siamo qui e perchè dovremmo restarci o andare via. Le mie orecchie potranno permettermi di sentire i suoni che si producono intorno e dentro di me, ma non dipende da loro il fatto che io riesca ad ascoltare qualcuno. E’ importante che io riesca a sentire il clacson dell’auto che mi avverte del pericolo oltre la curva, ma non è meno concreto riuscire ad ascoltare chi abbiamo davanti per capire cosa vuole da noi. Pensare che a un bisogno reale come quello di risolvere il mistero della nostra esistenza su questo pianeta, si debba rispondere con certezze simili ad un hamburger, non è un fatto sensato e razionale, ma solo il tentativo malriuscito di zittire domande e questioni che poste distruggono la realtà illusoria in cui ci siamo nascosti. Mi succede a volte, mentre scrivo, di pensare che dovrò morire, in qualche modo, da qualche parte e in qualche momento. Questo pensiero rende inutili tutte le certezze che muovono la mia vita. Che senso ha stare ancora qui a scrivere? Osservare i semafori? Stare attenti a non urtare la sensibilità delle persone? Mangiare? Fare una conferenza? Pagare un mutuo o costruire una casa? ... I materialisti di tutto il mondo dovrebbero ringraziare gli irrazionali spiritualisti di ogni epoca e luogo, se questa loro terra fatta di concretezza, corpi, asfalto e quant’altro, non si è trasformata ancora in un’enorme concreta carneficina, in un brulicare insensato e impazzito, nella fine di tutto. Abbiamo ormai acquisito come certo che i nostri bisogni immateriali siano concreti al punto da poter modificare in maniera incisiva e duratura la nostra biochimica e il nostro corpo. Crediamo addirittura che essi possano farci vedere e sentire persone che non ci sono, avere rapporti con loro e fare ciò che ci dicono. Però continuiamo a considerare irreali le risposte che diamo a essi. Continuiamo a dire che non c’é nessuno che ci parla. Paradossalmente è come se riconoscessimo la realtà del nostro bisogno di alimentarci e poi dicessimo che il panino che stiamo ingurgitando non esiste. Continuiamo, cioè, a considerare queste risposte come espressione di realtà esclusivamente soggettive. Le voci che ci parlano non possono essere registrate, nè ascoltate da altri, mentre il nostro panino fa gola e può essere assaggiato da tutti. Questa invisibilità dell’esperienza che in genere accompagna il sentire voci da sola non è sufficiente a dimostrare che esse non abbiamo un’esistenza oggettiva e, cioè, autonoma dalla persona che le percepisce. Intanto perchè l’esistenza della realtà esterna è ancora un mistero tale che, a rigore, si potrebbe affermare che niente ha esistenza oggettiva aldifuori di ciò che noi riusciamo a percepire. In questo senso tutto ciò che percepiamo si potrà rivelare solo un sogno (o un incubo) a occhi aperti. Poi perchè non possiamo escludere la possibilità che esistano forme di comunicazione e modi di percezione che soltanto alcuni fra di noi riescono a sviluppare, ma che tutti, date alcune circostanze, possono imparare ad usare. Questo è almeno ciò che può sensatamente dedursi dall’universalità dell’esperienza del sentire voci in ogni epoca e cultura. Possiamo dire che il sentire voci è un modo di percepire la realtà e gli esseri viventi che la abitano. Come tutte le esperienze percettive essa è limitata e può indurre in errore. Possiamo fraintendere ciò che stiamo ascoltando, oppure le voci possono suggerirci cose che si rivelano false o, anche, possono volere prendersi gioco di noi. Del resto questi sono i rischi di qualsiasi comunicazione interumana. La comprensione di ciò che un’altra persona ci sta dicendo, così come il dargli credito o l’obbedirgli, è un processo complesso in cui il fatto di sentirne e intenderne le parole o i comandi, è solo uno degli aspetti in gioco. Il fatto di credere che quanto ci stanno dicendo sia vero, deriva anche, e soprattutto, dalla nostra relazione con chi parla, dal ruolo o dalla funzione che ricopre, dal riconoscimento da parte nostra della sua autorità. Ha influenza anche il luogo in cui avviene la comunicazione, il modo di presentarsi e presentare la questione da parte dell’altro, le informazioni che abbiamo sul suo conto, le esperienze passate... In genere utilizziamo l’espressione "stai mentendo", indipendentemente dal fatto di avere delle prove oggettive di ciò. Questo è quello che succede, ad esempio, a tutti coloro che incontrano e si innamorano di persone deluse da precedenti relazioni. Queste ultime non possono credere (e non credono) che stiamo dicendo loro la verità circa i nostri sentimenti. Eppure non hanno prove per dire il contrario. Lo stesso accade alle persone che sono state sottoposte ad un giudizio psichiatrico: le loro parole perdono senso e credibilità indipendentemente dalle prove che possono portare. Il loro discorso per definizione è errato, falso e insensato. Ciò fino alle estreme conseguenze di considerare delirante o anche solo simbolico (e quindi irreale) ogni accenno di denuncia di violenze fisiche o sessuali subite da questi. La parola di uno psichiatrizzato non viene ammessa in giudizio, egli stesso se inquisito perde spesso, sulla base di una perizia psichiatrica, la possibilità di assistervi, intervenirvi, difendere le proprie ragioni. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Analizzando le nostre relazioni quotidiane e il nostro modo di prestare ascolto e dare credito agli altri, potremmo sviscerare altre variabili che ci determinano a credere a ciò che ci si dice, ad ubbidire a un ordine o seguire un consiglio. Questi esempi sono utili per provare a pensare al fenomeno del sentire voci come una esperienza possibile di comunicazione. Una delle cose che ci inquieta maggiormente nell’accettare la realtà delle voci, è infatti l’idea che queste possano influenzare i comportamenti di chi le ascolta al punto da spingerlo a commettere azioni lesive nei propri e altrui confronti. Non mi riferisco solo al fatto che crediamo possano ordinare alle persone di uccidersi o uccidere qualcuno, ma anche al semplice fatto che possono consigliarli e obbligarli a lasciare il posto di lavoro, dare fuoco in piazza ai propri risparmi, distruggere la mobilia di casa, accusare e denunciare parenti e amici, etc. L’ipotesi a prima vista sembra sensata, suffragata da fatti di cronaca e da testimonianze dirette di persone che affermano di avere agito per ubbidire ad una o più voci, ma in realtà nasconde solo la nostra paura di confrontarci con la realtà del nostro essere uomini e, quindi, influenzabili e in balia di un mondo umano e materiale su cui spesso non abbiamo alcun controllo. Alcuni esempi. Se venissi adesso a ordinarvi, con fare perentorio, di uscire di casa e starvene sotto questa pioggia battente ad aspettare un segnale divino, probabilmente la maggiorparte di voi non lo farebbe. Ma se io fossi un sottufficiale dell’esercito italiano e voi dei militari di leva, sentireste di non avere altra scelta se non alzarvi in fretta e obbedire all’ordine per quanto assurdo vi possa sembrare. Eppure nell’un caso e nell’altro ho usato le stesse parole, ma solo in un caso sono stato obbedito. Ubbidiamo ad un ordine quando riconosciamo autorità a chi lo emette o quando ne siamo minacciati, ciò indipendentemente dalla sensatezza dell’ordine stesso. Non c’é di fatto alcuna differenza sostanziale nel sparare su altri esseri umani per ordine di un superiore o della voce di Satana. Non ce n’è per chi cade sotto i nostri colpi, non ce n’é per la responsabilità morale e umana che ci assumiamo, non ce né per i meccanismi che ci portano ad obbedire a quell’ordine. Le persone non obbediscono alle voci che sentono per statuto: obbediscono se ne riconoscono l’autorità, ne temono le reazioni, ne condividono le analisi, vogliono farle smettere di parlare... Si comportano cioè come comunemente fanno nei casi in cui si zittiscono nelle biblioteche, rispondono alle domande di un giudice, rinunciano a mangiare carne, indossano la maglia di lana della mamma... Le voci hanno autorità e autorevolezza almeno per due ordini di motivi:
Non c’é niente di più vicino ad una persona come la voce che sente. Gioco forza essa conosce la persona meglio di chiunque altro ed è capace di lenirne le ferite o cospargervi del sale. Gran parte della loro autorità e della loro influenza nasce dal fatto che esse sembrano avere accesso ai nostri più intimi segreti, essere a conoscenza dei nostri pensieri più nascosti, conoscere i nostri punti deboli. Le voci sanno sempre che parole usare per farsi ascoltare da noi. Non abbiamo alcuna possibilità di restare indifferenti, poichè esse parlano sempre di noi nel modo più viscerale, radicale e inaggirabile. Quello che hanno da dirci è quanto di più importante o inquietante possiamo aspettarci di sentire da un altro essere umano. Non c’é nessun luogo in cui non possano raggiungerci. Il suono delle loro parole non subisce i limiti della materia: non c’é porta, muro, suono che possa impedirci di sentirle. In qualche modo sentiamo queste voci con tutto il corpo, come se fossimo diventati un enorme orecchio vivente, un timpano che vibra all’unisono con loro. Le voci ci conoscono forse meglio di quanto noi stessi ci conosciamo. I loro consigli sono sempre sensati anche quando ci spingono ad esporci e a rischiare la nostra vita sociale e materiale. Spesso le usuali ragioni che giustificano la nostra accettazione acritica del reale non reggono il confronto con l’irragionevole spinta ad andare fino in fondo alle cose. Non c’é niente che noi possiamo pensare o fare che non sia già nelle nostre possibilità umane. I consigli che seguiamo, in qualche modo, sono già scritti dentro di noi o nella nostra storia. Le voci pensano al nostro posto. Dicono le cose che non ci è possibile dire. Scelgono per noi. Ci convincono della necessità di rivoluzionare la nostra esistenza e ce ne indicano la strada. Non esiste credo niente di cui ci possano convincere di cui già noi stessi non siamo convinti. Ciò anche quando abbiamo la necessità di nasconderci dietro il plagio per non assumerci l’onere di capire quello che abbiamo fatto o è successo. L’esempio dell’assassino di John Lennon è emblematico dei pregiudizi e della realtà di questo nostro rapporto con l’autorità e il potere delle voci. La Corte che lo giudicava aveva ragionevolmente richiesto una perizia psichiatrica per valutare se l’atto dell’omicida fosse stato causato da una qualche patologia psichiatrica. In particolare l’assassino aveva dichiarato di aver agito sotto l’influenza, il consiglio o l’ordine di voci demoniache che lo avevano convinto del tradimento di Lennon rispetto alla causa di trasformazione della società. Ciò era sufficiente per far concludere i giornali e l’opinione pubblica che l’assassinio del cantante non fosse altro se non l’ennesimo raptus omicida di un folle. Atto insensato, immotivato, irrazionale. Lennon era morto a causa di questo disordine mentale e non per libera scelta di qualcuno. Una morte essa stessa insensata. Questo modo di pensare che sembrò alla Corte, così come usualmente appare anche a noi, sensato in realtà scaraventa la morte di un uomo e la vita del suo assassino nel nulla. Non permette di capire e , quel che è peggio, crea una mitologia del sentire voci che afferma la presunzione di pericolosità di tale esperienza. La perizia psichiatrica nel prosciogliere la persona dalla responsabilità di aver scelto di uccidere, imputa alle voci la responsabilità dell’omicidio, trasformando le migliaia di persone che le sentono in potenziali assassini di cui aver paura e loro stesse in esseri impauriti e assediati fra la paura di perdere il controllo e il terrore di essere scoperti. Va detto che è la situazione di clandestinità in cui noi costringiamo chi sente le voci, a influenzare in maniera decisiva la possibilità di questi di controllare, comprendere e usare al meglio tale esperienza. Credo che siamo tutti equamente responsabili del fallimento di questo dialogo e delle tragiche conseguenze che a volte ne derivano. Se fosse stato possibile all’assassino di Lennon di parlare e confrontare le sue ragioni e le ragioni delle sue voci, con le nostre o con quelle di Lennon, probabilmente questo conflitto avrebbe potuto risolversi in maniera meno iniqua. Torneremo su queste responsabilità collettive. Ora va ricordato che l’omicida rifiutò di sottoporsi alla perizia chiedendo di essere giudicato per quello che aveva fatto. In particolare in un’intervista lo stesso, nel rivedere le posizioni che lo avevano portato a quell’atto, affermò con chiarezza di non ritenere i demoni o le voci responsabili di quanto aveva fatto. Egli si era convinto coscientemente che le accuse, le analisi e le idee delle voci fossero corrette, così come l’ordine di punire il traditore. Dare la responsabilità di quanto aveva fatto ai suggerimenti che aveva ricevuto, è altrettanto grottesco che affermare che il responsabile del suicidio di una coppia di giovani innamorati possa essere individuato in un opera d’arte e passione come il Giulietta e Romeo di Shakespeare, trovato sul comodino delle vittime. Questo modo di pensare è irrazionale forse più del gesto che intende negare: nasce dalla necessità personale e sociale di non vedere, non capire, non confrontarsi, non sentire. L’assassino in questa intervista usava un’immagine a mio avviso molto chiara per descrivere la questione della responsabilità dell’atto che aveva commesso. Diceva che le voci erano state sempre con lui, e lo accompagnavano da mesi, senza lasciarlo mai un minuto. Questo fino all’attimo prima che premesse il grilletto. Quando sparò su John Lennon dentro e intorno a lui tutto era in completo silenzio. Era stato lui a premere il grilletto e in quel momento era solo. Spesso queste voci non hanno un corpo, appaiono come entità disincarnate e invisibili. Sono puro suono, non prodotto da laringe umana. Ciò che esse provocano nella nostra fragile materialità non è dissimile da quello che Adamo e Eva provarono al cospetto della voce di dio dopo aver mangiato la mela. L’essere nudi, soli e in balia di entità e di un disegno invisibile ma inesorabile. Chi ci parla non può essere visto, arrestato, zittito. Non ha un corpo che possiamo intrappolare aldilà di una porta. Non ha un’identità che possiamo riconoscere e disprezzare. Nel nostro immaginario l’essere invisibile è principio di tutte le cose, creatore e, allo stesso tempo, distruttore del reale. L’invisibile abita i luoghi in cui stanno i nostri pensieri e i nostri segreti. Non c’è niente che gli si può celare. Mentre possiamo tenere a distanza i corpi e le menti delle altre persone materiali, niente possiamo contro la sua invasione. Egli può penetrare in ogni nostra cellula e prenderne possesso, pensare i nostri pensieri e anticipare le nostre decisioni. Il potere che noi attribuiamo alle voci non è dissimile da quello che immaginiamo abbiano entità invisibili (materiali o fantastiche) che influenzano la nostra esistenza. Crediamo seriamente che chi non ha corpo abbia di fatto accesso alla conoscenza delle leggi che regolano la vita e l’esistenza materiale di tutti noi. Non solo, crediamo anche che possa avere influenza e possa determinare quanto ci accade. Gli uomini hanno del resto sempre creduto a queste presenze immateriali che determinano gli eventi umani. Hanno sempre creduto che essi vogliano e possano modificare la realtà in cui viviamo. Angeli, folletti, demoni, dei... hanno spesso deciso per gli uomini e per il loro destino. Ciò se è possibile, rende ancora più complessa la possibilità di instaurare con le voci una qualche relazione di reciprocità e di collaborazione paritaria. Esiste, di fatto, una differenza ontologica fra le voci e noi. Pur condividendo la medesima realtà abbiamo e agiamo esistenze e possibilità differenti. Se è vero che a noi non è possibile sentire e vedere i pensieri degli altri esseri umani, è vero anche che alle voci, in via generale, non è permesso agire sulla materia se non attraverso noi. Chi sente le voci e crede di esserne dipendente, dovrebbe a mio avviso riflettere se, e in quale misura, le voci che sente abbiano invece bisogno di lui. Augusto, ad esempio, gironzola spesso nei pressi dell’ospedale. Mi dice che in un punto imprecisato del muro vede/sente un vecchio che gli parla e predice il futuro. Lui, da buon abitante del nostro mondo sensato, verifica sempre ogni informazione che riceve. Fino ad oggi il vecchio non si è mai sbagliato. Augusto se ne sta lì ad ascoltarlo perché, dice, sa che il vecchio ha bisogno di lui. Senza Augusto il vecchio non esisterebbe. Se ne starebbe così invisibile, spinto di qua e di là da persone ignare e sorde ai suoi richiami. Anche così non ha vita facile. Gli uomini si sono via via attrezzati nei secoli per chiudere ermeticamente tutte le porte che permettono al vecchio di entrare nello spettro delle nostre percezioni visive, uditive, tattile o olfattive. Augusto è già stato psichiatrizzato e lo stanno cercando di nuovo. Lui non lotta solo per la sua libertà e la sua lucidità, ma anche per quel vecchio che è di ben poco pericolo per la sua integrità psichica e fisica, rispetto ai veleni che gli iniettano in vena o agli infermieri di un reparto psichiatrico. L’urgenza di intervenire non è dovuta alla necessità di curare Augusto. Ciò che muove tutti è l’esigenza di chiudere la questione che egli apre nell’ordine sociale e familiare in cui è inserito. Se segue gli ordini del vecchio, non sarà più disponibile a seguire l’ordine sociale. Così non si laverà, non lavorerà, dormirà per terra o alle stazioni, chiederà l’elemosina, etc. Si comporterà cioè come tutti i santi e i mistici che hanno calcato il nostro pianeta nei millenni. Ho sentito spesso persone sensate affermare che Augusto potrebbe fare quello che gli pare, a patto di comportarsi da persona civile. Potrebbe continuare a sentire il vecchio, ma non dovrebbe trascurare la famiglia, il lavoro, l’igiene personale, il sonno... Dovrebbe cioé trattare come una fantasia ciò che per lui è una vera e propria realtà. L’esperienza insegna che ciò non è possibile. L’esperienza del sentire voci, spesso ma non sempre, stravolge interamente la nostra identità. Non resta molto di noi, delle nostre aspettative e della nostra esistenza sociale dopo essere stati toccati. Spesso ciò che accade è un rinascere, illuminati dalla luce di una rivelazione che finalmente dà un senso alla nostra presenza nel mondo. Il fatto che gli altri intorno rifiutino di riconoscere la nostra nuova vita, è parte integrante della rivelazione e dell’arrendersi ad essa. Chi sta sul cammino della verità, sa che deve aspettarsi una persecuzione tanto più crudele e insensata quanto più e genuina la propria fede. Del resto anche i Vangeli sono cosparsi di notazioni di questa natura. Ad esempio nel Vangelo secondo Matteo dove Gesù dice "Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà". O ancora: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa". Non c’é dubbio che i nemici di ogni nostra trasformazione vanno cercati fra le persone più vicine. Esse, infatti, costruiscono la loro identità a partire dalla nostra. Possono essere padri, ad esempio, solo se noi siamo figli. Il fatto che possiamo cambiare è in se un inaccettabile tradimento dell’ordine familiare e mentale in cui viviamo. Esso però è inevitabile e necessario, tanto più quanto veniamo chiamati, come lo furono i discepoli di Cristo che lasciarono tutto per seguirlo. Per seguire noi stessi e la nostra guida interiore spesso dobbiamo rompere con tutto e con tutti. Ciò è l’inevitabile corollario della nostra scelta di privilegiare il dialogo e la ricerca interiore come via maestra alla comprensione di noi stessi e del mondo. Questo primo momento di chiusura e di rottura anche eclatante, è temporaneo ed ha la funzione di concludere una fase della nostra esistenza, allo stesso modo in cui il denudarsi in piazza servì a Francesco per liberarsi simbolicamente e praticamente della sua identità precedente e dei suoi legami con l’ordine costituito. Se ciò ci viene permesso, la fase successiva consiste nel costruire un dialogo serrato con la voc(e)azione che ci guida per modificare la nostra e altrui esistenza. Vedremo più in là degli esempi di come tale dialogo possa dare buoni frutti. Per adesso chiediamoci come può una voce determinare trasformazioni tanto radicali negli esseri umani. Se il linguaggio serve usualmente a costruire, dentro e fuori di noi, un ordine mentale e sociale, esso può anche distruggerlo. Ciò è quello che sovente fanno le voci: sovvertire l’ordine del reale. Ciò è tanto più vero quanto più riflettiamo sul fatto che la totalità delle dottrine, delle tecniche, delle filosofie che promuovono un superamento della nostra visione del mondo e la ricerca di un nuovo ordine mentale e cosmico, concordano nella necessità di interrompere il dialogo interiore come prerequisito indispensabile per rendere possibile ogni cambiamento. Il che indica che il linguaggio ha una funzione ben più profonda della semplice capacità comunicativa o evocativa. Esso cioè non ci permette solo di comunicare con gli esseri umani e sulla realtà, ma in qualche modo rende possibile la loro esistenza. Come dice Don Juan a Castaneda:"Quando si raggiunge il silenzio, tutto è possibile". (C. CASTANEDA 1992, pag. 146). Tutto è possibile perchè, a ben guardare, ciò che tiene insieme il senso di ciò che chiamiamo realtà, sembra essere questo nostro costante dialogo interiore in cui nominiamo e definiamo le cose secondo l’ordine convenzionale che ci siamo dati. Pur senza rendercene conto, se non in determinati stati di coscienza, noi continuamente definiamo (e creiamo) la realtà. Questa è una sedia, questo è un dito, questo sono io, questo è un tavolo, questa è una mano e così via. Il dialogo interiore traduce immediatamente le percezioni in qualcosa di reale e conosciuto. Costruisce cioè un modo di riconoscimento di ciò che va considerato tale. Se diamo uno sguardo al modo in cui educhiamo i nostri bambini a percepire e a riconoscere la realtà, vediamo chiaramente quanto peso ha il nostro costante indicare loro, attraverso il linguaggio, il nome di tutte le cose, le azioni, le emozioni, i comportamenti. Noi facciamo con loro quello che spesso le voci fanno con noi: tentiamo di educare la loro percezione per renderli capaci di percepire la realtà così come pensiamo debba essere. Senza la mediazione del linguaggio, nessun bambino riuscirebbe ad integrarsi in maniera naturale e spontanea in questa realtà. E’ acquisito infatti che le capacità percettive dei bambini sono più ampie e meno organizzate di quelle degli adulti. Questo fatto che spesso viene considerato un limite da superare con l’educazione, in realtà è una possibilità concreta che abbiamo per vedere e sentire la realtà in modo più completo. Non a caso le filosofie che ricercano una trasformazione interiore affermano che bisogna ritornare ad essere puri come bambini. La purezza a cui si riferiscono è, a mio avviso, quella percettiva. Quella che permette loro di vedere il loro vero volto e la realtà così com’é, senza la mediazione della coscienza o del linguaggio. Se i bambini si convincono che il fuoco brucia, ciò accade sia per l’evidenza di tale esperienza che per il fatto che ripetiamo loro che quell’evento si chiama fuoco e quell’esperienza di intenso dolore, scottatura. Le nostre parole fanno sì che il bambino impari a percepire il fuoco come fuoco, a riconoscere i meccanismi, i modi , i tempi e i luoghi in cui può sensatamente attendersi esso si sviluppi. Non impara a percepire il fuoco, impara a limitare questa definizione ad una serie ben definita di percezioni. Così se vedrà improvvisamente una fiamma sospesa per aria e una voce che gli parla, non crederà ai suoi occhi né alle sue orecchie. Farà quello che tutti facciamo di fronte a esperienze che ci terrorizzano: ripeterà fra sé o a voce alta ‘Non c’é nessun fuoco e nessuno mi parla’, credendo così di far sparire la fiamma e la voce. Da cosa nasce questa convinzione magica se non dal fatto che, in qualche modo, sappiamo che è il nostro dialogo interiore, la nostra fede, ciò che crediamo reale, a influenzare o determinare ciò che percepiamo? Sappiamo che se smettiamo di credere di vedere qualcosa là davanti, essa sparirà nel nulla. Questa conoscenza è, a mio avviso, una reminescenza infantile del processo attraverso cui la voce degli adulti ha educato, modificato, annullato e sostituito le nostre percezioni. Chi sente le voci spesso, almeno nei primi periodi, usa questa tecnica per fronteggiare questa esperienza e cercare di non impazzire. Manuela, ad esempio, andava in bagno, apriva i rubinetti e ad alta voce descriveva tutto ciò che faceva. La strategia funzionava. Manuela riusciva così ad agire per limitare le sue capacità percettive, ancorandole di nuovo alla realtà condivisa. Nel descrivere ciò che via via andava facendo o ciò che le stava intorno, lei ancorava il suo corpo, i suoi sensi e la sua mente in quel fazzoletto di realtà in cui aveva sempre vissuto. Alla voce che le parlava, lei opponeva la sua propria voce, alla realtà che essa le imponeva, lei contrapponeva la realtà condivisa. Va detto che strategie di questo genere, seppure molto diffuse, spesso risultano inefficaci o addirittura pericolose. Intanto esse richiedono un dispendio enorme di energia. Poi la loro gestione è complicata dal fatto che esse non possono essere agite se non in situazioni di isolamento acustico e relazionale. Usare tale tecniche in luoghi pubblici, in famiglia, in strada e, comunque, in presenza d’altri, ci espone facilmente a giudizi e al rischio di ricoveri psichiatrici. C’è da tener presente, infatti, che solo in alcuni casi è possibile fronteggiare le voci su un piano mentale e, quindi, interiore. Nella maggiorparte dei casi se usiamo questa tecnica di negazione, si instaura un’escalation sonora per cui è necessario alzare il tono della voce e intensificare la rapidità delle descrizioni per tener testa alle voci. Ciò come è chiaro è possibile solo in un limitato numero di situazioni e occasioni. Troppo poche per far fronte ad un’esperienza che, in genere, è quotidiana e interviene nella nostra vita nei momenti e nei luoghi più svariati. L’esempio va preso, quindi, non tanto come una guida all’ascolto delle voci, quanto come una testimonianza del significato e del poter del linguaggio circa la costruzione della realtà. Da più di ventanni Antonio è in rapporto costante con San Filippo. Il santo ha guidato le sue scelte e gli è stato vicino in ogni momento difficile della sua esistenza. Si può dire che Antonio non ha preso nessuna decisione senza aver prima consultato e ascoltato i consigli del santo. Anzi, egli ha sempre seguito i suoi suggerimenti, anche quando non li comprendeva appieno. E’ impossibile descrivere la storia umana e sociale di Antonio senza descrivere la sua relazione col Santo. Egli non è una semplice fantasia, se non altro perchè le sue parole hanno determinato scelte e trasformazioni materiali nella vita di Antonio e della sua famiglia: con lui e i suoi consigli dobbiamo fare i conti, indipendentemente dal fatto che crediamo o meno alla sua esistenza. L’autorità di San Filippo si è costruita negli anni attraverso la verifica materiale della sensatezza e dell’esattezza dei consigli ricevuti. Egli si è per così dire conquistata l’obbedienza e il rispetto di Antonio, comportandosi e agendo come ci si aspetta da un santo. L’identità di una voce si rivela nelle azioni che fa e nella coerenza di ciò che dice. E’ questo che ci convince. Del resto fa parte della storia del nostro rapporto con l’invisibile, la ricerca di fatti che ne provino l’esistenza e la natura. Così i santi sono tali anche per i loro prodigi e Cristo è risorto perchè abbiamo toccato le ferite nel suo costato. Tommaso, se vogliamo, rappresenta l’esigenza universale di toccare con mano la sostanzialità e la materialità del divino. Solo così ci è dato di credere fino in fondo e con passione. Le voci spesso assumono potere e autorità nei nostri confronti proprio per la loro capacità, che ci appare soprannaturale, di prevedere gli eventi e giudicare le persone. Questa capacità non ci viene detta, ci viene provata con mille esempi piccoli e grandi che riguardano la nostra vita quotidiana. Queste prove che ogni voce dà a chi le ascolta servono a suggellare il patto fra esse e gli uomini. Senza prodigi di tale natura non esiste dialogo fra noi, solo rumori fastidiosi o frasi ossessive che ci fanno impazzire. Confucio diceva che la via più semplice per uscire è la porta, ma nessuno sembra usarla. Analogamente, di fronte all’esperienza delle voci la risposta più sensata sembrerebbe essere quella di chiedere "Chi sei?", ma questo è considerato già sintomo di malattia mentale. Molte persone che sentono le voci non hanno mai risposto loro. Come vi sentireste se parlaste con qualcuno e questi facesse finta di niente? Sicuramente ciò vi farebbe innervosire. Il messaggio non verbale che vi arriverebbe sarebbe del tipo "Non mi interessa ciò che hai da dirmi. Per me non esisti. Perchè non sparisci?!" L’idea malsana che ci frulla in testa è che facendo finta di non sentirle, le voci scompaiano così come sono venute. In realtà l’unico risultato che spesso raggiungiamo è di innescare in loro un meccanismo di accusa e di critica nei nostri confronti. Se vogliamo per le voci la nostra attenzione è un problema di sopravvivenza. Se disinvestiamo parte della nostra energia dalla nostra percezione, mettiamo in pericolo la loro esistenza. Ancora una volta sottolineo che chi sente le voci dovrebbe aver chiaro che spesso sono loro ad aver più bisogno di lui di quanto lui non abbia bisogno di loro. Ma sentiamo come funziona la cosa dalle parole di chi ha provato a ignorare le voci: Alla fine decisi di ignorare le voci e chiesi loro di lasciarmi in pace. Nella mia ignoranza scelsi il modo sbagliato di affrontare il problema. Non si può metter da parte qualcosa che esiste all’interno di te stesso e che si manifesta così intensamente. Inoltre, ciò avrebbe portato al fatto che le voci avrebbero perso il loro diritto ad esistere per la mancata attenzione ed energia, naturalmente questo non era quello che volevano. Fino ad allora le voci erano state amichevoli e beneducate, ma cambiarono nella direzione opposta, dissero ogni tipo di stranezze e misero in ridicolo le cose che per me erano importanti. Fu una guerra civile senza esclusione di colpi, ma ero deciso a vincere e continuavo ad ignorare tutto. E riuscii a farlo tenendomi occupato tutta la giornata. In quel periodo ho fatto un sacco di parole incrociate, la mia casa non era mai stata così pulita, ed il giardino non era mai stato così ben curato. Il risultato fu che la vita divenne più calma, ma in modo coatto. Non riuscivo quasi più a rilassarmi. (cit. in M.A.J. ROMME e A.D.M.A.C. ESCHER 1988) Fare finta di niente o cercare di tenere il cervello e le orecchie impegnate, sono solo due delle strategie che normalmente usiamo per cercare di cancellare le voci. Sicuramente le più naturali e istintive. Accanto a queste acquista un ruolo centrale, per diffusione, anche l’uso di sostanze chimiche auto o etero prescritte. Assumiamo queste sostanze, legali (gli psicofarmaci, alcool) o illegali (droghe), per tentare di limitare l’espansione della nostra coscienza e della nostra percezione. Lo scopo è quello di eliminare o, comunque, di attutire l’effetto devastante che le voci hanno sulla nostra integrità personale e sociale. Ancora una volta tutta la nostra attenzione si riversa su noi stessi, niente viene fatto per tentare di affrontare e zittire le voci. Non si agisce sulla trasmittente, si danno dei calci al ricevente. L’unica cosa concreta su cui possiamo agire sono, del resto, i sensi e il cervello di chi ascolta. Non riusciamo infatti a vedere la gola profonda che parla, nè a individuarne il corpo, né tantomeno a credere che esista in qualche modo o in qualche posto. Antonio ad esempio assume psicofarmaci. L’esperienza di vivere sotto lo sguardo benevolo di S.Filippo se non gli crea alcun problema personale, apre una profonda crisi nell’ordine sociale e familiare in cui è inserito. S. Filippo si fa sentire ogni qualvolta lui ha un problema o si trova di fronte ad una scelta. In quei momenti sta male. Intende dire che non sa che fare ed è in ansia per quanto deve decidere. La voce di S. Filippo lo accompagna, lo consola e lo consiglia in questi momenti. Non sta male di questa sua intromissione. Al contrario la ritiene una cura necessaria per uscire dall’impasse in cui si trova. La questione allora si sposta su un altro livello. Accettare i consigli di S.Filippo si risolve in pratica nel rifiutare i ragionamenti e i consigli di chicchessia. In altre parole Antonio rifiuta di ascoltare la moglie o i parenti circa ciò che andrebbe fatto, dando prova, ai loro occhi, di essere insensato. Non solo, il suo comportamento nel periodo in cui ascolta i consigli del santo, è per tutti indecifrabile. Egli svolge un dialogo con una persona che gli altri non vedono, ride di battute che non sentono, si sofferma ad ascoltare parole inudibili. E’ difficile vivere accanto a chi ha una percezione del mondo diversa dalla nostra: pur se sembriamo stare nella stessa stanza siamo in realtà su due pianeti diversi. E’ più o meno la stessa distanza che c’é fra me che scrivo e mia moglie con il walkman sul divano che ascolta musica. Può essere molto imbarazzante, inquietante e incomprensibile, vederla muoversi sull’onda di una musica che non riesco a sentire... così come può essere uno spettacolo di una dolcezza celestiale. Antonio ha spesso quell’espressione estatica tipica di chi sembra essere toccato da dio. Quella stessa espressione che altri possono chiamare stupore e considerare sintomo di una qualche malattia mentale. Qualsiasi giudizio ci possiamo formare su ciò che gli accade (o su chi gli parla) dovremmo sempre aver chiaro che le cose che vediamo stanno nella nostra testa e non in Antonio. Se pensiamo che stia male perchè passa intere notti ad andare su e giù a parlare col Santo, dobbiamo capire che siamo noi ad essere in crisi perchè egli sembra non vederci più, né ascoltare più le nostre parole. Vive per così dire in una dimensione su cui noi non abbiamo più nessuna influenza, la sua mente si sottrae in maniera radicale all’influenza che le nostre parole o i nostri sentimenti possono esercitare su di lui. Ciò ci spaventa perchè sentiamo di non aver più controllo su di lui e sulle sue azioni, così come ci è impossibile fare delle previsioni sul suo comportamento. Se andiamo a fondo nella questione, l’idea che le voci possano far fare alle persone cose che normalmente non farebbero è una proiezione del fatto che la nostra voce sembra aver perso questo stesso potere su di loro. Siamo noi che, avendo perso il controllo sull’altro, siamo terrorizzati che egli usi la sua nuova libertà contro di noi o contro se stesso. E’ il meccanismo che normalmente scatta in noi quando cerchiamo di spiegarci incoerenze o scelte non condivise delle persone che pensiamo di conoscere: qualcosa o qualcuno deve averli obbligati ad agire in quel modo. Non possiamo accettare l’idea che essi possano aver scelto di essere diversi da come noi li pensiamo. Non c’é alcun motivo sensato che possa spingerci ad affermare che le parole pronunciate da persone invisibili, o le relazioni con loro, siano più o meno dannose per chi le intrattiene, delle relazioni concrete che abbiamo con le persone visibili. Il rischio, il dolore, l’inquietudine così come la gioia, la meraviglia, la serenità, sono possibilità implicite in ogni relazione interumana. Nessuno può affermare con certezza che prestare ascolto alle parole dei propri genitori sia più sensato, o dia migliori frutti, che ascoltare i consigli di un santo, e viceversa. L’effetto e la natura di una relazione può essere valutata solo col senno di poi e, spesso, la stessa nostra valutazione di un’esperienza può cambiare nel corso del tempo in maniera anche drastica. Ciò che oggi descriviamo come il periodo più bello della nostra esistenza terrena, domani potrà sensatamente sembrarci il momento più buio, l’amore che oggi mostriamo di avere nei confronti di qualcuno, domani potrà essere l’odio più feroce e senza confine. Non si tratta di incoerenza logica, ma di trasformazioni emotive che fanno parte di noi e costituiscono la nostra stessa ragion d’essere. Per comprendere l’esperienza del sentire le voci non abbiamo bisogno di scomodare la scienza o di creare una disciplina ad hoc. Dovremmo più semplicemente utilizzare le conoscenze, e soprattutto le esperienze, che abbiamo maturato nei secoli e che fanno parte del nostro bagaglio comunicativo genetico. Siamo di fronte a persone (seppure speciali) che parlano con altre persone (anch’esse speciali). Ciò a cui danno vita è pur sempre un dialogo interumano, niente di più o di meno di ciò che comunemente coinvolge (o stravolge) la vita quotidiana di ognuno di noi. Accettare che questo dialogo esiste e affrontare i contenuti e le scelte che da esso derivano, non risolve necessariamente le infinite questioni e i nodi che questo rapporto apre nella nostra ordinata realtà: ci mette solo nella condizione di poterlo fare, con sensibilità, intelligenza, rispetto e volontà. Questo libro è una guida per chi non ha mai sentito le voci. E’ la guida che chi le sente ha trovato e che, troppo spesso, non riesce (o non può) far arrivare alle nostre orecchie o al nostro cuore. |