Agli erranti
Abbiamo chiesto forza lavoro,
sono arrivati uomini.
Max Frisch
Nessuno emigra per piacere ecco una verità fin troppo semplice
che in molti vogliono occultare. Se una persona lascia di buon grado la sua
terra e i suoi affetti non la si definisce migrante, ma semplicemente viaggiatore
o turista. La migrazione è uno spostamento forzato, un errare alla ricerca
di condizioni di vita migliori.
Ci sono attualmente 150 milioni di stranieri nel mondo, a causa di guerre, colpi
di Stato, disastri ecologici, carestie o del semplice funzionamento della produzione
industriale (distruzione delle campagne e delle foreste, licenziamenti di massa,
eccetera). Tutti questi fattori compongono un mosaico doppressione e di
miseria in cui gli effetti dello sfruttamento si fanno a loro volta cause immediate
e remote di sofferenza e di sradicamento, in una spirale infinita che rende
ipocrita ogni distinzione fra "sfollati", "migranti", "profughi",
"richiedenti asilo", "rifugiati", "sopravvissuti".
Basta pensare a quanto siano sociali le cosiddette emergenze ambientali (la
carenza di acqua, la desertificazione crescente, la sterilità dei campi):
lesplosione di una raffineria di petrolio, unita alla distruzione di ogni
autonomia locale su cui è stata edificata, può talvolta cambiare
le sorti di unintera popolazione.
Contrariamente a quanto vorrebbe far credere la propaganda razzista, limmigrazione
riguarda per il solo 17 per cento il Nord ricco, coinvolgendo di fatto tutti
i continenti (in particolare quello asiatico e quello africano); il che significa
che per ogni Paese povero ce nè uno ancora più povero da
cui fuggono dei migranti. La mobilitazione totale imposta dalleconomia
e dagli Stati è un fenomeno planetario, una guerra civile non dichiarata
e senza confini: milioni di sfruttati errano attraverso linferno del paradiso
mercantile, sballottati di frontiera in frontiera, costretti in campi profughi
accerchiati dalla polizia e dallesercito, gestiti dalle organizzazioni
dette di carità complici rispetto a tragedie di cui non denunciano
le cause reali al solo scopo di sfruttarne le conseguenze , affastellati
nelle "zone di attesa" degli aeroporti o negli stadi (macabri circenses
per chi non ha neanche il pane), rinchiusi in Lager definiti "centri di
permanenza temporanea", infine impacchettati ed espulsi nella più
totale indifferenza. Per molti aspetti si può dire che i volti di questi
indesiderabili siano il volto del nostro presente e anche per questo
ci spaventano. Limmigrato ci fa paura perché vediamo rispecchiata
nella sua la nostra miseria, perché nella sua erranza riconosciamo la
nostra condizione quotidiana: quella di individui sempre più stranieri
in questo mondo e sempre più stranieri a se stessi.
Lo sradicamento è la condizione più diffusa nella presente società,
si potrebbe dire il suo "centro", e non una minaccia proveniente da
un misterioso e terrifico Altrove. Solo affondando lo sguardo nella nostra vita
quotidiana possiamo capire in cosa la condizione degli immigrati ci coinvolge
tutti. Prima, però, dobbiamo definire un concetto cardine: quello di
clandestino.
La creazione del clandestino, la creazione del nemico
[
] cosè lei? [
]
Lei non è del castello, lei non è del paese, lei non è
nulla.
Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero,
uno che è sempre
di troppo e sempre fra i piedi, uno che vi procura un sacco di grattacapi, [
]
che non si sa quali intenzioni abbia.
F. Kafka
Il "clandestino" è semplicemente un immigrato
che non ha i documenti in regola. Questo non certo per puro piacere del rischio
e dellillegalità, bensì perché nella maggior parte
dei casi, per avere tali documenti dovrebbe fornire garanzie il cui possesso
non lo avrebbe reso migrante, ma turista o studente straniero. Se gli stessi
criteri venissero applicati a tutti, saremmo buttati a mare a milioni. Quale
disoccupato italiano, ad esempio, potrebbe fornire la garanzia di un reddito
legale? Come farebbero tutti quei precari di qui che lavorano tramite le agenzie
interinali, i cui contratti non sono riconosciuti agli immigrati per il permesso
di soggiorno? Sono così numerosi, poi, gli italiani che vivono in un
appartamento di 60 metri quadrati con altre due persone al massimo? Che li si
legga, i vari decreti (di destra come di sinistra) sullimmigrazione, si
capirà allora che la clandestinizzazione degli immigrati è un
progetto preciso degli Stati. Perché?
Uno straniero irregolare è più ricattabile, portato ad accettare,
sotto la minaccia dellespulsione, condizioni di lavoro e di esistenza
ancora più odiose (precarietà, continui spostamenti, alloggi di
fortuna, eccetera). E questa minaccia vale anche per chi il permesso di soggiorno
ce lha, ma sa benissimo quanto sia facile perderlo quando non si è
accondiscendenti con il principale e con gli agenti della questura. Con lo spettro
della polizia, i padroni si procurano dei salariati docili, anzi, dei veri e
propri lavoratori forzati.
Anche i partiti della destra più reazionaria e xenofoba sanno benissimo
che una chiusura ermetica delle frontiere è non solo tecnicamente impossibile,
ma anche non vantaggiosa. Secondo le Nazioni Unite, lItalia dovrebbe,
per mantenere lattuale "equilibrio fra popolazione attiva e inattiva",
"accogliere", da qui al 2025, una quota cinque volte maggiore di quella
attualmente stabilita per anno. La Confindustria, infatti, suggerisce continuamente
di raddoppiare le quote fissate finora.
La concessione di permessi annuali e stagionali oppure il loro rifiuto determinano
una precisa gerarchia sociale fra poveri. La stessa distinzione fra rimpatrio
coatto immediato e espulsione (cioè lobbligo, per limmigrato
irregolare, di presentarsi alle frontiere per essere rispedito a casa) permette
di scegliere sulla base di criteri etnici, di accordi economico-politici
con i governi dei Paesi da cui limmigrato proviene e delle necessità
del mercato del lavoro chi clandestinizzare e chi allontanare subito.
Le autorità sanno benissimo, infatti, che nessuno si presenterà
spontaneamente alle frontiere per farsi espellere; di certo non chi ha speso
tutto quello che aveva e talvolta anche di più per pagarsi
il viaggio di arrivo. Gli imprenditori definiscono le caratteristiche della
merce che comprano (limmigrato è una merce, come tutti del resto),
lo Stato raccoglie i dati, la polizia esegue gli ordini.
Gli allarmi dei politici e dei mass media, i proclami anti-immigrazione creano
Nemici immaginari, per spingere gli sfruttati di qui a scaricare su di un facile
capro espiatorio le crescenti tensioni sociali e rassicurarli, facendo loro
ammirare lo spettacolo di poveri ancora più precari e ricattati di loro;
per farli sentire, infine, membri di un fantasma chiamato Nazione. Facendo dell"irregolarità"
che essi stessi creano un sinonimo di delinquenza e pericolosità,
gli Stati giustificano un controllo poliziesco e una criminalizzazione sempre
più striscianti dei conflitti di classe. È in questo contesto
che si inserisce, ad esempio, la manipolazione del consenso dopo l11 settembre,
sintetizzata dallignobile slogan "clandestini=terroristi", che
unisce, se letto nei due sensi, la paranoia razzista alla richiesta di repressione
nei confronti del nemico interno (il ribelle, il sovversivo).
Tuonano, a destra come a sinistra, contro il racket che organizza i viaggi dei
clandestini (descritti dai mass media come uninvasione, un flagello, come
lavanzata di un esercito), quando sono le loro leggi a favorirlo. Tuonano
contro la "criminalità organizzata" che sfrutta tanti immigrati
(fatto vero ma parziale), quando sono loro a fornirle la materia prima disperata
e pronta a tutto. Stato e mafia, nella loro simbiosi storica, sono uniti dallo
stesso principio liberale: gli affari sono affari.
Il razzismo, strumento di esigenze economiche e politiche, trova spazio per
dilagare in un contesto di massificazione e isolamento generalizzati, quando
linsicurezza crea paure opportunamente manipolabili. Serve a ben poco
condannare moralmente o culturalmente il razzismo, poiché esso non è
unopinione o un "argomento", ma una miseria psicologica, una
"peste emozionale". È nelle presenti condizioni sociali che
occorre cercare la spiegazione del suo diffondersi e, al tempo stesso, le forze
per combatterlo.
Laccoglienza di un lager
Definire Lager i Centri di Permanenza Temporanea per immigrati
in attesa di espulsione centri introdotti in Italia nel 1998 dal governo
di sinistra con la legge Turco-Napolitano non è unenfasi
retorica, come in fondo pensano anche molti di coloro che utilizzano tale formula.
Si tratta di una definizione rigorosa. I Lager nazisti sono stati dei campi
di concentramento in cui venivano rinchiusi individui che la polizia considerava,
anche in assenza di condotte penalmente perseguibili, pericolosi per la sicurezza
dello Stato. Questa misura preventiva definita "detenzione protettiva"
consisteva nel togliere tutti i diritti civili e politici ad alcuni cittadini.
Fossero profughi, ebrei, zingari, omosessuali o sovversivi, spettava alla polizia,
dopo mesi o anni, decidere sul da farsi. I Lager, cioè, non erano prigioni
nelle quali si scontava qualche reato, né unestensione del diritto
penale. Si trattava di campi in cui la Norma stabiliva la propria eccezione;
in breve, una sospensione legale della legalità. Un Lager, dunque, non
dipende dal numero degli internati né da quello degli assassinii (fra
il 1935 e il 1937, prima dellinizio della deportazione degli ebrei, gli
internati in Germania erano 7500), bensì dalla sua natura politica e
giuridica.
Gli immigrati finiscono oggi nei Centri indipendentemente da eventuali reati,
senza alcun procedimento penale: il loro internamento, disposto dal questore,
è una semplice misura di polizia. Esattamente come accadeva nel 1940
sotto il regime di Vichy, quando i prefetti potevano rinchiudere gli individui
"pericolosi per la difesa nazionale o la sicurezza pubblica" oppure
(si badi) "gli stranieri in soprannumero rispetto alleconomia nazionale".
Si può rinviare alla detenzione amministrativa nellAlgeria francese,
al Sudafrica dellapartheid o agli attuali ghetti per i palestinesi creati
dallo Stato di Israele.
Non è un caso se, rispetto alle condizioni infami dei centri per immigrati,
i buoni democratici non si appellano al rispetto di una legge quale che sia,
bensì a quello dei diritti umani ultima maschera di fronte a donne
e uomini cui non rimane altro che la pura appartenenza alla specie umana. Non
li si può integrare come cittadini, si fa finta di integrarli come Uomini.
Luguaglianza astratta dei princìpi maschera ovunque le disuguaglianze
reali
Un nuovo sradicamento
Gli immigrati che sbarcavano per la
prima volta a Battery Park non tardavano
ad accorgersi che quel che gli era stato
raccontato della meravigliosa America
non era per niente esatto:
la terra forse apparteneva davvero a tutti,
ma quelli che erano arrivati per primi
si erano già ampiamente serviti,
e a loro non restava altro che
ammassarsi in dieci nei tuguri senza finestre
del Lower East Side e lavorare quindici ore al
giorno. I tacchini non cadevano già arrostiti
direttamente nei piatti e le strade di New York
non erano lastricate doro.
Anzi, il più delle volte, non erano
lastricate affatto. E allora capivano che
era proprio per fargliele lastricare che li
avevano fatti venire. E per scavare gallerie
e canali, costruire strade, ponti, grandi
dighe, ferrovie, dissodare foreste, sfruttare
miniere e cave, fabbricare automobili e sigari,
carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum,
corned-beef e saponette, e costruire
grattacieli ancora più alti
di quelli che avevano scoperto allarrivo.
Georges Perec
Se facciamo qualche passo indietro, ci risulterà evidente che lo sradicamento
è un momento essenziale dello sviluppo del dominio statale e capitalista.
Ai suoi albori, la produzione industriale ha strappato gli sfruttati dalle campagne
e dai villaggi per concentrarli nelle città. Lantico saper fare
dei contadini e degli artigiani è stato sostituito così dallattività
coatta e ripetitiva della fabbrica attività impossibile da controllare,
nei suoi strumenti e nelle sue finalità, dai nuovi proletari. I figli
primogeniti dellindustrializzazione, quindi, hanno perso contemporaneamente
i loro antichi luoghi di vita e le proprie antiche conoscenze, quelle che permettevano
loro di procacciarsi autonomamente una buona parte dei propri mezzi di sussistenza.
Daltra parte, imponendo a milioni di uomini e donne condizioni di vita
simili (stessi luoghi, stessi problemi, stesso sapere), il capitalismo ne ha
unificato le lotte, ha fatto ritrovare loro fratelli nuovi per combattere contro
quella stessa vita insopportabile. Il Novecento ha segnato lapice di questo
concentramento produttivo e statale i cui emblemi sono stati la fabbrica-quartiere
e il Lager ed insieme lapice delle lotte sociali più radicali
per la sua demolizione.
Negli ultimi ventanni, grazie alle innovazioni tecnologiche, il capitale
ha sostituito alla vecchia fabbrica nuovi nuclei produttivi sempre più
piccoli e dislocati sul territorio, disgregando anche il tessuto sociale allinterno
del quale erano cresciute quelle lotte, e determinando così un nuovo
sradicamento.
Non solo. La ristrutturazione tecnologica ha velocizzato e facilitato gli scambi,
aprendo il mondo intero alla concorrenza più feroce, travolgendo le economie
ed i modi di vita di interi Paesi. In Africa, in Asia, in America Latina, la
chiusura di moltissime fabbriche, i licenziamenti di massa, in un contesto sociale
distrutto dal colonialismo, dalla deportazione degli abitanti dai villaggi alle
bidonville, dai campi alle catene di montaggio, ha prodotto uno stuolo di poveri
divenuti inutili ai loro padroni, di figli non voluti del capitalismo. Si aggiungano
il crollo dei Paesi sedicenti comunisti e il racket dei debiti organizzato dal
Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale e si otterrà una
cartografia piuttosto precisa delle migrazioni, delle guerre etniche e religiose.
Quello che oggi si chiama "flessibilità" e "precarietà"
è la conseguenza di tutto ciò: un ulteriore progresso nella sottomissione
alle macchine, una maggiore competizione, un peggioramento delle condizioni
materiali (contratti, salute, eccetera). La ragione labbiamo vista: il
capitalismo ha smantellato le "comunità" che aveva esso stesso
creato. Sarebbe comunque parziale concepire la precarietà solo in senso
economico, come assenza del posto fisso e del vecchio orgoglio per il proprio
mestiere. Essa è un isolamento nella massificazione, cioè un conformismo
fanatico senza spazi comuni. Nellangoscioso vuoto di senso e di prospettive,
ritorna mistificato il bisogno insoddisfatto di comunità, sotto forma
di vecchie e nuove contrapposizioni nazionaliste, etniche o religiose, tragica
riproposizione di identità collettive laddove è venuta meno ogni
reciprocità reale tra gli individui. Ed è proprio in questo vuoto
che trova spazio il discorso integralista, falsa promessa di una comunità
redenta.
Guerra civile
Tutto ciò porta a uno scenario che è sempre
più quello della guerra civile permanente, senza distinzione tra "tempi
di pace" e "tempi di guerra". Il conflitto non viene più
dichiarato come ha dimostrato lintervento militare nei Balcani
, ma semplicemente amministrato a garanzia del mantenimento dellOrdine
Mondiale.
Questo scontro senza sosta attraversa lintera società e gli stessi
individui. Gli spazi comuni di dialogo e di lotta sono sostituiti dalladesione
agli stessi modelli mercantili: i poveri si fanno la guerra tra loro per la
felpa o il cappellino alla moda. Gli individui si sentono sempre più
irrilevanti, pronti allora a sacrificarsi per il primo trombone nazionalista
o per uno straccio di bandiera. Maltrattati quotidianamente dallo Stato, eccoli
a difendere con zelo una qualsiasi Padania (desolata e inquinata, con fabbriche
e centri commerciali ovunque sarebbe questa linvidiabile "terra
degli avi"?). Attaccati a quel miraggio di proprietà che è
loro rimasto, hanno paura di scoprirsi per quello che sono: ingranaggi intercambiabili
di una Megamacchina, bisognosi di psicofarmaci per arrivare a sera, sempre più
invidiosi verso chiunque appaia anche solo più felice di loro. A una
razionalità sempre più fredda, astratta e calcolatrice corrispondono
delle pulsioni sempre più brutali e inconfessate. Cosa di meglio, allora,
di qualcuno diverso per pelle o religione su cui scaricare il proprio rancore?
Come diceva un mozambicano, la "gente ha preso la guerra dentro di sé".
Bastano alcune condizioni esterne perché tutto ciò esploda come
in Bosnia. E queste condizioni, ce le stanno apparecchiando con cura. Alluniversalismo
capitalista si oppone, in un tragico gioco di specchi, il particolarismo etnico.
Sotto lordine istituzionale, con i suoi spazi sempre più anonimi
e sorvegliati, cova limplosione dei rapporti umani. Sembrano le stesse
sabbie mobili da cui è emerso, negli anni Trenta, luomo totalitario.
Due uscite possibili
Perché abbiamo parlato così tanto, fin qui, di immigrazione e
di razzismo, dal momento che non siamo direttamente coinvolti dal problema dellerranza
e dellespulsione? Il capitalismo stesso accomuna sempre di più
le nostre vite allinsegna della precarietà e dellimpossibilità
di decidere del nostro presente e del nostro futuro: è per questo che
ci sentiamo fratelli, nei fatti, degli sfruttati che sbarcano sulle coste di
questo Paese.
Di fronte al sentimento di spoliazione che milioni di individui provano verso
un imperialismo mercantile che costringe tutti a sognare lo stesso sogno senza
vita, non è possibile alcun appello al dialogo e allintegrazione
democratica. Checché ne dicano gli antirazzisti legalitari, è
tardi per le ipocrite lezioni di educazione civica. Quando crescono ovunque
dalle bidonville di Caracas alle periferie di Parigi, dai territori palestinesi
ai centri e agli stadi in cui vengono rinchiusi i clandestini i campi
in cui confinare la miseria; quando lo stato deccezione cioè
la sospensione giuridica di ogni diritto diventa la norma; quando si
lasciano letteralmente marcire milioni di esseri umani nelle riserve del paradiso
capitalista; quando si militarizzano e si blindano interi quartieri (Genova,
vi dice qualcosa?), parlare di integrazione è unignobile burla.
Da queste condizioni di disperazione e di paura, da questa guerra civile planetaria,
ci sono solo due uscite: o lo scontro fratricida (religioso e clanico, in tutte
le sue varianti), oppure la tempesta sociale della guerra di classe.
Il razzismo è la tomba di ogni lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori,
è lultima carta la più sporca giocata da chi
vorrebbe vederci massacrare tra di noi. Può evaporare solo nei momenti
di rivolta comune, quando si riconoscono i propri nemici reali gli sfruttatori
e i loro tirapiedi e ci si riconosce come sfruttati che non vogliono
più esserlo. Lo scontro sociale degli anni Sessanta e Settanta in Italia
quando i giovani operai immigrati dal sud incontrarono quelli del nord
sul terreno del sabotaggio, dello sciopero selvaggio e dellassoluta slealtà
verso il padrone lo ha dimostrato. La scomparsa dopo gli anni Settanta
delle lotte rivoluzionarie (dal Nicaragua allItalia, dal Portogallo alla
Germania, dalla Polonia allIran) ha sgretolato la base di una solidarietà
concreta fra gli espropriati della Terra. Questa solidarietà potrà
essere riconquistata solo nella rivolta, e non nelle parole impotenti dei nuovi
terzomondisti e degli antirazzisti democratici.
O il massacro clanico e religioso, dunque, o la guerra di classe. E solo in
fondo a questultima possiamo intravedere un mondo libero dallo Stato e
dal denaro, in cui per vivere e viaggiare non ci sarà bisogno di alcun
permesso.
Una macchina che si può spezzare
Negli anni Ottanta cera uno slogan che diceva: "Oggi
non è tanto il rumore degli scarponi che dobbiamo temere, quanto il silenzio
delle pantofole". Ora stanno tornando entrambi. Con un linguaggio da guerra
santa (le forze dellordine quale "esercito del bene" che protegge
i cittadini dagli immigrati, l"esercito del male", come ha affermato
di recente il presidente del Consiglio), lo Stato sta organizzando quotidianamente
retate ai danni degli immigrati. Le loro case vengono devastate, i clandestini
vengono rastrellati per strada e deportati, rinchiusi nei lager ed espulsi nella
più totale indifferenza. In numerose città sono già in
costruzione nuovi centri di detenzione. La legge Bossi-Fini, degna continuazione
della Turco-Napolitano, vuole limitare i permessi di soggiorno in base alla
durata esatta del contratto di lavoro, schedare tutti gli immigrati, trasformare
la clandestinità in reato e rafforzare la macchina delle espulsioni.
Il meccanismo democratico della cittadinanza e dei diritti, per quanto allargati,
presupporrà sempre lesistenza di esclusi. Criticare e cercare di
impedire le espulsioni degli immigrati significa al tempo stesso realizzare
una critica in atto del razzismo e del nazionalismo; significa cercare uno spazio
comune di rivolta contro lo sradicamento capitalista che ci coinvolge tutti;
significa ostacolare un importante quanto odioso meccanismo repressivo; significa
spezzare il silenzio e lindifferenza dei civilizzati che rimangono a guardare;
significa infine mettere in discussione il concetto stesso di legge, allinsegna
del principio "siamo tutti clandestini". Si tratta, insomma, di un
attacco a uno dei pilastri della società statale e di classe: la competizione
fra poveri, la sostituzione, oggi sempre più minacciosa, della guerra
etnica o religiosa alla guerra sociale.
La macchina delle espulsioni ha bisogno, per funzionare, del concorso di molte
strutture pubbliche e private (dalla Croce Rossa che cogestisce i lager alle
ditte che forniscono servizi, dalle compagnie aeree che deportano i clandestini
agli aeroporti che organizzano le zone dattesa, passando per le associazioni
dette di carità che collaborano con la polizia). Tutte queste responsabilità
sono ben visibili e ben attaccabili. Dalle azioni contro i centri di detenzione
(come è successo un paio di anni fa in Belgio e qualche mese fa in Australia,
quando delle manifestazioni si sono concluse con la liberazione di alcuni clandestini),
a quelle contro le "zone di attesa" (come in Francia, ai danni della
catena di hotel Ibis, che fornisce le proprie stanze alla polizia) o per impedire
i voli dellinfamia (a Francoforte, un sabotaggio dei cavi a fibre ottiche
aveva messo fuori uso, qualche anno fa, tutti i computer di un aeroporto per
un paio di giorni), mille sono le pratiche che un movimento contro le espulsioni
può realizzare.
Oggi come non mai è nelle strade che si può ricostruire la solidarietà
di classe. Nella complicità contro le retate della polizia; nella lotta
contro loccupazione militare dei quartieri; nellostinato rifiuto
di ogni divisione che i padroni vorrebbero imporci (italiani e stranieri, immigrati
regolari e clandestini); nella consapevolezza che ogni oltraggio subito da qualsiasi
espropriato della Terra è un oltraggio a tutti - solo in questa maniera
gli sfruttati di mille Paesi potranno finalmente riconoscersi.