[Da "Adesso Foglio di critica sociale", numero 14 Rovereto, 12 ottobre 2002]
Pensieri sulle città
Il progresso non distrugge mai così a fondo come quando costruisce.
Quella degli spazi è un 'esigenza eminentemente politica. I luoghi in
cui viviamo condizionano il modo in cui viviamo e, inversamente, i nostri rapporti
e la nostra attività modificano gli spazi della nostra vita. Si tratta
di un'esperienza quotidiana eppure sembriamo incapaci di tirarne la minima conseguenza.
Basta passeggiare in una qualsiasi città per capire qual è la
miseria del nostro modo di vivere. Quasi tutti gli spazi urbani rispondono a
due esigenze: il profitto e il controllo sociale. Sono luoghi di consumo organizzati
secondo le regole sempre più strette dì un mercato in continua
espansione: il mercato della sicurezza. Il modello è quello del centro
commerciale, uno spazio collettivo privatizzato, sorvegliato da uomini e strumenti
forniti da apposite agenzie. Nel centro commerciale, una socialità sempre
più "personalizzata " è costruita attorno al consumatore
e alla sua famiglia: ormai, in questi locali al neon si può mangiare,
giocare con i figli, leggere, eccetera. Che si tratti di una terrificante illusione
di vita lo si scopre entrandoci senza soldi.
Nelle metropoli accade più o meno la stessa cosa. Dove incontrarsi per
discutere, dove sedersi senza l'obbligo di consumare, dove bere, dove dormire
se non si ha denaro? Per un immigrato, per un povero, per una donna, lunga può
essere una notte in città. I benpensanti, comodi nelle loro case, non
conoscono il mondo notturno della strada, il lato oscuro dei neon, quando la
polizia ti sveglia sulle panchine, quando tutto ti sembra straniero e nemico.
Quando le classi medie sono rinchiuse nei loro bunker, le città rivelano
il loro vero volto di mostri inumani.
Le città assomigliano sempre più a delle fortezze e le case a
cellule di sicurezza. La guerra sociale, la guerra tra ricchi e poveri, tra
governati e governanti si è istituzionalizzata nella struttura dello
spazio urbano. I poveri sono deportati nelle periferie per lasciare il centro
agli uffici e alle banche (o ai turisti), le entrate delle città e moltissimi
punti "sensibili " sono sorvegliati da apparecchiature ogni giorno
più sofisticate. Il non accesso a determinati livelli di consumo - livelli
definiti e controllati da una fitta rete informatica in cui si incrociano i
dati del sistema bancario, assicurativo, medico, scolastico e poliziesco - determina,
in negativo, le nuove classi pericolose, confinate in zone urbane ben precise.
Le caratteristiche del nuovo ordine mondiale si riflettono nel controllo metropolitano.
Alle frontiere tra paesi e continenti corrispondono i confini tra un quartiere
e l altro oppure le schede magnetiche d'accesso a determinati edifici privati
o, come negli Stati Uniti, a certe zone residenziali. Le operazioni di polizia
internazionale richiamano la guerra contro la delinquenza o, più recentemente,
le politiche di "tolleranza zero" con cui si criminalizza ogni forma
di devianza. Mentre nel mondo i poveri sono arrestati a milioni, le città
assumono la forma di immense prigioni. Le linee gialle che i consumatori devono
seguire in alcuni centri commerciali londinesi non richiamano quelle su cui
devono camminare alcuni prigionieri francesi? Nella militarizzazione di Genova
in occasione del G8 non è forse possibile intravedere i checkpoint dei
territori palestinesi? Le proposte di un coprifuoco serale per gli adolescenti
sono state accolte in città a due passi dalle nostre (in Francia, ad
esempio). Si riaprono le case di correzione, sorta di colonia penale per ragazzi,
si vietano gli assembramenti nei cortili interni dei condomini popolari (unico
spazio di vita collettiva di tanti quartieri-dormitorio). Si vieta - ormai in
moltissime città d'Europa - l'accesso al centro ai senza-tetto e si multano,
come nel Medio Evo, i mendicanti. Si propone (come i nazisti ieri e il sindaco
di Milano oggi) la creazione di centri appositi per i disoccupati e le loro
famiglie, sull'esempio dei lager per immigrati clandestini. Si costruiscono
griglie metalliche tra quartieri ricchi (e bianchi) e quartieri poveri (e ...
non-bianchi). Cresce, dagli Stati Uniti all'Europa, dal Sud al Nord del mondo,
l'apartheid sociale. Quando un nero su tre di età compresa fra i venti
e i trentacinque anni è in camere (come accade negli Stati Uniti, dove
in vent'anni sono stati imprigionati due milioni di individui), può passare
quasi inosservata la proposta qui da noi di chiudere il centro città
agli immigrati; e in molti possono persino applaudire la gloriosa marina militare
quando affonda le navi dei clandestini. In un intreccio di esclusione classista
e segregazione razziale, la società in cui viviamo si presenta sempre
più come una gigantesca cumulazione di ghetti.
Ancora una volta, tra forme di vita e luoghi di vita il legame è stretto.
La precarizzazione dì ampi strati della società procede dì
pari passo con l'isolamento degli individui, con la scomparsa degli spazi di
incontro (quindi di lotta) e, giù infondo, con le riserve in cui i più
poveri sono lasciati letteralmente marcire. Da questa condizione sociale nascono
due fenomeni tipicamente totalitari: la guerra tra sfruttati, che riproduce
senza filtri la concorrenza spietata e larrivismo su cui si basano i rapporti
capitalisti, e la domanda d'ordine e sicurezza, prodotta e sponsorizzata da
una propaganda martellante. Con la fine della "guerra fredda ", il
Nemico si è trasferito, mediaticamente e politicamente, all'interno stesso
del "mondo libero ". Al crollo del muro di Berlino corrisponde la
costruzione della muraglia tra il Messico e gli Stati Uniti o il perfezionamento
delle barriere elettriche a protezione delle cittadelle abitate dalle classi
dominanti. La criminalizzazione dei poveri viene apertamente definita "guerra
dì bassa intensità ", dove il nemico, "il terrorista
esotico", diventa qui il clandestino, il tossicodipendente, la prostituta.
Il cittadino isolato, sballottato tra il lavoro e il consumo attraverso quegli
spazi anonimi che sono le vie e i mezzi di trasporto, ingurgita immagini terrificanti
di giovani perfidi, fannulloni e tagliagole - e un sentimento impreciso e inconscio
di paura s'impadronisce della vita individuale e collettiva.
Le nostre città apparentemente così tranquille ci rivelano sempre
più i segni, se impariamo a guardarli, di questa tendenza planetaria
al governo della paura.
Se si definisce la politica come arte del comando, come attività specializzata
monopolio di burocrati e funzionari, allora le città in cui viviamo sono
l'organizzazione politica dello spazio. Se, viceversa, la si definisce come
sfera comune di discussione e decisione riguardo problemi comuni, allora si
può dire che la struttura urbana è progettata apposta per depoliticizzare
gli individui, per mantenerli contemporaneamente nell'isolamento e nella massificazione.
Nel secondo caso, dunque, l'attività politica per eccellenza è
la rivolta contro l'urbanistica in quanto scienza e pratica poliziesca, è
la sommossa che crea nuovi spazi di incontro e di comunicazione. In un senso
come nell'altro, la questione degli spazi è una questione eminentemente
politica.
Una vita piena è una vita che sa mescolare con arte il piacere della
solitudine e il piacere dell'incontro. Un sapiente intreccio di villaggi e campagne,
di piazze e distese libere potrebbe rendere magnifica l'arte di costruire e
di abitare. Se ci proiettiamo, con uno slancio utopico, fuori dall'industrialismo
e dall'urbanizzazione coatta, insomma da quella lunga storia di deportazione
su cui si è edificata l'attuale società tecnologica potremmo immaginare
piccole comunità basate sui rapporti faccia a faccia, senza gerarchie
tra gli uomini né dominio sulla natura, collegate fra loro. Il viaggio
smetterebbe di essere uno spostarsi standardizzato tra la fatica e la noia e
diverrebbe un'avventura libera dagli orologi. Fontane e luoghi riparati accoglierebbero
i passanti. La natura selvaggia potrebbe tornare ad essere luogo di scoperta
e di silenzio, di tremore e di fuga dagli uomini. I villaggi potrebbero nascere
dai boschi senza violenza per tornare a farsi campagna e foresta. Non possiamo
nemmeno immaginare come gli animali e le piante si trasformerebbero non sentendosi
più minacciati dagli uomini. Solo un'umanità alienata ha potuto
concepire l'accumulazione, il profitto e il potere come base della vita sulla
Terra. Mentre il mondo delle merci è in liquidazione, minacciato dall'implosione
di ogni contatto umano e dalla catastrofe ecologica, mentre gli adolescenti
si ammazzano tra loro e gli adulti tirano avanti a psicofarmaci, la posta in
gioco si fa più chiara: sovvertire i rapporti sociali significa creare
nuovi spazi di vita, e viceversa. In questo senso, un '"immensa opera di
demolizione urgente " ci attende.
La società industriale di massa distrugge allo stesso tempo la solitudine
e il piacere dell'incontro. Siamo sempre più costretti a stareinsieme,
a causa degli spostamenti coatti, dei tempi uniformati, dei desideri fabbricati
in serie, eppure sempre più isolati, incapaci di comunicare, divorati
dall'ansia e dalla paura; incapaci, soprattutto, di lottare insieme. Una comunicazione
reale, un dialogo davvero egualitario può avvenire solo attraverso la
rottura della normalità e dell'abitudine. Solo nella rivolta.
In varie parti del mondo, gli sfruttati rifiutano ogni illusione sul migliore
dei mondi, ritorcendo contro il potere il proprio sentimento di totale spoliazione.
Insorgendo contro gli sfruttatori e l 'loro cani da guardia, contro i loro beni
e i loro valori, riscoprono nuovi e antichi modi di stare assieme, di discutere,
di decidere, di far festa.
Dai territori palestinesi alle aarch (assemblee di villaggio) degli insorti
algerini, le sommosse liberano spazi di autorganizzazione sociale. Spesso, le
forme assembleari riscoperte sono come citazioni all'ordine del giorno di tradizioni
antiche, forgiate nell'orgoglio di altre lotte, di rapporti faccia a faccia
ostili a ogni rappresentazione. Se è la rottura violenta la base delle
sollevazioni, è la loro capacità di sperimentare altri modi di
vita a renderle durature, nella speranza che gli sfruttati d'altrove ne alimenteranno
le fiamme, perché anche le più belle utopie pratiche muoiono nell'isolamento.
I luoghi del potere, anche quelli non direttamente repressivi, vengono distrutti
nel corso delle sommosse non solo per la loro carica simbolica, ma anche perché
nei suoi reami, lo abbiamo sempre saputo, non c'è vita.
Dietro il problema delle case e degli spazi collettivi sta, dunque, un'intera
società. È perché in tanti lavorano treni 'anni per un
mutuo, per avere semplicemente un tetto sopra la testa, che non riescono a trovare
la voglia né gli spazi per parlarsi dell'assurdità di una tale
vita. Dall'altro lato, più si recintano, si privatizzano o statalizzano
i luoghi collettivi, più le stesse abitazioni diventano piccole fortezze
grigie, uniformi e malsane. Senza resistenze, tutto si degrada a una velocità
impressionante. dove anche solo cinquant 'anni fa vivevano i contadini che coltivavano
le terre dei ricchi, oggi vivono í nobili (manco i borghesi). Gli attuali
quartieri residenziali sono più invivibili delle casi popolari di trent'anni
fa. Gli hotel di lusso sembrano caserme. La logica conseguenza di questo totalitarismo
urbanistico sono quelle specie di loculi in cui ricaricano le proprie pile molti
impiegati giapponesi. Le classi che sfruttano i poveri sono a loro volta maltrattate
da un sistema che hanno sempre difeso con zelo.
Praticare lazione diretta per strappare al potere e al profitto gli spazi
di vita, occupare le case e sperimentare rapporti sovversivi, è cosa
ben diversa da un giovanilismo alternativo più o meno alla moda. E una
questione che riguarda tutti gli sfruttati, i lasciati-da-parte, i senza-voce.
Si tratta di discutere e organizzarsi senza mediatori, di far configgere la
propria autodeterminazione di rapporti e di luoghi con l'ordine costituito,
di attaccare le gabbie urbane. Non pensiamo affatto che sia possibile ritagliarsi
qualche spazio davvero autogestito all'interno di questa società, dove
vivere a modo proprio, come indiani nelle riserve. I nostri desideri sono molto
più smisurati. Vogliamo creare brecce, uscire in strada, parlare nelle
piazze in cerca di complici per andare all'assalto di questo vecchio mondo.
La vita in società va reinventata, ecco tutto.