In
questo preciso istante, in ogni angolo del pianeta, milioni di fuorilegge
cospirano nell’ombra per unirsi alla più grande banda di pirati
della storia dell’umanità: sono i pirati di musica, video e software,
che condividono in rete miliardi di file, e già da anni hanno trasformato
internet nel più grande strumento di condivisione della conoscenza
che l’uomo abbia mai avuto a disposizione. Le avventure degli hacker,
la lotta agli Ogm, le radio e le tv, i graffiti sui muri, i francobolli
finti e lo scambio di musica in rete: storie di passione e libertà.
Carlo Gubitosa — <c.gubitosa@peacelink.it>
Elogio della pirateria - Manifesto di ribellione creativa
L’autore
Il libro
Prefazione
Introduzione. Storie di pirati e libertà
Manifesto di ribellione creativa: dieci tesi sulla pirateria
CAPITOLO I - I pirati dell’etere
CAPITOLO
II - Pirateria musicale: conversione di un luddista
CAPITOLO III - Pirateria e cultura
CAPITOLO IV – CiberPirati
CAPITOLO V - I pirati del cibo
CAPITOLO VI - Comunicazione pirata
CAPITOLO VII - Pirateria della salute
CAPITOLO VIII - Pirati di immagini
CAPITOLO IX – Videopirateria
CAPITOLO X - Arte pirata
Carlo
Gubitosa è un giornalista freelance che collabora con l’associazione
di volontariato dell’informazione “PeaceLink”. Ha già pubblicato
i volumi “Telematica per la Pace” (1996), “Oltre Internet” (1997),
“L’informazione alternativa” (2002), “Genova, nome per nome” (2003),
“Viaggio in Cecenia. La ‘guerra sporca’ della Russia e la tragedia
di un popolo” (2004). Nel 1999 ha pubblicato “Italian Crackdown”,
il primo libro italiano diffuso liberamente anche in rete sin
dal primo giorno di presenza in libreria, con una licenza di distribuzione
“copyleft” realizzata dallo stesso autore.
In
questo preciso istante, attorno a te, nel tuo quartiere, nella
tua città e in ogni angolo del pianeta, milioni di fuorilegge
cospirano nell’ombra per unirsi alla più grande banda di
pirati della storia dell’umanità: sono i pirati di musica, video
e software, che condividono in rete miliardi di file, in ogni
secondo di ogni giorno di ogni mese dell’anno, e trasformano internet
nel più grande strumento di condivisione della conoscenza
che l’uomo abbia mai avuto a disposizione. Questo grande laboratorio
culturale non dorme mai, e quando i pirati di New York chiudono
gli occhi davanti allo schermo a notte fonda, quelli di Tokyo
sono già pronti a sostituirli davanti al sole del nuovo giorno.
Le
avventure degli hacker, la lotta agli Ogm, le Telestreet, le radio
pirata, i graffiti sui muri, i francobolli finti e lo scambio
di musica in rete: la pirateria moderna ci racconta storie di
passione e libertà, avventure mozzafiato e sfide impossibili raccolte
da uomini liberi che vogliono riscrivere le regole del sistema.
Le trappole del copyright, le multinazionali biotech, le grandi
case discografiche, le major di Hollywood, la Siae, la Microsoft
e tutti i governi del mondo non sono riusciti ad imbrigliare il
genio creativo dei corsari di ieri e di oggi, che continuano a
stupirci con nuove conquiste.
Questo
testo è stato impaginato dal suo autore con LATEX, un sistema
gratuito e libero di elaborazione dei testi, il 27 maggio 2005.
Questo
libro è rilasciato con la licenza Creative Commons “Attribution
Non Commercial No Derivs 2.0”, consultabile in rete all’indirizzo
http://creativecommons.org/. Pertanto questo
libro è libero, e può essere riprodotto e distribuito, con ogni
mezzo fisico, meccanico o elettronico, a condizione che la riproduzione
del testo avvenga integralmente e senza modifiche, ad uso privato
e a fini non commerciali.
Se
stai leggendo questo testo su un supporto elettronico, o su fotocopie,
o su qualunque altro supporto diverso dal libro originale, o se
hai in mano il libro originale, ma ti è stato prestato o regalato,
puoi sostenere liberamente l’attività di ricerca e di scrittura
dell’autore con un’email, una lettera di ringraziamento o una
cartolina del luogo in cui ti trovi, un pacchetto con prodotti
tipici della tua regione, vecchi 45 giri, libri e fumetti che
non leggi più, banchi di Ram o altro materiale elettronico, prodotti
di erboristeria, ricette segrete, inviti a pranzo, a cena e a
dormire presso la tua abitazione, Tshirt taglia XXL (preferibilmente
non usate), materiale da campeggio, francobolli, Cdrom (pieni
o vuoti), Dvd (pieni o vuoti), cartoni animati su Dvd o Vhs, buoni
pasto, ricariche per cellulari, articoli di cancelleria, materiale
elettronico, tessere viacard anche parzialmente utilizzate, buoni
benzina, biglietti per cinema, teatro e parchi di divertimento,
insomma tutto ciò che ti farebbe piacere ricevere da qualche sconosciuto
e qualsiasi altro materiale possa essere utile alla vita e al
lavoro di un giornalista/scrittore. Se proprio ti manca la fantasia,
vanno benissimo anche dei soldi.
L’indirizzo
a cui effettuare le spedizioni è: Carlo Gubitosa — Via Giovinazzi
91 — 74100 Taranto — Conto Corrente Postale n. 37845112.
Ringrazio
in anticipo tutti coloro che mi daranno il loro supporto morale
o materiale per sostenere un modello diverso di economia della
conoscenza.
Ad
un tratto il Corsaro prese la giovane per una mano, dicendole:“Vieni!...”“Dove
vuoi condurmi?”“Bisogna che veda il mare”.
[Emilio Salgari, La regina dei caraibi]
E'
pericoloso aver ragione quando le autorità costituite hanno torto”.
[Voltaire]
Prefazione
di
Paolo Attivissimo
“La
tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover
giudicare con leggi che ancora non sono tutte giuste”.
[Don
Lorenzo Milani, Lettera ai giudici, 1965]
Avvertenza:
questo libro contiene dosi massicce di idee radicali. Alcune di
queste idee possono essere indigeste, causare irritazioni, scompensi
economici, crisi d’identità e malessere generale, ma non possono
essere liquidate. Non superare le dosi consigliate. Nel dubbio,
somministrare a singoli capitoli. Non somministrare comunque ai
minori di 16 anni, perché non ne hanno bisogno: queste idee le
hanno già assimilate senza pensarci, con l’involontaria complicità
del mercato disco-cinematografico e dei legislatori. Come
informatico della vecchia guardia, quella che si ricorda i tempi
in cui internet non esisteva e la musica si “piratava” dalla radio
con le musicassette, molti dei concetti “sovversivi” che Carlo
Gubitosa raccoglie ed esprime così chiaramente in queste pagine
non mi sono venuti spontanei quando li ho affrontati per la prima
volta, pur avendo io per mestiere una certa dimestichezza con
l’innovazione.
È
probabile che anche a voi, se avete i peli del naso che crescono
più in fretta dei capelli in testa, faranno lo stesso effetto:
quello di una medicina indigesta.
Indigesta
ma necessaria, perché le attuali idee, leggi e logiche commerciali
stanno scricchiolando sotto il peso della tecnologia. Concepite
in un’epoca in cui musica, film, giornali e libri erano fabbricabili
e distribuibili soltanto da uno rivelano tutta la loro inadeguatezza
in un mondo dove tutto questo è duplicabile, copiabile, trasmissibile
a chiunque da chiunque.
Oggi
qualunque utente di internet, con la sua bella paginetta Web o
il suo blog, ha lo stesso potere editoriale del più blasonato
e ricco dei giornali. Chiedetelo a Tony Blair, demolito dalla
scoperta, fatta da una persona qualunque e pubblicata in rete,
che il suo dossier sull’Iraq era un plagio malfatto di una tesina
obsoleta. Chiedetelo a George W. Bush, i cui giornalisti assoldati
per fargli sempre domande “amiche” sono stati smascherati dai
blogger. Chiedetelo a Dan Rather, che si è giocato decenni di
carriera come anchorman dei telegiornali USA spiattellando in
diretta TV documenti anti-Bush rivelatisi falsi grazie alla meticolosa
analisi collettiva di tanti utenti di internet.
È
evidente che se le premesse della società sono cambiate, le regole
che funzionavano prima non possono continuare a funzionare. E
questo, a molti, fa paura.
È
naturale, e la tentazione di far finta di niente è forte.
Ma
che ci piaccia o no, la tecnologia è già qui, nelle nostre case,
e non se ne andrà, per cui è ora di trovare regole nuove per tenerne
conto invece di nascondere la testa nella sabbia. Chi rifiuta
di ammodernarsi e spera di ingabbiare la tecnologia con le leggi
farà la fine del maniscalco che pretendeva tutela per la sua categoria
a causa di quell’oggetto sovversivo chiamato “automobile”, o di
William Preece, ingegnere capo delle Poste Britanniche, che nel
1876 dichiarava impettito, di fronte alle notizie della nuova
straordinaria tecnologia in arrivo da oltre Atlantico, che “gli
americani hanno bisogno del telefono, noi no: abbiamo fattorini
in abbondanza”.
Ci
vogliono, insomma, regole nuove, nuovi modi di pensare, nuove
soluzioni commerciali che sfruttino queste innovazioni anziché
considerarle nemiche. Ma regole nuove scaturiscono soltanto dalla
comprensione di come funzionano realmente certi meccanismi sociali
e di mercato; e in questo senso vi aspettano molte sorprese. Paladini
del diritto che si rivelano ladri; ladri che si rivelano tutori
della cultura; tutori della cultura costretti a fare i ladri dai
paladini del diritto.
Prendete
questo libro come una sfida: le vostre gengive mentali sono troppo
molli per masticare concetti nuovi e croccanti? Siete abbastanza
sicuri dei presupposti su cui si basano le vostre regole morali
da poter demolire quelle innovative proposte qui? Siete pronti
a rischiare di scoprire che le norme che avete dato per scontate,
naturali e immutabili sono in realtà effimere come le promesse
di un politico e altrettanto bisognose di uno schietto repulisti?
Non
è necessario che condividiate tutto quello che viene proposto
in queste pagine; ma è importante che sappiate quali idee si stanno
diffondendo là fuori come soluzione ai problemi causati dallo
sfasamento fra leggi, bisogni umani e tecnologia. Strada facendo,
scoprirete quante delle cose che ora consideriamo normali e “tradizionali”
sono in realtà il frutto di idee che soltanto pochi anni fa erano
ritenute sovversive e illegali.
Ed
è per questo che vi consiglio di rileggere questo “Elogio della
pirateria” fra una decina d’anni, quando insomma Bill Gates avrà
passato la sessantina. Se sorriderete scoprendo quanto sono diventate
banali e scontate le cose che Carlo Gubitosa scrive oggi, vorrà
dire che il libro ha raggiunto il suo scopo e aveva ragione. E
che voi l’avete capito in tempo.
“Occorre
combattere con la massima determinazione la pirateria in tutte
le sue forme, perché la difesa della proprietà intellettuale è
nell’interesse di tutti, perché dà valore economico alla cosa
più preziosa: l’ingegno, che è alla base della nostra società
libera”.
[Carlo
Azeglio Ciampi]
“Certo,
all’autore di un’opera letteraria, di una musica o di un film
non piace che qualcuno se la scarichi da internet senza pagare
una lira... però dobbiamo entrare nell’ordine di idee che questi
nuovi strumenti cambiano anche il modo in cui si è remunerati
per questo tipo di attività”.
[Stefano
Rodotà, garante della privacy]
Che
cos’è esattamente un “pirata”?
È
quello che immaginavamo da bambini, sognando favole di avventurieri
che attraversano il mondo con il vento in faccia, combattendo
per la libertà e la giustizia, oppure quello che ci costringono
a immaginare da grandi, dipingendo un mondo oscuro e sordido dove
i “pirati informatici” che scambiano musica e condividono software
sono dei soggetti sovversivi e destabilizzanti per l’economia
di mercato? Ogni stagione della storia ha le sue religioni
e le sue eresie, e spesso sono proprio gli eretici e i criminali
a strattonare la civiltà per costringerla a compiere un salto
in avanti. Basta pensare al segno lasciato nel mondo da “delinquenti”
come Gesù di Nazareth, Socrate e Galileo Galilei, tutti e tre
processati per bestemmia contro gli dèi del loro tempo. Gesù ha
liberato lo spirito, Socrate l’intelletto e Galileo la scienza:
chi è che oggi sta provando a liberare l’informazione e la cultura?
Questo
libro racconta le storie di eretici postmoderni che osano sfidare
le tecnoreligioni di un mondo dove si venera il dio profitto,
ribelli che vogliono recuperare il senso più pieno di parole
come arte, condivisione, conoscenza e bellezza, prima che queste
parole vengano definitivamente rinchiuse nelle gabbie di chi vuole
trasformare ogni sinfonia in una suoneria da scaricare a pagamento
sul telefonino.
Nei
riti della religione tecnocratica e televisiva, le masse di “credenti”
rinnovano continuamente i loro atti di fede nelle verità rivelate
dallo schermo, e si convincono che una guerra è finita solo perché
una telecamera inquadra una statua che cade in una piazza.
Cosa
fanno questi “pirati” che osano mettere in dubbio le verità del
tubo catodico, chi sono i nuovi eretici che si spingono dove nessun
altro osa avventurarsi, perché negli anni ‘60 gli hacker del Massachusetts
Institute of Technology hanno solennemente dichiarato che “l’informazione
dev’essere libera”, mentre oggi c’è chi teorizza che solo il mercato
può e deve essere libero in un mondo dove tutto, anche le opere
dell’ingegno, è inevitabilmente destinato a diventare una merce?
Perché
da piccoli facevamo il tifo per Sandokan e il Corsaro Nero, che
combattevano contro i soldati dell’esercito britannico e spagnolo,
e da grandi ci dicono che condividere musica con altre persone
è una azione criminale, e che i “pirati” colpevoli di aver scambiato
gratuitamente musica tra loro vanno puniti con pene simili a quelle
di chi compie un omicidio colposo? Perché nessuno ci spiega la
differenza tra un pirata e un criminale, tra un ribelle e un delinquente,
tra un ragazzo che ascolta musica in rete e un mafioso che la
rivende su mercati paralleli e illegali?
Tutti
abbiamo collezionato figurine da piccoli: chi aveva in mano il
potere delle immagini e delle informazioni, e lo esercitava decidendo
quali sarebbero state le immagini più difficili da trovare
all’interno delle bustine, stampava sul retro degli album istruzioni
dettagliatissime per ordinare le introvabili figurine mancanti
(ovviamente a pagamento). Ciò nonostante centinaia di migliaia
di bambini consideravano inconcepibili e assurde quelle regole
del mondo dei grandi, e senza pensarci un attimo praticavano su
scala di massa e in modo spontaneo delle forme di autorganizzazione,
scambio e condivisione che consentivano a tutti di ottimizzare
le risorse impiegate all’acquisto dei fatidici rettangolini adesivi.
Ormai
queste forme spontanee, immediate e istintive di gestione delle
risorse “dal basso” non sono più cose da bambini, ma vengono
praticate quotidianamente, in varie forme e a vari livelli, da
adulti marchiati come eretici, pirati o criminali solo per aver
rivendicato il diritto alla libertà intellettuale per scambiare
e creare software, arte e conoscenza, per allestire nell’etere
Tv di quartiere e radio pirata, per produrre farmaci antiAids
a basso costo violando i brevetti delle multinazionali e per realizzare
tantissime forme d’arte che spaziano dall’agricoltura alla filatelia,
dai graffiti sui muri al situazionismo mediatico, dall’antipubblicità
al plagio creativo di “cult movie” hollywoodiani.
Tutte
queste pratiche hanno in comune due caratteristiche: sono totalmente
fuorilegge e al tempo stesso assolutamente necessarie per salvare
la nostra storia e la nostra cultura da una precoce morte cerebrale.
Per un curioso paradosso della storia, gli eretici condannati
e marchiati come criminali dalla società dell’informazione sono
gli unici che possono salvarla dal suo collasso e dal processo
di “plastificazione” che attraversa ogni aspetto della nostra
vita, dalla musica di plastica costruita a tavolino, senza cuore
e passione, fino al cibo di plastica che mangiamo nei fast food.
Mai come oggi il potere dell’informazione ha guidato il destino
dell’uomo, e per esercitare il diritto di critica e di controllo
su questo potere è il momento di scegliere da che parte stare
nell’arena dove si consuma lo scontro tra i due modelli di sviluppo
che stanno orientando, ciascuno a suo modo, l’evoluzione della
nostra cultura: il modello “proprietario” e il modello “libero”.
Il
modello proprietario è caratterizzato dall’applicazione al mondo
delle idee, della cultura e delle opere dell’ingegno di un concetto
base dell’economia tradizionale: il valore di un bene è determinato
dalla sua scarsità. L’applicazione di questo principio economico
a beni immateriali come un programma informatico o una sequenza
di note musicali ha come conseguenza una rigida tassazione di
ogni forma di utilizzo o duplicazione delle opere dell’ingegno,
e un lavoro incessante di monitoraggio e controllo per reprimere,
sanzionare, criminalizzare e scoraggiare qualunque utilizzo di
questi beni immateriali che non produce un immediato vantaggio
economico per chi ne controlla i diritti di riproduzione.
A
questa visione mercantile della scienza e dell’arte si contrappone
il modello di sviluppo “libero”, basato su un principio completamente
diverso: nella società dell’informazione il valore di un bene
immateriale, concettuale o artistico è determinato dalla sua diffusione.
Un libro, un brano musicale o un programma informatico hanno un
valore proporzionale al numero di persone che conoscono e utilizzano
quel testo, quella musica o quel programma.
Applicando
questo principio cade la necessità di tassare ogni forma di distribuzione
delle opere dell’ingegno, perché la libera circolazione delle
idee, anche quando avviene in forma spontanea o gratuita, riesce
sempre e comunque a produrre un vantaggio per chi ha dato vita
a quelle idee, anche se questo vantaggio è indiretto e non immediato.
E'
questo l’approccio culturale e filosofico che ha permesso lo sviluppo
esponenziale di internet e di tutti i protocolli, servizi e tecnologie
che oggi utilizziamo quotidianamente per l’interconnessione su
scala geografica dei computer e per la posta elettronica, la navigazione
ipertestuale o lo scambio di file.
Se
oggi dovessimo pagare un centesimo per i diritti d’autore ogni
volta che usiamo la “chiocciolina” in un messaggio email, consultiamo
a distanza un documento attraverso il protocollo HTTP o pubblichiamo
in rete un ipertesto secondo gli standard che definiscono il linguaggio
HTML, probabilmente al mondo ci sarebbe qualche miliardario in
pi‘u, ma avremmo un’internet molto più povera di informazioni,
meno diffusa e meno frequentata, e questo sarebbe un grosso danno
anche per i miliardari.
Questo
“elogio della pirateria” racchiude in pochi frammenti di testo
le esperienze di persone accomunate da una scintilla di genialità
e da una grande curiosità artistica, menti brillanti inadeguate
ad una società grigia, disadattati che non sanno scendere a patti
con le regole assurde del mondo in cui vivono, artisti eclettici,
ribelli irriducibili, creativi geniali, programmatori brillanti...
in una sola parola: pirati.
Le
avventure e le visioni culturali di questi pirati sono l’unico
antidoto che può salvare dall’implosione e dall’autodistruzione
la nostra società sempre più dipendente dalla sfera mediatica,
e se domani, tra un anno o tra un secolo, il mondo avrà abbastanza
fantasia per vivere il sogno collettivo di un altro modello di
sviluppo, dovremo ringraziare quelli che nel frattempo avranno
tenuto accesa la fiammella della libertà di espressione, e che
oggi vogliamo mandare in galera perché ascoltano troppa musica,
vedono troppi film, leggono troppi libri e soprattutto ragionano
troppo: imperdonabili atti di eresia.
I
pirati ribelli eretici che si ostinano a ragionare con la propria
testa, quando tutto attorno a te invita a staccare la spina del
cervello per annegare nel dolce tepore della lobotomia televisiva
e delle subculture plastificate, sono un piccolo seme di speranza
che ci aiuta a trovare il coraggio di resistere in un mondo dove
ogni uomo deve essere l’uomo medio, dove ogni devianza è vissuta
come crimine o malattia, dove il ritornello “produci-consuma-crepa”
sembra scolpito nei muri degli uffici, delle case, dei mega centri
commerciali e di tutti i luoghi di alienazione moderna.
Ma
cosa diventerebbe questo nostro piccolo pianeta se tutti cominciassero
a trasmettere liberamente segnali radio e televisivi, scambiando
musica gratis alla luce del sole senza scopo di lucro, ripudiando
tutti i brevetti che bloccano l’innovazione creando monopoli artificiali,
tutte le regole del copyright che penalizzano i cittadini, tutti
i vincoli e le blindature che imprigionano la cultura, la scienza,
la medicina e perfino l’alimentazione? Sprofonderemmo nel regno
del caos e nella totale assenza di regole gettando al vento ogni
convenzione sociale? L’etere diventerebbe un’accozzaglia di segnali
confusi e sovrapposti? Oppure si aprirebbero le porte di un nuovo
TecnoRinascimento planetario, con nuove opportunità di riscatto
e di salvezza per i popoli e le persone che hanno pochi soldi,
ma tanta creatività, curiosità e ingegno? Non ho una risposta
definitiva per questa domanda, ma so per certo che oggi il mondo
sarebbe un posto ben peggiore se nel corso della storia nessuno
avesse mai realizzato azioni di pirateria della comunicazione,
dell’arte e della cultura.
“Incriminato”,
“accusato”, “arrestato”, “processato”: questi marchi di infamia
sono stati associati ai volti di un gruppo di giovani “delinquenti”,
colpevoli di aver voluto condividere la loro musica con altri
utenti di internet. Nel marzo 2004 sono stati messi alla pubblica
gogna durante la diretta del Superbowl, la finale del campionato
di football americano, che ogni anno è il più grande evento
mediatico degli Stati Uniti. Nel corso della partita è stato trasmesso
uno spot di 45 secondi prodotto dalla Pepsi, dalla Apple e dalla
Riaa, Recording Industry Association of America, la potentissima
lobby dei discografici americani.
Lo
spot ritrae 16 ragazzini che la Riaa ha trascinato in tribunale
perché hanno condiviso musica in rete, e mentre i loro volti scorrevano
sul video, la mente di milioni di persone è stata manipolata per
trasmettere la convinzione che quegli adolescenti fossero davvero
una minaccia per la società, e che la musica si può scaricare
legalmente da internet solo se te la regala Pepsi dopo aver bevuto
una lattina. Tra non molti anni la condivisione di musica
in rete sarà una pratica sociale talmente diffusa da costringere
i governi del mondo a riconoscerne la piena legittimità, e spero
che quel giorno i ragazzi bollati come criminali durante il Superbowl
saranno ricordati, assieme a tutte le altre persone colpite e
perseguitate perché assetate di musica e conoscenza, come i primi
pionieri di un cambiamento epocale, come i pirati coraggiosi che
si sono imbarcati all’alba nel mare della rete per scoprirne prima
di chiunque altro le meraviglie e i segreti, seguendo le onde
della curiosità e dell’amore per l’arte.
La
pirateria moderna ci racconta storie di passione e libertà, avventure
mozzafiato e sfide impossibili raccolte e trasformate in realtà
da donne e uomini liberi che vogliono riscrivere le regole del
sistema. Le trappole del copyright, le multinazionali biotech,
le grandi case discografiche, le major di Hollywood, la Siae,
la Microsoft e tutti i governi del mondo non sono riusciti ad
imbrigliare il genio creativo dei corsari di ieri e di oggi, che
continuano a stupirci con nuove conquiste. Grazie a loro, il
futuro sarà forse più disordinato, ma sicuramente molto meno noioso.
Sono
tante le persone che dovrei ringraziare per questa incursione
nel mondo dei pirati: tra queste mi limito a citare Michele, il
mio amico “luddista” convertito alla pirateria culturale, John
Draper, Francesco Cascioli, Carletto FX, Paolo Attivissimo, il
writer “Dada” e Miriam Giovanzana, che ancora una volta ha creduto
alle mie idee convincendomi a trasformare in un libro i miei appunti
sparsi.
Un
ringraziamento particolare va a Francesca, che con la sua pulizia
interiore mi tiene stretto agli ideali e ai valori di libertà
che ho cercato di esprimere con questo libro. Ringrazio anche
mia mamma Annamaria, che fino all’ultimo si è sforzata invano
di immaginare un altro titolo per questo libro, temendo che un
aperto elogio della pirateria lanciato dagli scaffali delle librerie
avrebbe potuto procurarmi delle grane. Io, invece, non mi sono
mai divertito tanto a scrivere.
“L’uomo
ragionevole si adatta al mondo, e quello irragionevole si ostina
nel voler adattare il mondo a se stesso. Pertanto, qualunque progresso
dipende dagli uomini irragionevoli”.
[George
Bernard Shaw, drammaturgo irlandese]
Tesi
numero 1: I pirati dell’etere
La
pirateria televisiva è una pratica sociale che stimola la ricchezza
culturale e la biodiversità della comunicazione. I pirati televisivi
di oggi, che sono in realtà i pionieri della comunicazione di
domani, vogliono affermare una verità elementare e banale: l’etere,
come l’aria, è un bene comune a disposizione di chiunque voglia
far “respirare” le proprie idee. La pirateria radiofonica, ovvero
il libero utilizzo delle trasmissioni audio per diffondere musica
e cultura, è l’atto di liberazione che ha salvato il mondo dal
monopolio dei governi sulle trasmissioni radio. Le radio pirata
rendono migliore la società che attraversano con le loro onde,
sono un cibo vitale per la mente, la cultura e l’anima, sono capaci
di sollevare i popoli dall’oppressione e dalla violenza trasformandosi
in uno strumento di lotta nonviolenta, sono una speranza per un
futuro dove la musica sarà sempre più vicina all’arte e
sempre più lontana dalla mercificazione commerciale che criminalizza
il libero ascolto e impedisce la valorizzazione di ciò che è bello
a favore di ciò che è vendibile.
L’etere,
lo spazio fisico nel quale viaggiano i segnali televisivi e radiofonici,
è una risorsa naturale che appartiene alla grande famiglia dei
cittadini del mondo, dove ogni uomo e donna ha il diritto di usare
liberamente questa risorsa per il bene comune, senza scopo di
lucro e organizzandosi dal basso con altre persone. La dittatura
degli stati nazione e delle aziende sull’etere è una anacronistica
forma di controllo feudale di una risorsa pubblica. Il controllo
dell’etere non spetta ai governi o alle aziende, ma ai popoli.
Il diritto all’autodeterminazione dei popoli include il diritto
all’autodeterminazione dell’etere e delle trasmissioni radiofoniche,
televisive e digitali realizzate in un determinato territorio
da una comunità locale a proprio beneficio.
Tesi
numero 2: Pirateria musicale
La
pirateria musicale è uno strumento di accesso universale alla
cultura, che dà a chiunque la possibilità di incontrare e conoscere
popoli e tradizioni musicali esclusi dalla mercificazione dei
saperi, incompatibili con le regole del profitto e assenti dai
cataloghi delle grandi case discografiche. L’accesso alla cultura
è un diritto inalienabile, la musica è uno strumento di cultura
e pertanto l’accesso alla musica è un diritto inalienabile. La
pirateria della fruizione musicale, ovvero la copia di musica
ad uso personale e senza scopo di lucro, è un diritto fondamentale
che va pienamente tutelato, di fronte al quale il diritto al profitto
delle case discografiche deve necessariamente soccombere e farsi
da parte. L’esercizio di questo diritto favorisce gli autori di
musica alimentando la circolazione delle loro opere e aprendo
nuovi canali di diffusione che permettono una migliore espressione
della creatività.
Tesi
numero 3: Pirateria e cultura
La
pirateria culturale, ovvero la sottrazione di tutte le forme d’arte
all’economia di mercato per trasformarle in gemme preziose nell’economia
della conoscenza, è uno strumento indispensabile per la produzione
di idee. Le buone idee e le creazioni artistiche non amano stare
da sole, né amano che qualcuno le prostituisca affidandole solo
a chi può permettersi di pagarle.
Nessuno
ha interesse a chiudere nella gabbia del copyright le proprie
idee e la propria arte, perché se anche gli altri facessero lo
stesso, il potenziale del l’uomo sarebbe destinato a non incontrare
mai il potenziale altrui, e le idee non sarebbero più cibo
per la mente del mondo, ma rimarrebbero chiuse in una gabbia dove
il genio, la fantasia e la creatività sono destinati a morire
trasformandosi in merce al servizio dell’avidità e dell’egoismo.
L’arte si nutre di arte, la musica di musica, la parola di altre
parole. I pirati dell’arte sognano una cultura libera, dove l’idea
di ognuno diventa materia prima per la creazione artistica del
mondo, e dove tutte le opere d’arte del mondo si trasformano in
nutrimento per la creatività e la fantasia di ognuno, senza trasformare
la libera circolazione dei saperi in un mercato guidato dalla
cupidigia, dalla violenza e dalla repressione poliziesca. L’intero
pianeta è un grande laboratorio creativo pronto a donare arte,
bellezza e il giusto guadagno per vivere agli artisti, agli scrittori
e ai musicisti che vincono l’assurda paura della povertà tipica
del mondo ricco e scelgono di spiccare il volo, donando all’universo
intero se stessi e il frutto della propria arte. Gli artisti che
temono di perdere ricchezze materiali con la libera circolazione
delle loro opere hanno più fiducia nelle regole di mercato che
nel proprio talento. Al contrario, i pirati che praticano la liberazione
dell’arte e della cultura hanno guardato dentro se stessi per
scoprire che la vera ricchezza è quella che nasce dall’unicità
del genio creativo, e non il valore monetario prodotto da leggi
che privano della libertà chi vuole accedere all’arte con tutti
i mezzi a sua disposizione.
Il
diritto alla copia è un diritto naturale di tutte le donne e gli
uomini del mondo: se William Shakespeare non avesse copiato la
trama di alcuni vecchi pezzi teatrali destinati all’oblio, trasformandoli
in capolavori della storia del Teatro, oggi il mondo sarebbe più
povero. Spetta ai popoli, e non alle aziende o a singoli
cittadini, decidere se e come il diritto alla copia può essere
temporaneamente sospeso con un accordo chiamato “Copyright”, che
concede alcuni privilegi agli autori nell’interesse collettivo,
per favorire la produzione di arte e cultura. L’obiettivo del
copyright è quello di fare gli interessi dei cittadini, e riconoscere
alcuni privilegi agli autori è solo un mezzo per il raggiungimento
di questo obiettivo finale: la tutela degli interessi culturali
e intellettuali della collettività. L’idea di un bilanciamento
tra i diritti degli autori e quelli della collettività non ha
cittadinanza nello stato di diritto, in quanto il diritto di un
singolo non avrà mai lo stesso peso dei diritti di un popolo,
e i popoli hanno il diritto e il dovere di agire unicamente nell’interesse
collettivo. Un autore non ha la stessa importanza di un’intera
nazione: i diritti della collettività hanno priorità sugli interessi
degli autori quando questi entrano in conflitto con il bene comune.
L’onere della prova non spetta ai cittadini che devono dimostrare
i benefici sociali correlati all’esercizio del diritto alla copia,
ma ai detentori del copyright, che devono dimostrare ai cittadini
i vantaggi correlati alla sospensione temporanea e limitata di
questo diritto. Quando questi vantaggi sono inferiori alle privazioni
subite dalla collettività, il copyright non ha più ragione
di esistere.
Il
copyright non è un diritto naturale degli autori che concede un
potere illimitato di repressione contro i cittadini, ma è una
concessione fatta agli autori da un popolo che cerca un maggiore
vantaggio intellettuale, e offre agli autori un incentivo che
li stimoli alla produzione di nuove opere. Il problema del copyright
non è quello di trovare un equilibrio tra gli interessi degli
autori e quelli dei cittadini, ma quello di massimizzare i benefici
per la collettività che nascono dal giusto equilibrio tra il libero
esercizio del diritto alla copia e una parziale rinuncia a questo
diritto che può stimolare la produzione di nuovo materiale artistico,
ma sempre a beneficio della collettività e non dei singoli.
Tesi
numero 4: CiberPirati
La
pirateria informatica, ovvero la copia ad uso personale e senza
scopo di lucro del software, il libero scambio di programmi e
la mutua cooperazione tra utenti di sistemi informatici, non sono
azioni criminali, ma pratiche che risalgono agli albori della
storia dell’informatica. L’abitudine alla solidarietà e alla condivisione
dei programmi rappresentano una naturale evoluzione dei comportamenti
sociali, che si adeguano alle nuove tecnologie dell’informazione
e della comunicazione. Il copyright sul software non è un legittimo
riconoscimento economico che raggiunge i creatori di programmi,
ma una tassa da pagare alle grandi compagnie informatiche che
sfruttano i loro dipendenti e gli utenti al tempo stesso. Dietro
la maschera del copyright si nasconde una legislazione che tutela
gli interessi delle grandi case produttrici di software ma non
i diritti delle singole persone, e punisce con la carcerazione
la copia dei programmi, anche se fatta senza scopi commerciali
o criminali, ad uso personale, ad uso didattico, a beneficio di
associazioni, gruppi di volontariato, organizzazioni non governative,
scuole. Le leggi attuali sui cosiddetti “crimini informatici”
rispecchiano gli interessi e le pressioni lobbistiche di un ristretto
gruppo di aziende, e non la volontà popolare e democratica che
dovrebbe essere il fondamento di qualsiasi legge.
È
tempo che vengano tutelati i diritti di tutti i cittadini del
mondo e del Ciberspazio, invece di continuare a difendere gli
interessi delle grandi case produttrici di software. Il lavoro
dei programmatori non si tutela mandando in galera altre persone,
ma creando le condizioni affinché il mondo dell’informatica non
sia più dominato da monopoli che di fatto limitano ed ingabbiano
la libertà di iniziativa della programmazione. Le pratiche di
scambio libero e gratuito del software, nate negli anni ‘60 assieme
alla prima comunità di Hacker del Mit, sono il fenomeno sociologico
e culturale che ha consentito lo sviluppo della scienza informatica
e la nascita dei personal computer. L’etica hacker sviluppata
nei laboratori del Mit è il fondamento culturale e filosofico
di una nuova generazione di artisti e scienziati che sviluppano
il loro talento e le loro potenzialità attraverso la condivisione
della conoscenza, la libertà di accesso alle informazioni, la
libertà di copia, di analisi e di modifica del software.
Tesi
numero 5: I pirati del cibo
La
pirateria agroalimentare, fatta di tradizioni agricole, cultura
e saggezza contadina, legame tra l’uomo e la terra, produzioni
locali e biodiversità dell’ecosistema è una pratica legittima
e naturale, che non può essere proibita, regolamentata o criminalizzata
in nome del diritto al profitto delle multinazionali. Qualunque
accordo commerciale o contratto di vendita che limiti il diritto
dei contadini a disporre liberamente del proprio territorio e
delle proprie sementi va considerato nullo. La materia vivente
non può essere oggetto di brevetto. Il copyright sul codice genetico
della fauna e della flora è di Dio, Allah, Budda, Jahvè, o in
alternativa di nessuno, ma non può essere rivendicato da un privato
o da una azienda.
Tesi
numero 6: Telefonia pirata
La
pirateria telefonica (o Phone Phreaking) è uno strumento di difesa
dei diritti umani, in particolare del diritto alla comunicazione.
Comunicare per mettersi in relazione con altri è un diritto fondamentale
e inalienabile. L’articolo 19 della dichiarazione universale dei
Diritti Umani stabilisce che tutti gli uomini e le donne del mondo
hanno il diritto “di cercare, ricevere e diffondere informazioni
e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Quando
si parla di “ogni mezzo” per affermare questo diritto, senza dubbio
nell’elenco dei mezzi possibili rientrano anche le tecniche di
“Phreaking”, che riducono di una quantità infinitesimale l’ingiusto
profitto di pochi per affermare il diritto di molti a usare la
fantasia e l’ingegno per parlare con altre persone senza limiti
di spazio, di luogo, di tempo e di denaro. Il telefono è un insostituibile
mezzo di comunicazione e di relazione a distanza, che permette
di scavalcare le frontiere per unire tutta l’umanità in una sola,
grande famiglia. Durante le guerre moderne i telefoni hanno fatto
da ponte tra le popolazioni combattenti, mantenendo in vita sottilissimi
fili di unione e di speranza in un futuro senza battaglie. Se
la comunicazione è un diritto inalienabile dell’uomo, e il telefono
è uno strumento indispensabile di comunicazione a distanza, la
pirateria telefonica è una nobile forma di artigianato elettronico
che assicura il rispetto di uno dei diritti fondamentali dell’uomo.
Tesi
numero 7: Pirateria della salute
La
pirateria farmaceutica, ovvero la difesa della salute e della
vita umana quando vengono messe a repentaglio dalle leggi di mercato
e dall’azione delle grandi compagnie farmaceutiche, è un diritto
fondamentale e inalienabile, di fronte al quale tutti i brevetti,
le concessioni governative, le teorie fumose sulla proprietà intellettuale
e il diritto al profitto delle aziende hanno lo stesso valore
della carta straccia. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli
comprende anche il diritto a garantire con ogni mezzo necessario
la propria salute e la propria sopravvivenza, il diritto ad usare
in tutti i modi possibili le conoscenze nate nell’ambito dell’industria
farmaceutica, il diritto a riprodurre in forma autonoma e indipendente
farmaci a basso costo che consentono a parità di risorse di salvare
un numero maggiore di vite umane, anche quando questa produzione
è in contrasto con le restrizioni imposte dalla cosiddetta “proprietà
intellettuale” sui brevetti.
Tesi
numero 8: Pirati di immagini
La
pirateria delle immagini, ovvero il riutilizzo, il recupero, l’accostamento
e la reinterpretazione delle immagini, delle fotografie, dei disegni
e delle illustrazioni prodotte dall’ingegno dell’uomo è un diritto
strettamente col legato al diritto di libera espressione sancito
dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. La pirateria
dei simboli, ovvero la creazione di antipubblicità creativa e
l’utilizzo del marchio di aziende già note per la realizzazione
di nuove opere dell’ingegno, è una forma naturale e legittima
di autodifesa. Questa pratica protegge i cittadini, che rischiano
di essere trasformati in semplici clienti/consumatori, dall’invasione
culturale e dall’inquinamento mentale che quotidianamente vengono
messe in atto dalle aziende globalizzate.
Queste
aziende entrano nelle nostra esistenza bersagliandoci ogni giorno
con migliaia di messaggi pubblicitari, che inquinano la mente
senza il nostro consenso e spesso in modo subliminale, contro
la nostra volontà. Le aziende entrano nella vita dei popoli, e
pertanto i popoli hanno il diritto di entrare nella vita delle
aziende per esercitare la libertà di espressione attraverso il
plagio, il riutilizzo, la deformazione e la ridicolizzazione dei
marchi registrati, dei loghi e delle icone che invadono le nostre
magliette, i nostri televisori, il nostro cibo e strade delle
nostre città.
Tesi
numero 9: Videopirateria
La
pirateria audiovisiva, ovvero la rielaborazione creativa di immagini
e filmati, il rimontaggio artistico e il ridoppiaggio di materiale
video sono una delle nuove forma d’arte strettamente legate alle
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Il riutilizzo
di contenuti video e audio come “materia prima” per la creazione
di nuove opere dell’ingegno, è una nuova forma d’arte che nasce
dalla digitalizzazione dei contenuti multimediali, e come tale
va tutelata e rispettata.
Tesi
numero 10: Arte pirata
La
pirateria artistica, ovvero la produzione di opere d’arte grafica
su muri scrostati, mezzi pubblici, treni, autobus e qualunque
altro genere di superficie adatto ad essere riconvertito in una
tavolozza urbana, è una forma d’arte contemporanea che va incoraggiata,
premiata, stimolata e valorizzata. Il grigiore delle città, abbinato
all’invasione pubblicitaria delle nostre strade, è gravemente
dannoso per il benessere della nostra mente. I graffiti, i murales,
le scritte sui muri, i tag, e tutte le altre opere d’arte metropolitana
sono dei benefici anticorpi che stimolano pensieri colorati e
idee positive in alternativa al grigio caotico delle città che
spinge verso la depressione, l’isolamento e l’apatia.
“Chiunque
installa od esercita un impianto di telecomunicazione senza aver
ottenuto la relativa concessione o autorizzazione è punito, se
il fatto non costituisce reato, con la sanzione amministrativa
pecuniaria da lire 500.000 a lire 20.000.000. [...]
Se
il fatto riguarda impianti di radiodiffusione sonora o televisiva,
si applica la pena della reclusione da uno a tre anni. [...] Indipendentemente
dall’azione penale, l’Amministrazione può provvedere direttamente,
a spese del possessore, a suggellare o rimuovere l’impianto ritenuto
abusivo ed a sequestrare gli apparecchi”.
[Dall’articolo
30 della “legge Mammì”]
Nei
manuali di storia della comunicazione il 21 giugno 2002 verrà
ricordato come una data importante per il nostro paese, un punto
di svolta segnato da una azione di pirateria dell’etere: una trasmissione
“fuorilegge” che porta aria nuova nel panorama televisivo italiano.
Tutto comincia a Bologna, in via Orfeo, dove il giorno del solstizio
d’estate un gruppo di videocorsari decide di accendere un trasmettitore
televisivo a corto raggio che squarcia il grigiore dell’etere
con un “urlo” elettronico. Per la prima volta, dopo decenni di
dittatura dell’insulso, un brivido di terrore percorre la schiena
di nani e ballerine, quizzaroli e velinari, pseudo intellettuali
e giornalisti “di punta”, grandi fratelli e telepiazzisti.
È
da questo brivido che nasce Orfeo Tv, la “tv di quartiere” che
scatena una reazione a catena, coinvolgendo nella sua scia gli
appassionati di libertà e comunicazione che in decine di città
italiane scelgono di regalare una televisione al proprio quartiere.
Bastano
meno di mille euro per le attrezzature necessarie ad unirsi alla
flotta di pirati dell’etere, navigando sulle onde elettromagnetiche
con comunissimi microtrasmettitori a corto raggio, gli stessi
che normalmente vengono impiegati per diffondere il segnale delle
antenne centralizzate all’interno dei condomini.
La
nascita di Orfeo Tv, infatti, fa parte di un progetto più ampio,
basato su una gestione distribuita del potere mediatico: si tratta
del network “Telestreet”, che oggi raccoglie qualche decina di
tv di quartiere e un sito internet dove chiunque può improvvisarsi
editore e produttore di se stesso, procurandosi le istruzioni
tecniche e i consigli legali per installare in casa un piccolo
“studio di trasmissione”.
“Siamo
telespettatori con teleaspettative”, raccontano i pirati delle
tv di quartiere, che hanno risvegliato il sottobosco delle tecnologie
dormienti per trasformare in strumenti di ribellione i videoregistratori
domestici colonizzati da Blockbuster e le microtelecamere che
accumulano polvere negli scaffali tra un matrimonio e l’altro.
Questo
approccio libertario alle telecomunicazioni nasce dal fortunato
matrimonio tra la cultura della “generazione internet”, nata in
un “ciberspazio” senza gerarchie dove ogni sito è uguale agli
altri, e le “controculture” degli anni ‘70 che hanno dato vita
alla stagione delle “radio libere” e alle prime Tv locali che
hanno spezzato il monopolio Rai, esperimenti che purtroppo oggi
vivono un tragico riflusso.
Chi
ha resistito si è rinchiuso in una nicchia con pochi ascoltatori,
chi ha ceduto al mercato ha trasformato i propri sogni di libertà
in contenitori pubblicitari, televendite e chatline erotiche.
Ma
queste esperienze hanno continuato per anni a ricordarci che la
pirateria televisiva e radiofonica non è un’azione velleitaria
per sognatori illusi, ma è al contrario il fondamentale e indispensabile
atto di ribellione che nel nostro Paese ha permesso la nascita
del moderno sistema radiotelevisivo, producendo come effetti di
questa ribellione le sentenze della Corte Costituzionale che nel
1974 e nel 1976 hanno sancito l’illegalità del monopolio statale
sulle trasmissioni via etere.
L’avvento
delle nuove tecnologie digitali ha portato l’onda comunicativa
ed elettromagnetica dei pirati dell’etere in una nuova fase di
“alta marea”.
Il
“popolo delle videocamere”, che ha trasformato la contestazione
al G8 genovese in uno degli eventi più filmati nella storia della
comunicazione di massa, è ormai lanciato alla conquista dell’etere,
quartiere dopo quartiere. La pirateria delle antenne nata in questi
ultimi anni ha il potere di risvegliare dalla lobotomia televisiva
un pubblico passivizzato, affiancando alle televendite e alle
veline che infestano i teleschermi le videoproduzioni indipendenti
rimaste “confinate” tra gli addetti ai lavori o diffuse solo su
internet.
La
produzione di queste piccole emittenti attinge a piene mani dalla
strada, trasformando il flusso televisivo, finora unidirezionale,
in un circuito aperto agli scambi tra diverse tv di quartiere
e ai contributi di chi vive, abita e lavora nei paraggi delle
emittenti. Da casalinga di Voghera ad anchorwoman di Voghera il
passo è più breve di quanto sembri. Sulla scia di
Orfeo Tv sono nati esperimenti come “Telecitofono” di Reggio Emilia,
che ritrasmette a tutto il quartiere i messaggi che i cittadini
depositano sul videocitofono dell’emittente, “Nomade Tv” di Milano,
piazzata sul tetto dello storico circolo anarchico “Ponte della
Ghisolfa”, oppure “Telefabbrica” di Termini Imerese, nata per
raccontare le lotte degli operai Fiat e subito oscurata dai referenti
locali del ministro Gasparri, che hanno bloccato le attività dell’emittente
a soli tre giorni dall’inizio della programmazione. La potenza
dell’impianto di Telefabbrica, come avviene per tutte le “telestreet”,
era paragonabile a quella di un Walkie Talkie giocattolo, e le
trasmissioni coprivano un raggio di appena cento metri, insignificanti
per l’emittenza commerciale ma sufficienti per una buona comunicazione
sociale, diretta a centinaia di famiglie che ricevevano dai diretti
interessati notizie e approfondimenti sui problemi di Termini
Imerese e sui diritti dei lavoratori. In Campania un’azione
di pirateria dell’etere ha portato le immagini di una partita
del Napoli nella zona di Scampia, un luogo tra i più degradati
del napoletano. La partita del primo febbraio 2004 è stata preceduta
da una “distribuzione lampo” di volantini che indicavano la frequenza
su cui sintonizzare il televisore per guardare la partita. Il
gruppo di videoattivisti protagonista di questa scorribanda nell’etere
ha adottato la sigla Ma.Gi.Ca Tv, con un chiaro riferimento al
“tridente” della stagione d’oro del Napoli (Maradona, Giordano,
Careca). C’è chi definirebbe questa azione un “furto”, ma siamo
proprio sicuri che la diffusione di un segnale elettronico, che
non ha intaccato di un centesimo il capitale dei grandi network
satellitari, sia paragonabile ad una sottrazione di beni materiali?
È
invece vero il contrario, e cioè che la sottrazione del campionato
di calcio alla libera visione ha creato una ingiusta suddivisione
tra chi può permettersi un costoso abbonamento e gli abitanti
dei quartieri più poveri delle città italiane, che comunque
non avrebbero potuto pagare la visione della partita anche se
Ma.Gi.Ca. Tv avesse deciso di non regalare al proprio quartiere
una partita del Napoli.
All’interno
dello “Studio Zelig”, un laboratorio artistico di Senigallia autogestito
da un gruppo di persone disabili, è nata la telestreet “Disco
Volante”, che con le sue attività trasforma in videogiornalisti
e conduttori televisivi dei soggetti “diversamente abili” che
non sarebbero mai stati valorizzati dalla televisione commerciale.
Assieme a “Disco Volante” nascono nuovi spazi di espressione e
di azione sociale per uomini e donne abitualmente ignorati o rappresentati
con schemi di tipo assistenzialistico e pietistico, senza che
nessuno dia loro la possibilità di prendere la parola in prima
persona.
Disco
Volante comincia a produrre in proprio diversi servizi sulle problematiche
del quartiere e della città, e li diffonde via etere nel piccolo
raggio d’azione dell’emittente: servizi sulle condizioni di vita
degli immigrati extracomunitari, sulla condizione giovanile e
sui problemi ambientali, raccogliendo e realizzando le proposte
dei cittadini per nuove trasmissioni. Franco Civelli, redattore
disabile della telestreet Disco Volante, vince il Premio per il
giornalismo televisivo “Ilaria Alpi”, nella sezione dedicata alle
tv locali, con un’inchiesta sulle barriere architettoniche di
Senigallia. Dopo la messa in onda del servizio, l’amministrazione
comunale provvede a rimuovere alcune delle barriere architettoniche
segnalate da Civelli, ma nel frattempo, a poche settimane dall’inizio
delle trasmissioni, Disco Volante viene oscurata dalla Polizia
Postale.
Scatta
così una azione penale a carico dei responsabili dell’emittente,
“colpevoli” di aver fatto per poche settimane in un piccolo quartiere
quello che Retequattro ha fatto per anni su scala nazionale con
l’appoggio di vari governi: trasmettere un segnale video senza
una concessione “ufficiale” del ministero delle comunicazioni.
La legge Maccanico del 1997, infatti, ha trasformato l’emittente
di Emilio Fede in un “esubero” che avrebbe dovuto traslocare sul
satellite, salvato solamente dalla compiacenza dei governi di
vario colore che si sono succeduti a partire da quella legge.
In Italia non c’è mai stata una vera e propria “assegnazione”
delle frequenze, un “piano regolatore dell’etere” realizzato in
base a quanto previsto dalla legge, ma c’è stata semplicemente
una “spartizione” delle frequenze televisive, arraffate da chi
è riuscito ad occuparle prima degli altri. La legge Mammì ha portato
alla legittimazione della situazione già esistente, con il riconoscimento
di una patente di legalità a chi già trasmetteva. Chi è arrivato
dopo è un fuorilegge, un pirata.
In
questo scenario chi afferma il diritto all’obiezione di coscienza
televisiva attraverso azioni di pirateria dell’etere rischia la
galera, così come è capitato a chi prima del 1972 rivendicava
il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare successivamente
riconosciuto dalla Corte costituzionale.
Di
fronte alla “televisione blindata”, che non riconosce spazi alla
società civile, i pirati dell’etere hanno scelto di rischiare
in prima persona una con danna penale per poter rialzare la testa
di fronte al potere mediatico, per affermare il diritto di parola
e di espressione anche attraverso il video, permettere in discussione
la televisione commerciale che ci opprime, per creare una alternativa
al mercato che ci vorrebbe trasformare in spettatori passivi e
tubi digerenti da esporre alla violenza pubblicitaria.
La
pirateria dell’etere bandita dalla legge è l’ultimo baluardo della
legalità costituzionale, un promemoria vivente per chi si ostina
a non dimenticare che in Italia, secondo la Costituzione, tutti
hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero “con la parola,
lo scritto, e ogni altro mezzo di diffusione”, è il sussulto di
dignità di chi si ostina a considerarsi un cittadino e non un
suddito, e non ha paura di rischiare per affermare un altro modello
di comunicazione televisiva e per sfidare il duopolio di Sipra
e Publitalia, i centri di raccolta pubblicitaria che guidano l’attività
di Rai e Mediaset, e di riflesso la cultura nazionale.
I
pirati dell’etere lottano contro i baroni della televisione in
questa “zona grigia” dove le loro attività sono costituzionali
ma illegali al tempo stesso, perché non sono state ancora abolite,
modificate o riscritte tutte le leggi anticostituzionali che piegano
il potere della comunicazione al potere della politica e dell’economia.
Chi
sceglie di usare le tecnologie video per esercitare la libertà
di espressione combatte contro leggi scritte in una preistoria
tecnologica dove non esistevano ancora telecamere professionali
da poche centinaia di euro, personal computer che con meno di
mille euro fanno più cose delle stazioni di montaggio che
qualche anno fa costavano centinaia di milioni, collegamenti internet
a larga banda che permettono di scambiare contenuti video in pochi
minuti da un capo all’altro dell’Italia e del mondo.
Questa
sensibilità non è più confinata al mondo degli “addetti
ai lavori”: oggi è sempre più diffusa la percezione che
un sito internet senza un direttore responsabile o una Tv di quartiere
senza concessione ministeriale sono degli strumenti di microcomunicazione
che hanno la stessa legittimità e lo stesso diritto all’esistenza
dei volantini non registrati come testata giornalistica che affollano
le nostre piazze e le nostre manifestazioni. Una televisione
come un volantino? Sembra un’assurdità, ma oggi la tecnologia
ci dice il contrario. Con i mille euro necessari all’acquisto
di un piccolo trasmettitore “a corto raggio”, dalla potenza pari
a quella di un walkietalkie giocattolo, si possono sfruttare i
cosiddetti “coni d’ombra”, le frequenze non utilizzate dai network
televisivi nazionali. Quanti volantini si potrebbero fare con
la stessa somma di denaro? A conti fatti una tv di quartiere è
uno strumento molto più economico di un volantino, ma purtroppo
le leggi sono ancora scritte pensando ad un’epoca in cui le televisioni
erano ancora giocattoli per miliardari e non strumenti alla portata
di qualunque gruppo di cittadini organizzati.
Le
“Tv di quartiere” non interferiscono con trasmissioni già esistenti,
sfruttano i coni d’ombra e gli “spazi vuoti” dell’etere non ancora
regolamentati, non hanno scopo di lucro ma finalità di comunicazione
sociale, non causano problemi di elettrosmog a causa della ridottissima
potenza di trasmissione, affermano nella pratica alcuni principi
etici fondamentali come il diritto alla libera produzione di cultura,
sancito perfino dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo,
secondo la quale “ogni individuo ha diritto di prendere parte
liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle
arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”.
I pirati televisivi di oggi, che sono in realtà i pionieri della
comunicazione di domani, vogliono affermare una verità elementare
e banale: l’etere, come l’aria, è un bene comune a disposizione
di chiunque voglia far “respirare” le proprie idee.
Tra
i pirati “storici” che hanno lanciato nell’etere idee di libertà
e di cambiamento non ci sono solo i ribelli delle moderne telestreet,
ma anche Peppino Impastato, che nel 1977 con la sua “Radio Aut”
ha fatto più paura della Polizia alle strutture di potere mafioso,
denunciando quotidianamente i delitti e gli affari dei mafiosi
di Cinisi e Terrasini che avevano un ruolo di primo piano nei
traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto.
Il programma di punta della radio era “Onda pazza”, trasmissione
satirica con cui Peppino sbeffeggiava mafiosi e politici.
Anche
Danilo Dolci, uno dei pionieri della lotta nonviolenta in Italia,
due anni dopo il terremoto del Belice del ‘68 attiva “Radio Libera
Partinico”, la prima radio pirata italiana. Attraverso la radio
Danilo denuncia le malefatte, le inadempienze e le omissioni del
potere che dimenticava i terremotati del Belice e li truffava
regalando i soldi ai faccendieri. Dopo aver circondato la casa
in assetto antisommossa, le forze dell’ordine sfondano la porta
della radio e arrestano il pirata Danilo che aveva ancora il microfono
in mano. La storia si ripete nel corso degli anni, con i
microfoni di “Radio Alice” oscurati dalle forze dell’ordine durante
la contestazione del ‘77 e quelli di “Radio Gap” spenti nel 2001
durante la contestazione al G8 di Genova, proprio mentre all’interno
della scuola Diaz/Pertini decine di poliziotti in assetto antisommossa
lasciano sul campo 80 feriti e tre prognosi riservate.
Un’altra
storica radio pirata italiana è Radio Milano International, nata
nel capoluogo lombardo il 10 marzo 1975 grazie alla fantasia e
al coraggio di tre ragazzi allora ventenni: Rino Borra, Piero
Cozzi e Nino Cozzi, che installano i loro studi a pochi metri
dalla stazione centrale. Il 14 marzo, a quattro giorni dall’inizio
delle trasmissioni, le autorità sequestrano gli impianti e oscurano
l’emittente, ma il 26 aprile dello stesso anno il pretore di Milano
Cassala dichiara con una storica sentenza che “è pienamente legittima
l’attività di trasmissioni radiofoniche come quella di Radio Milano
International fino a quando non si determinano interferenze che
possano nuocere o disturbare la ricezione delle normali emittenti
di Stato”. Questa azione di pirateria dell’etere apre nuove
strade per la comunicazione italiana: il panorama radiofonico
italiano si svecchia, esplode il fenomeno delle radio private,
nell’aria circolano voci nuove e informazioni locali, si creano
nuove opportunità di lavoro e nascono nuove professionalità.
È
dalla stagione della pirateria radiofonica che nasce l’idea di
“Televisione privata”, un’altra rivoluzione copernicana che porterà
innovazione tecnologica (il colore fu inaugurato dalle TV private
prima che dalla RAI) e lavoro, cambiando letteralmente il linguaggio
ingessato della televisione di stato italiana.
Ma
la storia delle radio pirata è molto più antica, come testimonia
l’esperienza di “Radio Caroline”, l’emittente che nel 1964 accende
i suoi trasmettitori su una barca al largo delle coste inglesi,
rigorosamente al di fuori dalle acque territoriali, per rompere
con un segnale radio lanciato nel cielo il monopolio della BBC.
Il vascello pirata di Radio Caroline innalza con fierezza la sua
antenna come una moderna bandiera corsara in un’epoca della storia
dove ogni paese d’Europa aveva una sola stazione radiofonica nazionale,
e chiunque provava a trasmettere qualcosa di diverso dai programmi
delle radio di stato era considerato un fuorilegge.
Il
pirata che sfida la BBC è Ronan O’Rahilly, un appassionato di
musica che dà vita ad una casa discografica per diffondere la
musica di artisti del Rhytm & Blues che all’epoca non trovavano
nessuno disposto a produrre i loro dischi. La BBC si rifiuta di
mandare in onda la musica troppo “trasgressiva” prodotta da O’Rahilly,
che si rivolge perfino a Radio Lussemburgo collezionando un altro
fallimento: tutti gli spazi radiofonici erano occupati dalle grandi
case discografiche dell’epoca.
È
così che nasce l’idea di trasmettere “in proprio” la musica sgradita
alle radio di stato, e Ronan sceglie di abbracciare la carriera
di pirata per diffondere nell’etere i suoni e le melodie delle
etichette indipendenti che non trovavano posto nel sistema radiofonico
dell’epoca. O’Rahilly inizia a raccogliere informazioni sulla
radio “Voice of America”, installata a bordo del vascello statunitense
“Courier” e su altri esperimenti di radio “offshore” come Radio
Veronica, che trasmetteva al largo delle coste olandesi per aggirare
un monopolio sulle trasmissioni simile a quello britannico. L’idea
del giovane produttore discografico è di trasmettere dal mare
la musica dei suoi artisti, sfruttando il fatto che la legge britannica
valeva solo fino a tre miglia dalla costa, e le uniche leggi in
vigore al largo erano quelle del paese in cui la barca era registrata.
Nel
giorno di Pasqua del 1964, dagli studi costruiti a bordo del vascello
pirata “Caroline” parte un annuncio che cambia la storia dei media:
“questa è Radio Caroline sul canale 199, la vostra stazione di
musica per tutto il giorno”. Pochi secondi dopo, un disco dei
Rolling Stones trasmesso dalla Caroline cambia per sempre i gusti
musicali dell’Inghilterra, e apre ufficialmente la stagione del
Rock’n’roll.
Oggi
il nuovo mare frequentato dalle radio pirata è il Ciberspazio
delle reti telematiche, dove i navigatori più esperti possono
fare rotta verso le seimila radio che trasmettono su internet
da tutto il mondo, e attirano ogni giorno un numero di ascoltatori
pari al doppio di quelli delle radio italiane. Le radio
che vivono in rete, e raggiungono ogni angolo del mondo senza
elettrosmog, tralicci o antenne, sono già entrate nel mirino delle
case discografiche e delle lobby che vorrebbero trasformare anche
queste emittenti in limoni da spremere per ottenere più soldi,
ma per il momento nessuno è stato capace di imbrigliare la musica
che viaggia sul web. Se gli Stati Uniti obbligano al pagamento
di una tassa per ogni brano trasmesso, la radio può “traslocare”
su un nodo internet di Panama o delle isole Tuvalu, così come
i vecchi vascelli delle Radio Offshore battevano bandiere di altri
stati dove le leggi sulle trasmissioni radio erano meno repressive.
I
pionieri delle webradio pirata combattono la loro battaglia per
liberare l’arte musicale trasmettendo su internet segnali che
uniscono le popolazioni del mondo in un unico, grande pubblico
di appassionati: gli ascoltatori delle webradio non si riconoscono
più in una bandiera, in una idea di patria o in una identità nazionale,
ma appartengono a “popoli” che hanno come segno distintivo i gusti
musicali: il popolo del jazz o quello della musica classica sono
dei veri esempi di fratellanza universale capace di abbattere
le barriere che portano in guerra i paesi del mondo.
Affacciandosi
su questo mondo, dove basta un computer e un collegamento internet
per trasformarsi in deejay planetari, si ha la sensazione di trovarsi
davvero nel villaggio globale della musica, con generi che vanno
dalle colonne sonore al punk, dalla musica sinfonica all’hiphop,
dal gospel alla musica etnica, dal new country al drum and bass.
Per gli amanti del jazz c’è smoothjazz.com, una webradio californiana
che trasmette dalla baia di Monterey con uno stile elegante e
raffinato, mukulcast.com trasmette dalla Corea le top hits del
momento e dall’italianissima Terni partono i suoni meditativi
di Radio Krishna Network. E tutto questo è solo l’inizio.
“Nei
prossimi mesi i pirati musicali si devono aspettare le nostre
denunce. Colpiremo direttamente con azioni penali e civili coloro
che condividono file in rete, utenti del peer to peer illegale”.
[Enzo
Mazza, direttore generale FIMI Federazione dell’Industria Musicale
Italiana.
Dichiarazione
del febbraio 2004]
Ho
scoperto la verità, la luce.
E
adesso desidero che tutte le persone del mondo, bianche o nere,
giovani o anziane, di qualunque religione o credo politico, tutte
possano beneficiare della folgorazione che mi ha illuminato sulla
via di internet. Voglio raccontare la mia esperienza perché so
che, con il mio esempio concreto, anche altri potranno abbandonare
il mondo di tenebra in cui sono immersi senza rendersi conto che
vi sono più cose nel computer di quante se ne sognano in cielo
e in terra (William Shakespeare, “Amleto”, Atto I, Scena V).
Partirò
dalla mia infanzia.
Sono
stato educato al rispetto dei comandamenti cristiani (non rubare),
al rispetto della legge (impossessarsi delle cose altrui è reato,
art. 624 C.P.) e persino al rispetto della legge dei boyscout
(sii leale).
Sono
cresciuto senza commettere alcuna azione illecita, anzi da piccolo
rubavano a me le merendine o il pallone. Ho persino tentato di
impedire furti da parte di terzi, sull’autobus per esempio, ricevendo
in cambio minacce in dialetto locale dal reo e l’indifferenza
dalla vittima mancata. Al tempo stesso sviluppavo una certa
diffidenza nei confronti del progresso. Sarà stato per una vocazione
ambientalista trasmessami dallo scautismo, sarà stato per un attaccamento
alle tradizioni ereditato in famiglia, sarà stato per istinto,
ma — senza saperlo — ero, nel mio piccolo, un precursore dello
“sviluppo sostenibile”. Qualunque cosa significhi.
Usavo
ed uso poco l’automobile, considero non casuale la coincidenza
sottolineata da Luciano Di Gregorio tra la parola cellulare intesa
come telefonino e la parola cellulare intesa come mezzo di traduzione
dei detenuti (e
a tutt’oggi il telefonino non ce l’ho) e vedevo nel personal computer
una minaccia per l’umanità: uno strumento complicato da usare;
il responsabile di tanti licenziamenti; un asettico contenitore
di parole che nulla aveva a che vedere con l’odore, il fruscio
e la polverosa poesia dei libri; l’oggetto di tante conversazioni
“elitarie” tra amici più esperti che mi mandavano in bestia quando
usavano parolacce come basic, giga, harddisk... Avevo, modestamente,
una bella scrittura, comprensibile, ed una gestione ordinata dello
spazio del foglio. Il computer per me era inutile; era, tutt’al
piú, una costosa e superflua versione della macchina per scrivere.
“Il computer a me non serve” — affermavo allora con solide certezze.
Al liceo e all’università non mi era mai servito. D’altra parte
i miei genitori mi avevano iscritto al liceo scientifico; figurarsi
se c’era spazio per l’informatica togliendo ore, magari, al latino...
Ma
quando venne il momento di scrivere la tesi, fui costretto a rapportarmi
con questo minaccioso elettrodomestico. Andavo quotidianamente
a casa di mia sorella, che, pazientemente, mi insegnò come accenderlo
e come usare il programma di videoscrittura. Forse da qualche
parte conservo ancora il foglietto su cui mi ero annotato le procedure
di accensione e di spegnimento, temendo che un eventuale errore
avrebbe potuto provocare l’esplosione del computer, una reazione
termonucleare, l’estinzione del genere umano e soprattutto la
perdita dei dati della mia tesi. Però non era difficile.
“Lo
userò come una macchina per scrivere” — mi ero ripromesso in quello
che sarebbe stato il secondo di una lunga serie di proclami destinati
a evaporare come la tenuta di Clemente Mastella in una coalizione.
Era
una strana macchina da scrivere, devo dire. Era comodo poter cancellare,
correggere, ampliare e tagliare senza dover riscrivere tutto il
foglio. Era bello vedere le proprie parole scritte nei caratteri
usati dai libri o dai giornali veri.
Era
inebriante.
Discussi
la tesi a giugno e nell’autunno dello stesso anno acquistai il
mio primo computer. Pian piano nel computer iniziai a scriverci
di tutto. Dai diari dei miei viaggi ai numeri di telefono della
mia rubrica, dal curriculum alla classifica dei film più belli
che avevo visto, dai documenti utili per il lavoro a carte intestate
finte per fare scherzi. Tutto. Rientrare a casa ed accendere il
computer era una successione di azioni automatica. Anche se non
avevo in mente di scrivere niente. Ma in fondo c’era sempre qualcosa
da scrivere. Dovevo fornire a mia madre (che stava scendendo a
fare la spesa) il nome del deodorante che mi era finito? Lo scrivevo
al computer, mica glielo dicevo a voce...
Era
il 1995. Internet già esisteva, ma la usavano in pochi. Ricordo
che, alla vigilia di un concorso, pernottai a Bologna a casa di
amici. Tornando dalla pizzeria, uno di essi si rese disponibile
a mostrarci questa famosa internèt, con l’accento sull’ultima
“e”. Avevamo sonno ed eravamo già a letto mentre costui collegava
strani fili, smanettava sulla tastiera e produceva suoni mai sentiti
prima. C’erano dei problemi. Di connessione, forse. Di affollamento
della rete, sosteneva l’esperto.
Mi
addormentai convinto che internet fosse un bidone.
Di
internet iniziò a parlarmi con una certa insistenza anche un altro
amico. Ne parlavano ormai anche i giornali e le televisioni. Mi
ero fatto una mia idea. Era un’idea a metà tra il distaccato e
il catastrofico. Da un lato ritenevo il web un inutile gioco per
adulti immaturi alla ricerca del superfluo, di surrogati della
realtà, di disperati che chattano on line, di pedofili; dall’altro
lato vedevo internet come un diabolico strumento di controllo
delle nostre azioni, delle nostre scelte, delle nostre opinioni
e dei nostri file. Un Grande Fratello poteva accedere, senza che
noi ce ne accorgessimo, nei nostri computer.
“Internet
non mi interessa e non lo userò mai” — fu il mio terzo proclama.
Però molte altre cose mi interessavano: viaggiare, la politica
del Medio Oriente, le iniziative dei miei concittadini sparsi
per l’Italia, la storia serba, il materiale per il mio lavoro
e per i miei passatempi, le tradizioni arberesh. Tutto questo
esiste nella realtà ma non si trova dietro l’angolo.
È
difficile da trovare. Su internet è un po’ più facile.
Ma
forse internet richiede competenze particolari? No, ad internet
— mi mostrarono alcuni amici — si accede spostando un paio di
volte il mouse e cliccando altrettante volte un tasto. Il timore
di non possedere adeguate nozioni aveva ed avrebbe ancora continuato
a compromettere il mio approccio con l’informatica.
Mi
collegai ad internet. Il sistema a casa mia era un po’ artigianale
e l’attrezzatura comprendeva un filo telefonico lungo sette metri,
perché la presa era distante, ed un precario apparecchio telefonico
usato solo per questo scopo. La lentezza era oggettivamente esasperante,
ma soggettivamente, per me, adeguata. Potevo vedere le nuvole
sopra Sarajevo, sapere che la bomba di Hamas esplosa a Netanya
non aveva alterato i bei lineamenti dell’impiegata della “Hertz”
di piazza Indipendenza, scoprire che Balasevic aveva finito un
altro disco. Per me era già molto.
“Internet
va bene, ma di posta elettronica neanche a parlarne.
È
contro la privacy”.
Questo
fu il proposito che durò meno degli altri. Fu solo una questione
di giorni, forse di ore. Per me che già interpretavo come un miracolo
il fax, ossia un foglio che spedito da un luogo può comparire,
uguale, dall’altra parte del mondo, l’idea di poter inviare le
mie parole a Palermo o a Tallinn, magari contemporaneamente e
a costo quasi zero, fu subito stuzzicante e coinvolgente.
È
andata a finire che pochi mesi dopo, nell’ambito di una mailing
list professionale, ho scambiato email con uno che lavora al piano
di sotto del mio ufficio e che vedo quotidianamente. “Mi dai il
numero telefonico di tizio?” — mi chiese un giorno. “Stasera te
lo mando via email” “Ma che cavolo dici? Non puoi guardare adesso
nell’agenda che tieni in mano...?” A parte conversazioni surreali
come quella di cui sopra, però, le email possiedono la capacità
di rendere più cordiali i rapporti interpersonali. Immaginate
un’agenzia viaggi bielorussa, ossia di un Paese in cui è ancora
necessario ottenere un invito formale per chiedere poi le prenotazioni
alberghiere e quelle dei titoli di viaggio e successivamente il
visto. Solo via email sarebbe stato possibile scegliere un treno
notturno Varsavia - Minsk invece di uno diurno sulla base di osservazioni
— da parte dell’impiegata bielorussa — del tipo: “Ti consiglio
il treno notturno così puoi dormire come un angioletto...” Avrebbe
scritto la stessa cosa in una lettera ordinaria formale? Chissà
se la posta elettronica riuscirà finalmente a schiantare anche
il burocratese della nostra pubblica amministrazione. Sinceramente
ne dubito.
E
siamo all’ultimo stadio. La musica. Esistono programmi per mezzo
dei quali si possono scaricare via internet canzoni e persino
film. Ne sentivo parlare da un po’ di tempo in articoli che evidenziavano
i danni arrecati dalla pirateria e la minaccia alla sopravvivenza
dei diritti d’autore. Un dibattito interessante. Ma qui entravano
in gioco i miei ideali di legalità a cui facevo riferimento all’inizio
del mio racconto.
Ero
a casa di un amico, che, peraltro, da tempo mi sollecitava ad
acquistare uno strumento informatico più al passo con i tempi.
Tardo pomeriggio.
Lui
era seduto davanti al computer, collegato ad internet, ed io ero
disteso sul letto, lontano dal monitor. Si parlava distrattamente
di politica, dunque di ladri e infine di tecnologia.
Napster.
Ne avevo sentito parlare e mi ero fatto un’opinione precisa.
Con una certa prosopopea espressi il mio pensiero; ricordo ancora
le parole precise, una per una: “Non capisco perché se rubo un
cd da un negozio di dischi commetto un reato, mentre se lo scarico
da internet deve essere legale. Per me è la stessa cosa”.
Ed ero talmente convinto di essere nel giusto che non prestai
molta attenzione alle argomentazioni del mio amico ed oggi, infatti,
non le ricordo nemmeno.
Ricordo,
però, che il mio amico mi chiese il nome del mio cantante serbo
preferito, quello di cui in Italia non è mai arrivato un disco.
Il mio amico scaricò canzoni di Djorde Balasevic, poi toccò a
Shlomo Artzi e quindi ad Anna German. Non potevo crederci. Improvvisamente
non era più necessario andare a Belgrado o a Tel Aviv o a Varsavia
per procurarsi certe canzoni. Erano lì. Nel computer.
“C’è
anche questa canzone?” — e dissi il nome di una canzone lituana.
C’era.
“E
questa cantante?”
C’era
anche quella.
“Copia,
copia!”
Copiammo
tutta la sera e poi tutta la notte, ma era ancora poco. Avrei
dovuto prepararmi con una lunga lista di richieste precise perché
il tempo stringeva e il giorno dopo avrei dovuto prendere il treno.
“Scarica! Non perdiamo tempo, scarica! Scarica tutto, dannazione!”
“Ma
— mi canzonò l’amico — scaricare da internet non è come rubare
in un negozio di dischi...?” Rubare... Che parola grossa. Al massimo
è un riequilibrio autogestito dei prezzi del mercato dei dischi,
che sono veramente scandalosi. Rubare, pirateria... Chiamiamolo,
piuttosto, intervento antiinflazionistico, ma non è neanche questo.
È
una specie di esproprio proletario.
È
un modo per attaccare le multinazionali. Rubare... Che c’entra?
Anzi, c’è una positiva ricaduta sociale e culturale. Il mondo
si avvicina; possiamo aprirci alla conoscenza di altre culture.
Contaminazioni, si usa dire. Rubare? La musica scaricata da internet
è uno strumento di fratellanza universale. “C’è la parola adatta,
perché non la dobbiamo usare?” — sosteneva un personaggio di Eduardo
De Filippo
(che,
invero, voleva esprimere
il
concetto esattamente opposto al mio...). Ce ne sono tante di parole
più adatte, altro che rubare o pirateria.
Adesso
ho un nuovo computer, scelto sulla base di nuove e mutate esigenze.
È
una sorta di stazione multimediale e c’è un programma che si chiama
“eMule”. Sono in attesa della linea Adsl. Ovviamente ho scelto
l'opzione che mi consentirà di collegarmi 24 ore su 24 ad un canone
fisso. Però, nell’attesa, non resisto e sto già acquisendo, espropriando,
riequilibrando il mercato, colpendo le multinazionali. Praticamente
sono già collegato 24 ore su 24 e non esco più di casa. Mi portano
il cibo attraverso la finestra.
Guardo
con compassione quei tecnoanalfabeti che ancora mettono piede
nei negozi di dischi. Questo, veramente, succede soprattutto quando
sono lontano dalla mia città perché qui i cosiddetti “cd fatti
in casa” sono da tempo un’affermata tradizione e nei negozi di
dischi ci vanno soltanto gli ispettori della Finanza insospettiti
da dichiarazioni dei redditi alquanto prossime allo zero.
Il
termine “pirateria” suona delicato e soave alle mie orecchie e
lo associo ad una legittima forma di redistribuzione delle risorse.
E poi alcuni pirati erano degli eroi. Sandokan, per noi ragazzi,
era un modello positivo: per questo ho anche televotato per salvare
Kabir Bedi dall’eliminazione nell’isola dei morti di fama.
Se
mi chiedete le caratteristiche tecniche del mio computer, non
vi saprei rispondere. Ma so a cosa mi serve e so che cosa voglio.
Voglio tutto. Canzoni, film, tutto. Voglio un nuovo programma
informatico che mi porti a casa le orchestre ed i cantanti. Non
mi basta sentire la loro musica; devono materializzarsi e suonare
dal vivo sulla mia scrivania. Voglio che resusciti Ofra Haza.
Voglio
tutte le canzoni del mondo dalla notte dei tempi ad oggi ed anche
quelle del futuro. Ne ho diritto. Bisogna scriverlo nella Costituzione
europea: siamo un libero spazio di scambi commerciali ed un mercato
comune. Anzi, il mercato deve tener conto delle priorità
sociali e la priorità sociale assoluta è la condivisione gratuita
della musica internazionale in un’ottica di fratellanza universale.
Domani
ho un appuntamento; devo andare all’ASL. Se mi trattengono al
Dipartimento delle Dipendenze Patologiche, siate voi a promuovere
questa nuova visione del mondo e diffondetela tra coloro che vivono
ancora nelle tenebre.
“Oggi
voglio parlare di musica e pirateria. Cos’è la pirateria?
È
quello che fa chi ruba il lavoro di un artista senza la minima
intenzione di pagare per quel lavoro. Non mi riferisco ai programmi
tipo Napster per lo scambio di musica, ma a quello che fanno le
grandi etichette discografiche”.
[Courtney
Love, cantante]
“In
realtà, Sonny voleva che il copyright durasse per sempre, ma mi
hanno detto che questo sarebbe stato contrario alla nostra Costituzione.
Invito tutti voi a collaborare con me per rafforzare le nostre
leggi sul copyright in tutti i modi possibili. Come sapete, c’è
una proposta che farebbe durare il copyright per sempre, meno
un giorno. Credo che dovrebbe essere presa in considerazione”.
[Discorso
al Congresso USA della vedova di Sonny Bono, estensore del “Mickey
Mouse Copyright Extension Act”]
In
questo preciso istante, attorno a te, nel tuo quartiere, nella
tua città e in ogni angolo del pianeta, milioni di fuorilegge
cospirano nell’ombra per unirsi alla più grande banda di pirati
della storia dell’umanità: sono i pirati di musica, video e software,
che condividono in rete miliardi di file, in ogni secondo di ogni
giorno di ogni mese dell’anno, e già da anni hanno trasformato
internet nel più grande strumento di condivisione della conoscenza
che l’uomo abbia mai avuto a disposizione. Questo grande laboratorio
culturale non dorme mai, e quando i pirati di New York chiudono
gli occhi davanti allo schermo a notte fonda, quelli di Tokyo
sono già pronti a sostituirli davanti al sole del nuovo giorno.
I
nemici che vorrebbero ostacolare questa affascinante avventura
non sono gli artisti, ma le aziende che controllano lo sfruttamento
delle loro opere, uomini gretti e meschini che non hanno abbastanza
genialità per creare bellezza e usano quel poco che hanno per
creare profitto dal genio altrui. Al contrario di quanto accade
con i piccoli uomini avidi che trasformano le idee in denari,
il viaggio dei pirati nel mare della libera conoscenza e delle
arti visive e musicali ha conquistato il cuore di molti cantanti
e cineasti, che hanno abbandonato il lato oscuro della natura
umana per tuffarsi nella ricchezza luminosa della condivisione.
Tra
gli artisti che hanno avuto il coraggio di trasformarsi in pionieri
del nuovo Rinascimento telematico ci sono pirati come Davide Ferrario,
che ha distribuito gratuitamente in rete il film “Le strade di
Genova”, girato a sue spese durante la contestazione al G8, oppure
il regista Michael Moore, che ha dato la sua benedizione allo
scambio su internet del film “Fahrenheit 9/11”, dichiarando che
“le leggi sul copyright non mi piacciono, e chi vuole scambiare
il mio film online faccia pure, purché non ci guadagni sopra.
A quello sarei contrario. Io sto bene così e ho fatto questo film
perché voglio che il mondo cambi. Più gente lo vedrà meglio è,
ed è per questo che sono felice che il film stia circolando.
È
sbagliato che chi compra un film su DVD consenta ad un amico di
vederlo gratuitamente? Certo che no. Non lo è mai stato e mai
lo sarà. Credo che l’informazione, le arti e le idee dovrebbero
essere condivise”.
L’elenco
degli artisti/pirati prosegue con il “rinnegato” dello starsystem
George Michael, che ha annunciato la sua intenzione di distribuire
gratis su internet i suoi prossimi lavori, abbandonando le logiche
commerciali dello showbusiness. Michael ha annunciato che “per
molti anni sono stato pagato profumatamente, e non ho più bisogno
dei soldi del mio pubblico. Sarò un uomo più felice regalando
la mia musica e realizzando qualcosa di positivo”.
I
pirati del progetto musicale “Peace Jukebox”, invece, hanno messo
a disposizione gratuitamente su internet ore ed ore di musica
antiguerra in formato Mp3, annunciando che “questo è il periodo
più prolifico della storia per chi scrive canzoni di protesta
e le tecnologie moderne danno la possibilità di diffondere questa
musica in tutto il mondo”. Gli artisti che si sono uniti al grido
di pace del “Peace Jukebox” comprendono i Public Enemy, The Cure,
Green Day, Lenny Kravitz e molti altri, per una raccolta che comprende
più di 500 canzoni antiguerra gratuite che spaziano tra i più
vari generi musicali.
Le
sperimentazioni di pirateria sonora si spingono fino alle iniziative
estreme realizzate dal “Project Eisbrecher”, un gruppo musicale
di “electronic triprock” che ha allegato al suo ultimo disco due
CdRom vergini, sui quali è riprodotta l’etichetta originale del
Cd, pronti per essere masterizzati come copie “ufficiali” e regalate
ad amici o parenti. Alexx Wesselsky, la leader del gruppo, ha
dichiarato che “non si possono criminalizzare i consumatori di
musica, scaricando su di loro le responsabilità delle corporation
discografiche”.
Tra
gli strumenti sviluppati dai pirati di musica e cultura per la
liberazione delle opere dell’ingegno ci sono le licenze “Creative
Commons”, adottate da tutti gli artisti, i musicisti e gli scrittori
che hanno smesso di considerare le loro opere come dei prodotti
commerciali da vendere, e preferiscono parlare di “beni comuni
creativi”. Queste licenze rivendicano per l’arte la stessa libertà
e diffusione di cui godono altri “beni comuni” come l’aria che
respiriamo, il mare o gli alfabeti e i vocaboli che utilizziamo
per esprimerci, senza dover pagare i diritti d’autore alla Zanichelli
o ad altri produttori di dizionari per ogni lettera o parola utilizzata.
L’idea
di sviluppare delle licenze per la definizione e la condivisione
di questi “beni comuni creativi” nasce dallo studioso statunitense
Lawrence Lessig, docente di diritto dell’università di Stanford,
che il 16 dicembre 2002 mette a punto il primo “set” di licenze
a disposizione di chiunque voglia sottrarre i propri lavori alle
restrizioni del copyright, così come ha fatto l’autore di questo
libro.
L’applicazione
più eclatante di questo sistema di licenze è quella realizzata
nell’ottobre 2004 da un gruppo di pirati musicali che regala al
popolo delle reti i brani di un concerto realizzato a New York
nel mese precedente, proprio per promuovere le licenze di utilizzo
“Creative Commons” come alternativa libera al copyright che ruba
libertà agli utenti e ai fruitori di musica. La carrellata di
artisti che aderisce al progetto comprende il grande compositore
brasiliano Gilberto Gil, chiamato dal governo Lula a ricoprire
l’incarico di ministro della Cultura, e musicisti come i Beastie
Boys, Chuck D with Fine Arts Militia, Cornelius, DJ Dolores, Dan
the Automator, Danger Mouse & Jemini, David Byrne, Le Tigre,
Matmos, My Morning Jacket, Paul Westerberg, Spoon, The Rapture,
Thievery Corporation e Zap Mama.
C’è
chi lotta dal palco per la libertà della cultura, dell’arte e
della musica, e c’è chi è costretto a combattere nelle aule dei
tribunali le sue battaglie di libertà. Nel gennaio 2005 a Seul
si è celebrata una vittoria per i sostenitori del “file sharing”,
la condivisione di musica in rete: un tribunale coreano ha infatti
assolto i due fratelli Yang JungHwan e IlHwan, che avevano ospitato
sul loro sito uno “spazio libero” dove gli utenti potevano scambiare
musica a piacimento alla luce del sole. Secondo i giudici i creatori
del sito, intitolato “Mare di Suoni”, hanno solo realizzato uno
spazio di incontro e di conversazione in rete, e non sono responsabili
per il comportamento degli utenti che hanno deciso di usare quel
servizio per scambiare musica (ammesso e non concesso che questo
comportamento sia un’azione criminale, aggiungeremmo noi). Dopo
aver funzionato per due anni a partire dal 2000, il sito era stato
denunciato da un’industria discografica per violazione del diritto
d’autore e favoreggiamento, e in caso di condanna i fratelli Hwan
avrebbero dovuto trascorrere cinque anni in prigione solo per
aver creato in rete un luogo d’incontro per musicofili determinati
ad esercitare il diritto inalienabile alle copie private senza
scopo di lucro.
Ma
le avventure in tribunale dei pirati di arte e cultura non si
concludono sempre con un lieto fine: Isamu Kaneko, un ingegnere
giapponese di 32 anni, rischia fino a tre anni di galera e una
multa da 25000 euro per “istigazione alla pirateria”. Il “crimine”
di questo programmatore non è stata la violazione del diritto
d’autore, ma la semplice realizzazione di un programma che permette
lo scambio di file tra utenti. Si tratta di “Winny”, un software
pressoché sconosciuto in Europa ma utilizzato da oltre un milione
di giapponesi.
Secondo
il ministero della Difesa giapponese, l’azione di questo programmatore
sarebbe addirittura una minaccia alla sicurezza nazionale, dal
momento che un ufficiale militare ha involontariamente condiviso
attraverso Winny informazioni sensibili come gli orari di lavoro
e i turni dei soldati. Era il programma di Kaneko ad essere talmente
furbo e malizioso da diventare una minaccia o era invece l’ufficiale
ad essere talmente stupido da mettere a repentaglio la sicurezza
nazionale? Sia come sia, il procedimento legale è tuttora in corso,
e Isamu Kaneko rischia di pagare col carcere la sua intelligenza
brillante, la sua voglia di aiutare il prossimo e di farsi aiutare
attraverso lo scambio gratuito e libero di opere dell’ingegno.
Anche
negli Stati Uniti è aperta da tempo la “caccia alle streghe” contro
i pirati dell’arte, e a farne le spese non sono solamente gli
utenti che “osano” aiutare il prossimo condividendo musica e film
senza nessun tornaconto, ma anche chi ha realizzato software sgraditi
al sistema, cioè opere originali dell’ingegno che non vengono
tutelate come quelle che fanno arricchire i potentati mediatici,
ma addirittura possano mandare in galera i responsabili di tali
creazioni “eretiche”.
Il
caso più eclatante di repressione dell’ingegno informatico è quello
di “Dvd Jon”, al secolo Jon Johansen, un benemerito pirata svedese
che ha cominciato a ficcarsi nei guai quando ha deciso di usare
il sistema operativo libero GNU/Linux al posto del più noto Microsoft
Windows. Nessuno aveva scritto un programma per la visione dei
Dvd che fosse in grado di funzionare con il sistema operativo
scelto da Jon, e per guardarsi in santa pace un film, anche regolarmente
acquistato o noleggiato, Jon è costretto a scrivere da solo un
programma adatto alle sue esigenze, ma a questo punto nasce un
problema: per riprodurre un Dvd bisogna sapere che cosa c’è scritto
dentro, e in che modo vengono memorizzate le informazioni sul
disco.
Ma
questo tipo di informazioni è “protetto” (o meglio sottratto agli
utenti) dalle regole ferree del segreto industriale, che rendono
i programmi delle “scatole nere” impossibili da migliorare o da
modificare, un po’ come se le nostre automobili avessero dei motori
ermeticamente sigillati di cui è vietato conoscere il funzionamento,
che possono essere esaminati o riparati solo da personale regolarmente
autorizzato dalla casa produttrice del veicolo e non dal meccanico
sotto casa. Jon decide di infischiarsene di tutte queste regole:
in fin dei conti lui voleva solo scrivere un programma per guardare
un Dvd sul suo computer.
I
sistemi di protezione per nascondere ai comuni mortali i contenuti
dei Dvd, messi a punto con investimenti miliardari dalle grandi
compagnie cinematografiche, si rivelano talmente “sofisticati”
da crollare come un castello di carte in pochi giorni davanti
alla curiosità di un quindicenne. Jon Johansen osa sfidare i padroni
del cinema condividendo in rete le sue scoperte, per migliorare
e rendere più efficace il software necessario per guardare film
con il sistema operativo GNU/Linux, e grazie a lui il mondo scopre
come funziona un Dvd. Nell’ottobre 1999 il velo del tempio hollywoodiano
si squarcia nel mezzo e la sacralità delle “Major” del cinema
viene profanata da un pirata ragazzino.
I
giganti del cinema colpiti a morte dalla genialità di un adolescente
fanno poca differenza tra la realtà e un film di Schwarzenegger,
ed è così che il lungo e traumatico calvario giudiziario di Jon
inizia con una scena di apertura degna di un kolossal hollywoodiano:
agenti di polizia che fanno irruzione nel cuore della notte in
casa del “pericolosissimo” pirata minorenne, che ha minato alle
sue fondamenta la libertà di impresa e di profitto di chi vuol
decidere non solo quali film dobbiamo vedere, ma anche che programmi
dobbiamo utilizzare e quanti anni di carcere ci aspettano se osiamo
aiutare il prossimo condividendo film e musica. Jon viene accusato
di spionaggio industriale, e rischia di passare due anni in galera.
La scure della repressione contro i programmi per accedere al
contenuto dei dvd si abbatte anche su altre persone, che avevano
semplicemente pubblicato su internet il programma realizzato da
Jon. Tra gli imputati c’è perfino gente che aveva inserito sulle
proprie pagine web solo un link a uno dei siti sui quali era presente
il programma “blasfemo” che aveva messo in discussione la sacralità
dei Dvd.
Non
c’è niente di meglio della censura per diffondere rapidamente
un’informazione su internet, e la censura di tutti i siti che
avevano un legame anche labile o indiretto con il programma di
Johansen scatena la fantasia dei pirati di tutto il mondo, che
iniziano a stampare magliette con il codice “incriminato” da esibire
in nome di uno dei principi fondamentali dell’etica hacker: “l’informazione
vuole essere libera”.
L’odissea
di Jon Johansen, il videopirata ragazzino finito nel mirino dei
big di Hollywood, si conclude il 22 dicembre 2003 con l’assoluzione
del pirata svedese più famoso di tutta l’era digitale, ma la vittoria
di questa battaglia lascia comunque aperta la guerra ideologica
e culturale che contrappone uomini ossessionati dal profitto a
ragazzi ossessionati dalla sete di conoscenza, ancora abbastanza
giovani e spavaldi per rivendicare la propria libertà di fronte
alle minacce e alle intimidazioni di chi ha scordato che il cinema
è una forma d’arte, e lo considera solamente una macchina per
spremere soldi al prossimo. Anche a costo di mandare dietro le
sbarre ragazzini che hanno avuto la “colpa” di essere più intelligenti
dei pomposi ingegneri in doppiopetto e camice bianco che hanno
intascato molti chili di dollari per lo sviluppo delle “inattaccabili”
protezioni messe a guardia dei Dvd.
Da
un po’ di tempo a questa parte, qualche pirata più audace degli
altri sta addirittura passando al contrattacco: Downhill Battle,
una organizzazione che combatte la visione ideologica delle “major”
del multimedia e promuove il libero scambio di musica tra gli
utenti della rete, nel gennaio 2005 ha spedito calze piene di
carbone alla Riaa, la
lobby dei discografici statunitensi, e alla Mpaa, l’organizzazione
che rappresenta i big del cinema hollywoodiano.
Per
sostenere le tecnologie peertopeer, che consentono lo scambio
gratuito di musica e film “da pari a pari”, Downhill Battle si
è impegnata a spedire una calza piena di carbone per ogni 100
dollari di donazioni rivolte a tre importanti gruppi statunitensi
che sostengono le libertà civili in rete: Electronic Frontier
Foundation, Public Knowledge e IPac.
La
Riaa è nota per le numerose azioni legali rivolte agli utenti
di sistemi peertopeer dediti allo scambio su internet di file
musicali, e nel New Jersey qualcuno ha pensato di invertire i
ruoli. Una donna ha citato in giudizio la Riaa per l’abitudine
di trascinare in tribunale gli utenti della rete proponendo in
alternativa una specie di “accordo economico” che evita un processo
in cambio di un sostanzioso risarcimento. Molti preferiscono pagare
piuttosto che imbarcarsi in una avventura legale, e gli avvocati
della donna, nel passare al contrattacco contro la Riaa, hanno
sostenuto che le pressioni psicologiche esercitate dalla lobby
dei discografici possono essere paragonabili ad alcune pratiche
tipiche del crimine organizzato, e precisamente quelle descritte
dalle leggi americane contro il racket e il pagamento del “pizzo”.
La
pirateria di musica e video non è solo uno strumento di condivisione
dell’arte, ma è anche un antidoto contro la censura e un potentissimo
strumento di autodifesa contro la cancellazione del passato che
si consuma quotidianamente sotto i nostri occhi. Chi si ricorda
di Pippo che spara ai giapponesi, Topolino che maltratta oche
e porcellini nel suo primo cartone animato del 1928 o di Taddeo
che si fa servire da uno schiavo di colore? La censura di Hollywood
si abbatte anche sui cartoni animati, dove i “reperti” scomodi
o politicamente scorretti vengono lasciati morire su videocassette
che tra trent’anni saranno ormai inservibili, mentre nel nuovo
mondo digitale arrivano versioni corrette e ritoccate all’insaputa
degli spettatori. La denuncia di questa “animazione revisionista”
arriva dal divulgatore scientifico Paolo Attivissimo, che ha diffuso
in rete dettagliate istruzioni per rintracciare le sequenze tagliate
dei cartoni sottoposti a “pulizia”. “Negli anni ‘50 Hollywood
era ancora profondamente razzista — spiega Attivissimo — ma ora
sta cercando di far finta di non esserlo mai stata. Questo si
chiama manipolare la storia”.
Le
leggi del Copyright non sono l’espressione di un diritto naturale
dell’uomo, ma si sono trasformate nel corso degli anni in un vincolo
posticcio manipolato ad arte dalle aziende per assicurarsi il
massimo sfruttamento economico di opere dell’ingegno create da
altri, anche a costo di danneggiare la collettività con l’introduzione
di leggi repressive, o con l’intrusione nella privacy dei cittadini
per determinarne abitudini, comportamenti e modalità di fruizione
delle opere dell’ingegno. Se il copyright fosse un diritto naturale
in vigore dall’alba dei tempi oggi il pianeta sarebbe governato
dagli eredi degli inventori della ruota, che grazie allo sfruttamento
economico della loro fondamentale scoperta avrebbero potuto acquistare
i diritti di sfruttamento di tutte le altre invenzioni dell’uomo,
così come Michael Jackson ha fatto con le creazioni dei Beatles.
Lo
scopo originale del diritto d’autore era quello di promuovere
la produzione di cultura e di opere dell’ingegno liberamente utilizzabili,
concedendo agli autori il diritto esclusivo e limitato nel tempo
di commercializzazione delle loro opere. In questo modo agli autori
viene concesso un margine di vantaggio su altri produttori, che
devono aspettare la scadenza del copyright per mettere in commercio
opere dell’ingegno già pubblicate da altri. Il termine “pirata”
era inizialmente utilizzato per indicare le case editrici che
stampavano edizioni non autorizzate dei libri, senza il consenso
degli autori.
L’accordo
chiamato “copyright”, che in teoria dovrebbe regolare i rapporti
tra i cittadini e gli autori a beneficio della collettività, per
ottenere come risultato una maggiore produzione di arte e cultura,
in pratica si traduce in un sistema di vincoli a beneficio di
alcune grandi compagnie e a danno della cittadinanza. L’idea alla
base di questo accordo è semplice: i cittadini, tramite apposite
leggi, concedono agli autori una maggiore possibilità di guadagno
che si traduce in una maggiore produzione creativa. Cessato questo
intervallo di tempo, però, l’interesse culturale della collettività,
temporaneamente accantonato per garantire agli autori una maggiore
autonomia produttiva, ritorna prioritario rispetto agli interessi
economici dei singoli: le opere dell’ingegno vengono “liberate”
per sempre, e chiunque può utilizzarle, anche a scopi commerciali.
“Guadagna
dei soldi in esclusiva per un po’, ma poi lascia che il mondo
usi liberamente le tue creazioni, e mettiti a produrre qualcosa
di nuovo per guadagnare un altro po’ di soldi. Tutti potranno
accedere alle tue opere, ma inizialmente tu sarai l’unico che
potrà usarle a scopo di lucro”.
È
questo, in sintesi, il principio alla base del copyright, un accordo
stravolto e trasformato in qualcosa di totalmente diverso quando
le aziende si sono sostituite agli autori per lo sfruttamento
economico delle opere di ingegno. Un approccio equilibrato
al copyright dovrebbe punire solamente le copie non autorizzate
fatte a scopo di lucro, per creare mercati paralleli destinati
alla vendita delle opere dell’ingegno, e non il libero scambio
di materiale per uso personale. La solidarietà tra cittadini è
più importante del copyright, e quando i principi del copyright
vengono stravolti al punto da risultare dannosi per una collettività,
che viene costretta a non aiutare il prossimo negando la condivisione
delle opere dell’ingegno, questa collettività deve avere il coraggio
di mettere da parte le regole del copyright per affermare le regole
della civile convivenza, che vanno dal prestito di una tazza di
zucchero al vicino di pianerottolo fino alla condivisione via
internet di un brano musicale che ci è particolarmente piaciuto
con un amico che vive dall’altra parte del mondo.
Le
leggi del copyright, create per regolare un mercato fatto da pochi
grandi editori, oggi hanno invaso perfino la sfera privata dei
cittadini, e richiedono un notevole sforzo economico per controllare,
reprimere e sanzionare tutte le copie non autorizzate. Pretendere
di controllare i comportamenti individuali dei cittadini all’interno
delle loro case è una pratica che danneggia tutta la collettività:
sarebbe come avere un sistema stradale che prevede il pagamento
del pedaggio ad ogni semaforo. Fortunatamente, i cittadini hanno
saputo inventare dei sistemi alternativi per pagare i servizi
di chi costruisce le strade e ne cura la manutenzione, e si auspica
che anche per la produzione di opere dell’ingegno qualcuno decida
di introdurre dei meccanismi che possano affermare la coesistenza
di due diritti: il diritto del l’autore ad essere l’unica persona
che fino alla scadenza del copyright può ricavare dei soldi dalle
sue opere e il diritto dei cittadini alla copia privata senza
scopo di lucro, che è una cosa ben diversa dalla concorrenza economica
agli autori fatta da persone che intascano soldi in modo illegittimo
a danno di altri.
Nella
sua accezione originaria, la concessione agli autori di un copyright
temporaneo sulle loro opere prevedeva che alla fine di un ragionevole
intervallo di tempo qualunque opera sarebbe diventata un frammento
della cultura universale liberamente accessibile e utilizzabile.
Al principio il periodo concesso agli autori per trarre profitto
dalle loro opere (e quindi produrne di nuove con più facilità)
era inferiore ai trent’anni, ma ora si è spinto, per quanto riguarda
i film, fino all’irragionevole record di centoventi anni. Come
dire che per cavare soldi da un’opera artistica una vita intera
non è sufficiente: ci vuole ben più di un secolo, e solo allora
il mondo potrà ricevere “in regalo” quella creazione artistica.
Per
il prolungamento indefinito della durata del copyright concesso
agli autori, e svenduto da questi ultimi alle compagnie che controllano
i loro diritti, la Walt Disney Company ha giocato un ruolo fondamentale.
Nel 1998 Topolino stava per festeggiare il suo settantesimo compleanno,
apprestandosi a diventare una creazione artistica libera, che
chiunque avrebbe potuto utilizzare a piacimento per confezionare
autonomamente cartoni animati, fumetti e pupazzi ispirati al topo
più famoso del mondo. Con la scadenza del copyright su Mickey
Mouse un disegnatore thailandese avrebbe potuto creare un fumetto
a casa propria anche senza essere assunto dalla Walt Disney, e
i creativi africani avrebbero potuto sfornare film d’animazione
su Topolino utilizzando il grande serbatoio narrativo della loro
tradizioni anziché storyboard confezionati da autori statunitensi
e plasmati dalla cultura occidentale. Questa prospettiva era un
sogno troppo grande (e troppo poco redditizio) per l’azienda che
pretende di far sognare adulti e bambini di tutto il mondo, e
così il nostro caro Mickey Mouse, ad un passo dalla sua liberazione
dopo 70 anni trascorsi nella gabbia del copyright, è stato nuovamente
rinchiuso nelle casseforti dell’azienda di papà Walt per altri
20 anni.
La
cattura del topo d’oro che stava per fuggire dalla gabbia è stata
possibile grazie ad una legge statunitense del 1998, passata alla
storia come “Mickey Mouse Copyright Extension Act”, un provvedimento
che porta da 70 a 90 anni il tempo limite concesso alla Walt Disney
Company per lo sfruttamento economico del povero Topolino. Ma
90 anni non erano ancora abbastanza per l’ingordigia delle grandi
case cinematografiche di Hollywood, che in seguito hanno provveduto
ad esercitare la loro influenza per estendere fino a 120 anni
la validità del copyright sui film: una pellicola prodotta oggi
non sarà libera prima del 2125, quando non sarà più una materia
prima da cui trarre ispirazione per nuove creazioni, ma solamente
un pezzo di archeologia cinematografica. Con tutta probabilità
questo limite verrà ulteriormente ritoccato all’approssimarsi
della nuova scadenza, ma a quel punto il problema sarà lasciato
ai posteri.
Qual
è stato il beneficio sociale di queste leggi retroattive? Nessuno,
perché il copyright deve servire a stimolare la produzione attuale
di opere dell’ingegno, e non quella del 1920 che non può essere
modificata a ritroso, perché nessuno ha la bacchetta magica o
la macchina del tempo che potrebbe farci modificare la quantità
di film o libri prodotti nel 1920. Questa estensione del copyright,
è stata unicamente una cessione di libertà senza nessuna contropartita.
A fronte di un beneficio pari a zero, il costo sociale di questi
provvedimenti è stato altissimo: chi rappresenta i nostri interessi
in Parlamento ha stabilito che il popolo italiano, senza ricevere
niente in cambio, ha rinunciato a utilizzare liberamente per decenni
i libri e i filmati prodotti negli anni ‘20.
La
canzone “Tanti auguri a te” (sì, proprio quella che si canta davanti
alle candeline accese) è stata pubblicata nel 1935, e oggi frutta
ancora due milioni di dollari l’anno alla Time Warner, che ne
detiene i diritti di sfruttamento economico. L’ultima delle sorelle
Hill che la scrissero è morta nel 1946. Ha senso continuare a
proibire l’utilizzo libero e gratuito di questa canzone nei film?
Chi sono i veri banditi della società dell’informazione, i pirati
d’arte e di cultura che scambiano musica, facendo pubblicità gratuita
agli artisti attraverso il passaparola telematico, o gli squali
della Time Warner, che scippano all’umanità due milioni di dollari
l’anno per una canzone che non hanno mai scritto?
Chi
sono davvero i soggetti socialmente pericolosi, i ragazzi che
scambiano musica per passione e per esercitare il diritto naturale
alla copia privata di cultura, o chi realizza avidamente per quasi
un secolo profitti sproporzionati e ingiustificati sfruttando
idee artistiche che non ha mai avuto? Qual è la vera ingiustizia,
scaricare dalla rete la musica dei Beatles, che ormai può essere
considerata parte integrante del patrimonio culturale dell’umanità,
oppure pagarla e dare dei soldi a Michael Jackson, che dopo aver
comprato il diritto di sfruttare quella musica ha guadagnato denaro
senza muovere un dito per canzoni che non ha mai scritto? Chi
sono i veri fuorilegge, le persone che vogliono ascoltare più
musica di quanta ne potranno mai comprare, oppure le aziende che
hanno stravolto a loro beneficio le regole del copyright?
Da
quando mi sono affacciato per la prima volta sul mondo della comunicazione
elettronica, io sto dalla parte dei pirati. Pratico senza dubbi
o incertezze varie forme di pirateria culturale, a cominciare
da quella che riguarda le opere del mio ingegno. In rete ho incontrato
la passione del giornalismo e della scrittura, e ho cominciato
a diffondere gratuitamente i miei lavori, senza mai considerare
la loro libera circolazione come una violazione del mio “diritto
d’autore” o come una bestemmia contro la “sacralità” del copyright,
perché ho sempre considerato più importanti i diritti dei lettori
e la sacralità della cultura, e ho sempre pensato che la copia
dei miei lavori fosse un grande regalo che mi facevano tutti coloro
che sceglievano di leggere, inoltrare, riprodurre e pubblicare
i miei scritti anziche quelli di qualcun altro. Oggi riesco a
vivacchiare con quello che scrivo, e anche se non faccio incassi
miliardari con i miei libri non sento il bisogno di mandare in
galera i ragazzini che scaricano le mie opere attraverso i circuiti
peertopeer.
In
questo preciso momento il mio client eMule segnala la presenza
di 25 utenti che hanno nel loro computer uno dei miei libri, e
questo mi riempie di gioia, mentre qualcun altro al mio posto
vorrebbe chiamare il 113 per denunciare i pirati che leggono gratis.
Io invece li benedico e li ringrazio di esistere, anche e soprattutto
quando leggono i miei libri. Ho avuto il grande privilegio
di pubblicare nel 1999 “Italian Crackdown”, il primo libro italiano
diffuso con una licenza di libero utilizzo che ne ha permesso
la pubblicazione in rete sin dal primo giorno di presenza in libreria,
e anche le parole che stai leggendo in questo preciso momento
sono libere di viaggiare e di riprodursi all’infinito, trasformandosi
in segnali elettronici che viaggiano in rete o all’interno di
una fotocopiatrice, per portare queste idee molto più in là di
dove arriverebbero con le restrizioni a cui ci hanno tradizionalmente
abituati gli editori avidi.
In
tutto questo percorso, non ho mai smesso di credere che il valore
dei miei scritti e di qualunque altra opera del mio ingegno non
ha nulla a che vedere con chi vorrebbe affermare il dovere di
controllare, sanzionare e carcerare chi mi legge senza pagarmi.
Spero che in futuro ci siano sempre più scrittori, registi e musicisti
che avranno il coraggio di aprire i loro cassetti per far parte
dell’intelligenza collettiva della rete, dove quello che si riceve
da milioni di utenti trasformati in una grande famiglia solidale
di pirati è infinitamente maggiore di quello che si potrà mai
donare in tutta una vita.
“Ogni
società ha bisogno di incoraggiare lo spirito di cooperazione
volontaria tra i cittadini. Quando i padroni del software ci raccontano
che aiutare il prossimo in un modo naturale è ‘pirateria’, stanno
contaminando il senso civico della nostra società. [...] Se un
amico ti chiede di copiare un programma, è sbagliato rifiutare,
perché la solidarietà è più importante del copyright. [...] In
Unione Sovietica ogni fotocopiatrice era sorvegliata da una guardia
che impediva di effettuare copie proibite: le ragioni di questo
controllo delle informazioni erano politiche, negli Stati Uniti,
invece, riguardano il profitto”.
[Richard
Matthew Stallman, programmatore e fondatore della Free Software
Foundation]
“Io
sono un hacker: entrate nel mio mondo.
Avete
mai guardato che cosa c’è dentro gli occhi di un hacker, voi con
la vostra mente pretecnologica e la vostra psicologia da due soldi?
Vi siete mai chiesti quali sono le forze che danno forma alla
mia vita? Ora questo mondo è nostro, ed è il mondo degli elettroni
e dei circuiti, dominato dalla bellezza delle reti. Noi esploriamo
le frontiere della conoscenza e voi ci.chiamate criminali. Siamo
una comunità che esiste a dispetto delle differenze razziali,
della nazionalità e delle religioni, e voi continuate a chiamarci
criminali. Siete voi quelli che costruiscono bombe atomiche, che
dichiarano guerra ad altri paesi, siete voi che uccidete, imbrogliate,
ci mentite e provate a convincerci che lo fate per il nostro bene,
ma alla fine i criminali siamo noi. Si, io sono un criminale,
e il mio crimine è la curiosità. Il mio crimine è quello di giudicare
le persone per quello che dicono e pensano, e non per le loro
apparenze. Il mio crimine è quello di essere più intelligente
di voi, e questo non me lo perdonerete mai. Io sono un hacker,
è questo è il mio manifesto. Potete fermarci individualmente,
ma non potrete mai fermarci tutti”.
Queste
parole, scritte in inglese e tradotte nelle più svariate lingue
del mondo, riecheggiano nel ciberspazio dall’8 gennaio 1986, quando
un misterioso pirata del software noto come “The Mentor” affida
al popolo delle reti un “Manifesto Hacker” che diventa la carta
d’identità della generazione di pionieri telematici che ha popolato
le comunità virtuali degli anni ‘80, determinandone abitudini,
codici morali e regole sociali ben prima che i politici e gli
uomini d’affari iniziassero a dettare legge nell’infosfera delle
reti nata all’insegna della cultura libertaria.
L’hacking
e le pratiche di libero scambio dei programmi bollate come “pirateria
informatica” non hanno niente a che vedere con azioni criminali
o con altre pratiche antisociali, ma sono dei meccanismi virtuosi
di sviluppo culturale e tecnologico caratterizzati da una particolare
attitudine verso la conoscenza, una curiosità e una sete di sapere
lasciate in eredità dalle controculture degli anni ‘60 nate all’interno
dei campus universitari statunitensi.
Più
in generale l’etica hacker, lo spirito che anima l’informazione
libertaria, è nata ancora prima dei calcolatori elettronici, e
si è manifestata in tutti gli episodi della storia umana in cui
gli individui hanno deciso che la conoscenza in grado di rivoluzionare
il mondo era più importante delle regole stabilite per mantenere
lo status quo.
Le
consuetudini di condivisione del software che negli anni ‘60 sono
state praticate della prima comunità di hacker del Massachusetts
Institute of Technology, sono un fenomeno sociologico e culturale
che ha consentito lo sviluppo della moderna scienza informatica
e la nascita dei personal computer. L’etica hacker sviluppata
nei laboratori del MIT è il fondamento culturale e filosofico
di una nuova generazione di artisti e scienziati, che sviluppano
il loro talento e le loro potenzialità attraverso la condivisione
della conoscenza, la libertà di accesso alle informazioni, la
libertà di copia, di analisi e di modifica del software.
Nella
lingua inglese il verbo “to hack” significa letteralmente “fare
a pezzi”, “tagliare”, “smontare”. Chi di noi non ha mai provato
da bambino a smontare il ferro da stiro o qualche altro apparecchio?
Qualcuno ha la fortuna di rimanere bambino anche con il passare
degli anni, resistendo ad un sistema che cerca in tutti i modi
di spegnere la sete di conoscenza trasformandola in un meccanico
nozionismo.
Questa
gioiosa curiosità è la molla principale che spinge gli hacker
di tutto il mondo a smontare il software, cercando di capire come
funziona per migliorarlo e modificarlo in base alle proprie esigenze,
a smontare la cultura, l’informazione l’economia per capire i
meccanismi che le governano, a smontare le regole sociali per
riscriverle secondo criteri di logica, efficienza, creatività,
bellezza e genialità che spesso mandano all’aria tradizioni e
consuetudini.
Essere
un hacker, oggi come negli anni ‘60, significa appartenere ad
una comunità di persone che condivide il gusto di risolvere problemi
per divertimento, applicando la propria intelligenza a qualunque
problema logico, meccanico o filosofico, con uno spirito leggero
che considera il gioco come una cosa molto seria.
È
questa la differenza tra un hacker e un semplice programmatore:
il primo crea software per divertimento e con passione, il secondo
produce programmi per contratto, soltanto a pagamento, e con la
fredda meccanicità di un impiegato che non è più in grado di appassionarsi
a quello che fa.
Gli
hacker non sono guidati in ciò che fanno da un interesse economico,
ma usano i computer come uno strumento per l’espressione libera
e creativa della loro mente. Rincorrendo soluzioni sempre più
efficaci a problemi sempre più complessi, gli hacker migliorano
continuamente circuiti elettronici e programmi, accettando nuove
sfide intellettuali per il puro gusto di vincerle. Un hacker è
una persona che non vuole solo risolvere un problema, ma sente
il bisogno di sottometterlo alla propria intelligenza. Non basta
trovare una soluzione qualunque: bisogna trovare la soluzione
più elegante, semplice e brillante al tempo stesso.
Tutto
comincia in un giorno di maggio del 1962, quando un gruppo di
hacker cambia la storia del pianeta e tiene a battesimo il primo
videogioco della storia, presentato in occasione dell’annuale
festa del Massachusetts Institute of Technology.
Steve
Russell e altri hacker del laboratorio di Intelligenza Artificiale
(Ai Lab) danno in pasto ai circuiti del loro calcolatore PDP1
un nastro di carta con ventisette pagine di linguaggio assembly,
installano uno schermo extra — in realtà un gigantesco oscilloscopio
— e per tutto il giorno stupiscono un pubblico incredulo e stupito
che si accalca intorno allo schermo per guardare due navi spaziali
che cercano di colpirsi a vicenda, cercando di contrastare l’attrazione
del sole ed evitando al tempo stesso le collisioni con altri corpi
celesti.
È
il battesimo di “Spacewar”, il capostipite dei videogiochi elettronici.
La
“palestra di allenamento” degli appassionati di informatica del
Mit è il Tech Model Railroad Club, dove gli amanti dei trenini
elettrici, per far funzionare i loro modellini, imparano a destreggiarsi
tra relais e circuiti.
Con
l’arrivo al laboratorio di intelligenza artificiale del Pdp1 l’amore
per i trenini cede il posto ad una nuova, grande passione: la
programmazione dei mainframes, i primi mastodontici calcolatori
apparsi durante gli anni ‘60 nelle università e nei centri di
ricerca.
All’interno
del Mit, il laboratorio di Intelligenza Artificiale guidato da
Marvin Minsky e John McCarthy diventa la culla dei primi hacker,
individui legati da una passione comune per il cibo cinese, la
fantascienza, la libertà dell’informazione e i computer.
Oggi
la stampa e le multinazionali del software associano al termine
“hacker” attività criminali o sovversive, ma nella sua accezione
originale questo appellativo è stato coniato all’interno del Mit
per indicare appassionati di matematica, logica ed elettronica
capaci di penetrare nel cuore delle nuove tecnologie dell’informazione,
persone in grado di usare allo stesso tempo il saldatore, l’oscilloscopio
e i linguaggi di programmazione di alto livello per trovare soluzioni
eleganti ed efficaci per i loro programmi, in una gara continua
per riscrivere lo stesso algoritmo utilizzando una riga di codice
in meno.
In
questo ambiente creativo e libero vengono sviluppate tecniche
informatiche e programmi che ancora oggi sono correntemente utilizzati.
Ogni hacker del Mit usava il codice degli altri come punto di
partenza per una continua rincorsa al miglioramento del software,
e incarcerare i programmi nella gabbia del copyright è una possibilità
che non viene nemmeno presa in considerazione. Un “buon hackeraggio”
per essere tale deve essere libero. Ogni programma realizzato
è aperto ai miglioramenti degli altri, in un processo di perfezionamento
continuo e collettivo di tutte le creazioni dalla prima comunità
hacker.
La
vera eredità dei ragazzi del Mit è la cosiddetta “etica hacker”,
una serie di norme non scritte che si sviluppano tra loro in maniera
spontanea e naturale:
1.
L’accesso ai computer — e a tutto ciò che può insegnarti qualcosa
su come funziona il mondo — dev’essere totale e illimitato. L’imperativo
è “metterci su le mani”!
2.
Tutta l’informazione deve essere libera.
3.
Dubita dell’autorità — promuovi il decentramento.
4.
Gli hacker dovranno essere giudicati per ciò che fanno, e non
sulla base di falsi criteri quali ceto, età, razza o posizione
sociale.
5.
Con un computer puoi creare arte e bellezza.
6.
I computer possono cambiare la tua vita in meglio.
Anche
“Spacewar” viene distribuito liberamente e gratuitamente come
tutte le opere dell’ingegno nate all’ombra dell’etica hacker,
e in poco tempo si diffonde a macchia d’olio in tutti i centri
universitari americani. Il produttore dei calcolatori Pdp, la
Digital Equipment Corporation, decide di inserire Spacewar in
ogni singola macchina venduta, contribuendo ulteriormente alla
sua popolarità.
Oggi,
a più di quarant’anni di distanza dalle prime imprese della comunità
hacker del Mit, l’informatica non è più una forma d’arte liberamente
praticata all’interno delle università per il progresso del genere
umano, e si è trasformata in una gallina dalle uova d’oro ingabbiata
e sfruttata da aziende con pochi scrupoli. La gioia creativa dei
primi programmatori ha ceduto il passo ad un cupo scenario dove
gli utenti e i creativi del software sono entrambi oppressi, anche
se in modo diverso, per assecondare la logica del profitto.
L’ultimo
dei pionieri è Richard Matthew Stallman, un hacker del Mit che
ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’informatica
introducendo una distinzione tra il “software libero”, che permette
di ottenere il massimo beneficio per la società, e il “software
proprietario”, progettato per garantire il massimo profitto alle
aziende che lo commerciano. Per essere libero, un programma
deve garantire a chiunque la libertà di utilizzo, la libertà di
poter guardare com’è fatto e di poterlo adattare alle proprie
esigenze, la libertà di aiutare il prossimo distribuendo copie
di quel programma, la libertà di migliorare il programma mettendo
a disposizione di chiunque le versioni modificate.
Lo
strumento escogitato da Stallman per garantire la libertà del
software è il cosiddetto “copyleft”, un ribaltamento del copyright
dove i diritti che la legge riconosce agli autori dei programmi
informatici non vengono utilizzati per limitare le libertà degli
utenti, ma per ottenere il massimo beneficio sociale dalla circolazione
del programma. Il principio del copyleft è quello di trasmettere
in modo “ereditario” la libertà del software, facendo in modo
che anche le versioni modificate di un programma offrano agli
utenti la stessa libertà della versione originale. Il tutto avviene
attraverso una licenza d’uso chiamata GPL (General Public License),
utilizzata tra l’altro anche per la distribuzione del sistema
operativo GNU/Linux.
Nell’ottobre
1985 Stallman ha dato vita alla “Free Software Foundation” (Fondazione
del software libero), dove tuttora è in attività per difendere
la libertà del software (e dei cittadini che lo usano) secondo
i principi di libera condivisione nati all’interno della prima
comunità hacker del MIT.
La
distribuzione gratuita del software libero è una minaccia per
chi si guadagna la vita scrivendo programmi? Molti pensano di
no, e vedono nel free software una opportunità di guadagno
per i programmatori indipendenti che possono liberarsi dal controllo
delle aziende, utilizzando la rete come canale di distribuzione
dei propri programmi per vendere servizi di consulenza e di adattamento
del software alle particolari esigenze di un cliente.
Ho
conosciuto “Elettrico” per caso, in rete. Ovviamente questo non
è il suo vero nome, bensì un “nickname”, un nomignolo con cui
molti cittadini del ciberspazio scelgono di abbandonare la propria
identità anagrafica per costruirne una nuova in rete.
È
lui che mi ha spiegato che la legge italiana sul diritto d’autore
riconosce ai colossi dell’informatica i diritti di sfruttamento
economico dei programmi scritti dai loro dipendenti, che in questo
modo perdono il controllo sulle opere del loro ingegno. La storia
di “Elettrico” è quella di un programmatore che attraverso anni
di lavoro subordinato ha maturato una visione del mondo dell’informatica
certamente non convenzionale, secondo la quale l’applicazione
da parte delle aziende del cosiddetto “diritto d’autore”, non
va solamente a danno degli utenti, ma penalizza in primis gli
stessi autori dei programmi.
I
racconti di Elettrico relativi alle esperienze vissute in una
casa di produzione del software italiana hanno dell’incredibile,
e le condizioni di lavoro a cui era sottoposto sembrano una sapiente
miscela degli incubi di George Orwell e Carlo Marx, un misto di
sfruttamento e intrusione nella privacy dei lavoratori:
Lavorai
sodo, mi capitò anche di fermarmi fino a mezzanotte. Alla
fine del mese mi accorsi che in busta non c’erano straordinari.
Alle mie domande mi venne risposto: “noi gli straordinari li convertiamo
in ore di permesso retribuito”. Senza chiedere, ovviamente, il
mio parere. Ebbi la seconda sorpresa quando venni ripreso per
un “assiduo scambio di mail con la segretaria”. In realtà l’assiduo
scambio si limitava a due, tre mail al giorno, in cui ci si diceva
“ciao, come stai”, le solite cose insomma, ci stavamo simpatici
ed essendo in uffici diversi ci si parlava così. Di fatto mi venne
intimato di non usare la posta interna per gli affari miei, e
così feci. Nessuno riuscì a capire come facesse il nostro capo
a conoscere il contenuto della nostra posta elettronica.
Anche
la segretaria venne ripresa, arrivando addirittura chiederle di
che tipo fosse la nostra relazione, con evidente fastidio riguardo
al fatto che i dipendenti potessero instaurare rapporti di qualsiasi
genere all’interno dell’azienda. Un giorno poi, quando arrivai
la mattina, non trovai più la “rastrelliera” con la cartolina
da timbrare. La timbratrice c’era ma, mi fu ordinato, da quel
momento la cartolina avrei dovuto tenerla in tasca e portarmela
a casa.
La
sicurezza in azienda era un altro tasto dolente. Un rapido elenco
potrebbe partire da cavi di terra collegati alle tubature dell’acqua
fino ad arrivare alle ciabatte aperte, i cavi schiacciati fra
le porte, la LAN aggrovigliata ai cavi elettrici (passava dentro
le stesse canaline e prese!), i circa 100 volt misurati sui cavi
di rete, allungati con collegamenti volanti fatti con pezzi di
nastro isolante, e così via. Si lavorava in questa situazione,
e guai a lamentarsi.
Io
sono uno sviluppatore, cioè uno di quelli che teoricamente perderebbero
il lavoro se tutti copiassero il software. Premesso che non credo
che una cosa simile potrebbe accadere, faccio alcune considerazioni:
quando ho iniziato a lavorare venivo pagato 1.400.000 lire nette
al mese. Sfogliando i contratti che la mia azienda stipulava con
le ditte a cui forniva i programmi scoprii che essa percepiva
circa 700.000 nette per ogni mio giorno lavorativo. Nel momento
in cui ho un’idea per risolvere un problema e la applico in un
progetto della mia azienda ne perdo immediatamente la “proprietà”,
quella che tutti i cari signori della Bsa e delle compagnie informatiche
dicono di voler tutelare.
Il
fatto che siano state brevettate delle procedure informatiche
estremamente stupide (come, ad esempio, quelle necessarie per
visualizzare una finestra) è un fatto assurdo. Questo vuol dire
che se io, in un software scritto da me, scrivo una procedura
simile a quelle già brevettate, facendomi venire un’idea che qualcun
altro ha già messo sotto brevetto, sto commettendo una grave violazione
e sono perseguibile a norma di legge.
È
evidente che le leggi sul copyright in generale, e quelle sul
software in particolare, mirano a proteggere le grandi aziende
produttrici, non certo il programmatore solitario che decide di
scrivere un buon software e venderlo ad un prezzo ragionevole
per ricavarne qualcosa.
Mi
sembra perciò assurdo parlare di qualcosa di “rubato” quando si
parla di software copiato per uso personale. Il problema è che
il vero furto lo compie chi paga qualcuno il 6% del ricavo che
fa entrare in azienda; il vero furto è quello che mi impedisce
di usare nei miei programmi una routine inventata da me solo per
che l’ho ideata per un prodotto della mia azienda; il vero furto
è assumere delle persone, farle sgobbare e sottopagarle per fargli
convertire i propri software nelle più varie lingue del mondo,
e poi vendere centinaia di migliaia di copie di quei programmi.
La
piaga dei brevetti sul software, che condiziona il lavoro di “Elettrico”
e di migliaia di programmatori indipendenti in tutto il mondo
ha raggiunto negli ultimi anni proporzioni grottesche: il 21 febbraio
1997 Bill Gates ha vinto il premio per il “peggior brevetto software
dell’anno”, relativo al brevetto numero 5.552.982, che corrisponde
a un “metodo e sistema per l’elaborazione di campi in un programma
di elaborazione dei documenti”, praticamente una tecnica per associare
il testo di una lettera ad un numero qualsiasi di indirizzi a
cui spedire la stessa missiva. Un sistema, insomma, già incluso
in un numero vastissimo di programmi per l’elaborazione dei testi
attualmente in commercio.
Questo
premio in negativo vuole denunciare la facilità con cui vengono
rilasciati brevetti negli Usa, soprattutto nel settore dell’informatica,
dove i piccoli sviluppatori di software sono costretti a lavorare
camminando su un campo minato fatto da centinaia di migliaia di
brevetti, il più delle volte relativi ad algoritmi di base e a
tecniche che ormai sono patrimonio comune di tutti i programmatori.
La
reinvenzione indipendente è la norma nell’ambito della programmazione,
e di conseguenza è molto alta la probabilità di dover sostenere
delle spese giudiziarie semplicemente per aver reinventato una
tecnica già brevettata. Solo grandi aziende dotate di uffici legali
specializzati possono affrontare le trappole dei brevetti, e nulla
protegge i programmatori indipendenti dall’uso accidentale di
una tecnica brevettata, e quindi dall’essere citati in giudizio
per questo motivo.
Anche
nel vecchio continente lo scenario relativo ai brevetti software
sembra destinato ad una evoluzione (o meglio ad una involuzione)
che riproporrebbe in chiave europea gli stessi problemi e le stesse
limitazioni che negli Stati Uniti hanno praticamente immobilizzato
i programmatori indipendenti a tutto vantaggio dei grandi potentati
informatici. Un’operazione del genere, tradotta dall’informatica
alla letteratura, sarebbe equivalente alla concessione di brevetti
su alcune frasi di uso corrente. Scrivere “Ciao, come stai?” in
un libro o in una rivista diventerebbe un’operazione accessibile
solo a grandi gruppi editoriali che possono permettersi di assumere
una staff legale per controllare che quella semplice frase non
sia già stata brevettata da qualcun altro, ed eventualmente pagare
profumatamente il diritto di utilizzo della frase.
La
battaglia legale contro l’introduzione della brevettabilità del
software a livello europeo è ancora aperta: il 21 dicembre 2004
il governo della Polonia ha impedito che il Consiglio dell’Unione
Europea raggiungesse una linea comune sulla questione. Alcuni
tra i più noti esponenti europei della comunità informatica (tra
cui Linus Torvalds, Monty Widenius e Rasmus Lerdorf) avevano dichiarato
pubblicamente che la proposta del Consiglio era “deludente, pericolosa,
e democraticamente illegittima”, e Wlodzimierz Marcinski, il ministro
polacco della scienza e dell’informazione, di fronte alla pesantezza
di queste affermazioni è volato personalmente a Bruxelles per
scongiurare all’ultimo minuto il raggiungimento di un accordo.
Nel
frattempo Ibm ha “liberato” 500 brevetti software, ceduti per
uso gratuito alla comunità del software libero. La rinuncia è
stata facile, dal momento che nel solo 2004 l’ufficio brevetti
Usa ha concesso a Ibm 3.249 brevetti, e per il dodicesimo anno
consecutivo l’azienda si colloca saldamente in testa alla classifica
americana dei “brevettatori”.
Se
le regole sulla brevettabilità del software in vigore negli Usa
venissero estese non solo all’Europa, ma anche al resto del mondo,
questa operazione condotta in nome dei sacri principi di giustizia
che molti associano all’idea di brevetto si trasformerebbe in
una subdola e violenta forma di colonizzazione digitale nei confronti
dei paesi impoveriti.
Infatti
la stragrande maggioranza dei brevetti software è stata registrata
da aziende statunitensi, che potrebbero obbligare i programmatori
del sud del mondo a pagare un “pizzo” per scrivere nuovi programmi,
per il semplice fatto di aver utilizzato semplicissime tecniche
di programmazione, magari reinventandole da zero, senza accorgersi
che queste tecniche erano state già brevettate da qualcun altro:
una vera e propria “tassa sulle idee”.
Per
quanto riguarda il diritto alla libera copia del software, la
lotta dei ciberpirati contro le leggi repressive dettate al Parlamento
italiano dalle lobby del software e dell’intrattenimento ha una
storia che viene da lontano. Dieci anni fa la compressione MP3
dei file sonori era ancora un lontano miraggio, e diffondere musica
su internet era pressoché impossibile.
A
quel tempo il “crimine telematico” per eccellenza non era lo scambio
di musica ma addirittura la “detenzione di modem”: a che serve
un modem si chiedevano giornalisti e magistrati — se uno non ha
loschi traffici da gestire, guerre termonucleari da scatenare
o messaggi segreti da scambiare? Nel maggio 1994 la terribile
equazione che associava la comunicazione elettronica alle attività
illegali si trasforma da “semplice” deficit culturale in un vero
e proprio teorema giudiziario, che ha scatenato l’ira funesta
della Guardia di Finanza su centinaia di persone “colpevoli” di
aver gestito un Bulletin Board System, una di quelle “bacheche
elettroniche” caserecce che oggi sembrano preistoria informatica.
Prima
di essere “sorpassate” dal boom di internet, le bacheche elettroniche
gestite da privati, e basate su regole ferree che non consentivano
il transito di messaggi pubblicitari, sono state la palestra sulla
quale si è formata una generazione di “utenti consapevoli”, che
ancora oggi cercano di resistere allo “zapping telematico” orchestrato
in rete dai giganti delle telecomunicazioni e dell’intrattenimento.
Nel
1992 una pesantissima azione di lobby della Bsa (Business Software
Alliance), la “santa alleanza” dei produttori di software, era
riuscita a far approvare delle modifiche alla legge sul diritto
d’autore per introdurre una distinzione tra i programmi informatici
e le altre opere dell’ingegno, sanzionando col carcere la copia
di software “a scopo di lucro”, mentre altri tipi di copia continuavano
ad essere perfettamente legali se effettuati per uso personale
e senza finalità commerciali.
È
dall’applicazione distorta di questa “legge su misura” che due
anni più tardi nasce l’operazione “Hardware I”, la più grande
azione di polizia informatica della storia, passata alla storia
con il nome di “Italian Crackdown”.
Dalla
procura di Pesaro partono 173 decreti di perquisizione, che attivano
63 reparti della Guardia di Finanza per una serie di sequestri
a tappeto: oltre a 111.041 floppy disk, 160 computer, 83 modem,
92 Cd, 298 streamer e 198 cartucce per il backup dei dati vengono
sequestrati anche “reperti” totalmente inutili per lo svolgimento
delle indagini: riviste, appunti, prese elettriche, monitor, stampanti,
tappetini per il mouse, contenitori di plastica per dischetti,
kit elettronici della Scuola Radio Elettra scambiati per apparecchiature
di spionaggio. Si arriva a sequestrare un’intera stanza del computer,
sigillata dalla finanza nel timore che a partire da quella stanzetta
qualcuno potesse innescare la terza guerra mondiale.
Molti
scelgono di patteggiare, anche se consapevoli di non aver fatto
nulla di illecito. Altri ne fanno una questione di principio e
vanno fino in fondo, come Giovanni Pugliese, uno dei fondatori
dell’Associazione PeaceLink, che viene pienamente scagionato nel
2000 dopo un calvario giudiziario durato sei anni.
Dopo
quell’episodio l’azione di lobby realizzata dalla Bsa (e da Microsoft,
che la finanzia) diventa più sottile e impercettibile, ma non
meno devastante. Il 26 novembre 1996 la pretura circondariale
di Cagliari dichiara in una storica sentenza che copiare software
non è sempre reato. La parte in causa è una ditta privata che
installa lo stesso programma su tre computer differenti. Il giudice
spiega che il fatto non costituisce reato perché c’è una differenza
tra lucro e profitto, e la legge punisce solo la copia fatta per
lucro, per guadagnare dei soldi, e non quella fatta con profitto,
risparmiando sul mancato acquisto di un software.
A
questo punto, con la legge 248/2000 un nuovo “ritocco” alla legge
633/41 sul diritto d’autore sostituisce magicamente le parole
“a scopo di lucro” con “per trarre profitto”, e dalla sede centrale
di Bsa partono immediatamente i fax intimidatori con cui si avvertono
le aziende del nuovo cambio di regole.
Questa
ennesima “blindatura” del diritto d’autore sul software riesce
a introdurre per la copia di software pene simili a quelle per
omicidio colposo, e chi copia un programma per uso personale viene
trattato allo stesso modo di chi ne fa migliaia di copie per rivenderle
sul “mercato nero” dell’informatica. Ma c’è ancora un buco: per
quanto riguarda la copia di musica e di video, la legge 248/2000
introduce una distinzione, e punisce la copia di film e canzoni
solo se viene effettuata “per uso non personale” e “a scopo di
lucro”.
Questo
residuo spazio di libertà non dura a lungo, e l’azione lobbistica
dei colossi dell’intrattenimento spinge i governi verso la criminalizzazione
di qualsiasi copia di opere dell’ingegno: nel 2001 l’Unione Europea
approva la Eucd, la direttiva europea sul Copyright recepita in
Italia con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003.
Il
diritto naturale alla copia personale delle opere dell’ingegno,
che è una declinazione del diritto allo studio e alla cultura,
non è facilmente cancellabile, e anche il decreto che recepisce
la Eucd lascia aperta una possibilità di scambio culturale tra
i cittadini, dal momento che consente la “riproduzione privata
di fonogrammi e videogrammi su qualsiasi supporto, effettuata
da una persona fisica per uso esclusivamente personale, purché
senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente
commerciali”. L’inghippo è che scattano comunque le manette
se questa copia viene realizzata aggirando i meccanismi tecnologici
inseriti a protezione dei contenuti, che ormai sono presenti in
tutti i Cd e Dvd. Chi aggira un sistema di protezione per condividere
musica e fare un regalo di compleanno alla nonna rischia gli stessi
anni di galera di chi aggira le stesse protezioni per rivendere
migliaia di copie di quel Cd su mercati clandestini e illegali.
È
come se l’ingiuria e la strage venissero punite allo stesso modo,
entrambe ricondotte ad un medesimo comportamento criminoso descritto
con il nome generico e fumoso di “pirateria”.
L’ultimo
pastrocchio legislativo è arrivato con il famigerato “Decreto
Urbani”, che cambia poco nella sostanza giuridica ma ha seminato
già il panico nel grande pubblico della rete. Da una parte i consumatori
vengono spinti dalle compagnie telefoniche verso abbonamenti Adsl
che allettano gli utenti con la possibilità di scaricare “video
e musica”, dall’altra i cittadini si scontrano con le lobby che
vogliono bollare questa azione come un reato penale, indipendentemente
dal tipo di materiale scaricato (vado in galera anche se scarico
il filmino della prima comunione di mio nipote?) e dall’uso personale
o mercantile che ne viene fatto (scarico per ascoltare o per rivendere?).
Il
bello di questo decreto è che i suoi estensori ne hanno promesso
la revisione ancora prima che venisse approvato. Qual è la forza
che può spingere un ministro ad approvare una legge scritta male
per sua stessa ammissione, e che oggi, nonostante le successive
“pezze” legislative nessuno sa ancora interpretare in modo chiaro
e univoco?
Per
capire l’entità di questa forza basta conoscere il pensiero di
combatte da più di un decennio contro chi ha sequestrato l’arte
e la cultura per trasformarle in un ricco mercato e criminalizzare
chiunque non voglia piegarsi alle regole delle grandi lobby del
software e dell’intrattenimento. L’8 febbraio 1996 John
Perry Barlow, paroliere del gruppo “cult” Grateful Dead e fondatore
della “Electronic Frontier Foundation” scrive un altro testo fondamentale
nella storia della comunicazione elettronica: una “Dichiarazione
di Indipendenza del Ciberspazio” che oggi, a quasi dieci anni
di distanza, è più attuale che mai.
In
questo manifesto tecnolibertario Barlow rinnega l’autorità dei
governi mondiali sulla comunità dei pirati di tutto il mondo,
e dichiara solennemente che il Ciberspazio, definito dallo stesso
Barlow come “il luogo dove si trovano due persone quando fanno
una telefonata”, è una specie di “Tortuga” elettronica dove i
pirati e in generale tutti i liberi utenti delle reti danno valore
solamente alle regole che le comunità producono spontaneamente
al loro interno, ben diverse dalle leggi posticce applicate dall’alto
per irreggimentare fenomeni che sfuggono alla comprensione dei
governanti. Ecco lo storico proclama di libertà nato dalla tastiera
di John Perry Barlow:
'Governi
del mondo industrializzato, altezzosi giganti di carne e acciaio,
io vengo dal Ciberspazio, la nuova casa della Mente. A nome del
futuro, vi chiedo di lasciarci in pace. Non siete i benvenuti
tra noi. Non avete alcun potere nel luogo dove ci riuniamo.
Noi non abbiamo eletto alcun governo ne lo faremo, quindi mi rivolgo
a voi con la sola autorità con cui parla sempre la libertà.
Io dichiaro lo spazio sociale globale che stiamo costruendo come
naturalmente indipendente dalle tirannie che vorreste imporci.
Voi non avete il diritto morale di governarci ne possedete strumenti
repressivi in grado di farci davvero paura. Ogni Governo basa
il proprio potere sul consenso dei governati. Voi non avete sollecitato
ne ricevuto il nostro. Non vi abbiamo invitato. Non ci conoscete,
ne conoscete il nostro mondo. Il Ciberspazio non rientra nei vostri
confini. Non crediate di poterlo costruire, perché è un progetto
pubblico. Non ce la farete.
È
un prodotto della natura e cresce da solo tramite le nostre azioni
collettive. Non avete mai partecipato alle nostre conversazioni
e raduni, ne avete creato la ricchezza dei nostri mercati. Non
sapete nulla della nostra morale o dei codici non scritti che
già danno alla nostra società più ordine di quanto possa mai ottenersi
con le vostre imposizioni.
Sostenete
che tra noi esistano dei problemi che voi dovete risolvere. State
usando questa scusa per invadere i nostri territori. Molti di
tali problemi neanche esistono. Dove ci sono veri conflitti e
comportamenti errati li isoleremo e risolveremo a modo nostro.
Stiamo preparando un nostro Contratto Sociale. Un accordo che
nascerà secondo le regole del nostro mondo, non secondo le vostre.
Il nostro è un mondo diverso. Il Ciberspazio consiste di transazioni,
relazioni e pensieri, sistemati come un’alta marea nella ragnatela
della comunicazione.
Il
nostro mondo è sia ovunque che da nessuna parte, ma non si trova
là dove vivono i corpi. Stiamo creando un mondo dove tutti possano
entrare senza privilegi o pregiudizi assegnati da razza, potere
economico, grado militare o luogo di nascita. Stiamo creando un
mondo dove chiunque possa esprimere il proprio pensiero, non importa
quanto strano, senza paura d’essere forzato al silenzio o alla
conformità generale. I vostri concetti legali di proprietà, espressione,
identità, movimento e contesto non possono essere applicati a
noi. Tali concetti si fondano sulla materia, e qui la materia
non esiste. Le nostre identità non hanno corpi, quindi, al contrario
di voi, non possiamo accettare ordini imposti con la forza fisica.
Riteniamo che il nostro autogoverno possa basarsi su codici di
comportamento, illuminato autointeresse, condivisione di beni.
E non possiamo accettare le soluzioni che state cercando d’imporci.
[...]
Nel
nostro mondo ogni sentimento ed espressione d’umanità, dal degradante
all’angelico, fanno parte di un tutt’uno indefinito, la conversazione
globale dei bit. Non è possibile separare l’aria che strozza da
quella su cui batte l’ala in volo. In Cina, Germania, Francia,
Russia, Singapore, Italia e Stati Uniti, state cercando di isolare
il virus della libertà mettendo sentinelle alle Frontiere del
Ciberspazio. Forse il contagio sarà evitato per un breve periodo,
ma non potrà funzionare in un mondo presto inondato da media al
ritmo dei bit.
Le
vostre strutture dell’informazione, sempre più obsolete, tenteranno
di perpetuarsi proponendo nuove leggi, in America e in tutto il
mondo, per affermare di possedere la parola stessa. Queste leggi
definiranno le idee come un altro prodotto industriale, non più
nobili del volgare ferro. Nel nostro mondo, qualunque cosa creata
dalla mente umana può essere riprodotta e distribuita all’infinito
senza alcun costo. La trasmissione globale del pensiero non richiede
più l’appoggio delle vostre fabbriche. Queste misure ostili e
coloniali ci pongono nella medesima posizione di quegli amanti
della libertà e dell’autodeterminazione che in altri tempi sono
stati costretti a non riconoscere l’autorità di poteri distanti
e disinformati. Abbiamo il dovere di dichiarare le nostre identità
virtuali immuni al vostro potere, anche se dovessimo continuare
a rispettare le vostre leggi con i nostri corpi. Ci sparpaglieremo
su tutto il Pianeta in modo che nessuno possa arrestare il nostro
pensiero. Noi creeremo la civiltà della Mente nel Ciberspazio.
Che possa essere più umana e giusta del mondo fatto dai nostri
governi.'
Negli
anni trascorsi dalla scrittura della “Dichiarazione di Indipendenza
del Ciberspazio”, alla voce di Barlow si è aggiunta quella di
migliaia di altri pirati della libera comunicazione, che nonostante
le intimidazioni e il fiorire di leggi repressive hanno rivendicato
il diritto allo scambio libero e gratuito del software e delle
altre opere dell’ingegno.
“La
restrizione commerciale dei semi del mondo, che una volta erano
la comune eredità di tutti gli esseri umani, è avvenuta in poco
meno di un secolo. Nonostante questo sia uno dei più importanti
sviluppi dei tempi moderni difficilmente dai media viene data
più di qualche vaga notizia sull’argomento. Appena un secolo fa,
centinaia di migliaia di contadini sparsi in tutto il pianeta
controllavano i propri rifornimenti di semi, commercializzandoli
liberamente fra amici e vicini. Oggi, quasi tutti i rifornimenti
delle sementi sono stati comprati, manipolati e brevettati dalle
compagnie e considerati come proprietà intellettuale”.
[Jeremy
Rifkin, Il secolo Biotech]
Chi
è il proprietario della vita sulla terra? A chi appartengono i
miei occhi verdi, e chi devo pagare per riprodurre il loro colore
nel volto di mio figlio? A chi va riconosciuto il “diritto d’autore”
sulle piante, sui fiori, sui semi, e su tutto quello che la natura
riesce a produrre spontaneamente o con l’aiuto dell’uomo? Se incrocio
per primo un cavallo con un’asina, ho il diritto di pretendere
una tassa per ogni mulo che nasce sul pianeta? Qual è la soglia
di decenza davanti alla quale devono fermarsi le sperimentazioni
biotecnologiche e i divieti imposti ai contadini dalle multinazionali?
“La
terra è di Dio”, scriveva nel giugno 1973 il giovanissimo abate
Giovanni Franzoni, poi espulso dalla Chiesa Cattolica per le sue
pratiche cristiane troppo vicine al popolo di Dio e troppo lontane
dalla gerarchia vaticana.
Oggi
non siamo più così sicuri di questa affermazione, e molti aspiranti
dei, ubriacati dal delirio di onnipotenza delle nuove biotecnologie,
credono che la terra e le specie viventi possano diventare proprietà
dell’uomo, e pensano di poter “inventare”, classificare, brevettare,
tassare, controllare e possedere nuove forme di vita, semi, piante
e animali che non fanno più parte del creato, ma del catalogo
patinato di una multinazionale.
Oggi
la nuova corsa all’oro non è più quella delle compagnie minerarie,
ma quella delle aziende biotech che attingono a piene mani dalla
vita per brevettare piante, semi e codici genetici da trasformare
in una miniera d’oro verde per il primo che riesce a controllarli.
Le compagnie che sostengono di migliorare la nostra qualità della
vita in realtà preferiscono saccheggiare a piene mani dai ricchissimi
serbatoi di biodiversità dei paesi impoveriti, brevettare nuove
combinazioni genetiche spacciando per “scoperte scientifiche”
quelle che in realtà sono semplici ricombinazioni di materiale
organico ispirate da tradizioni rurali millenarie, e imporre alla
fine di questo processo una tassa perenne per chiunque voglia
utilizzare i “supersemi” nati dalle sperimentazioni di laboratorio,
che devono essere acquistati dai loro “inventori” ad ogni nuovo
raccolto.
Con
questo sistema, ad esempio, Loren Miller dell’International Plant
Medicine Corporation, ha brevettato negli anni ‘90 l’ayahuasca,
una sostanza utilizzata nelle cerimonie religiose e nelle pratiche
di medicina tradizionale delle popolazioni indigene che vivono
lungo il bacino amazzonico. In teoria i brevetti non valgono in
tutto il mondo, ma solo nel paese in cui sono stati rilasciati,
in questo caso gli Stati Uniti, ma le regole sulla proprietà intellettuale
stipulate in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio hanno
esteso il potere dei brevetti al di là dei confini nazionali,
attraverso un complesso sistema di accordi multilaterali chiamati
Trips (TradeRelated Aspects of Intellectual Property Rights).
È
questo l’inghippo che potrebbe costringere in futuro le popolazioni
indigene, espropriate della loro biodiversità, a pagare un “pizzo”
per usare i loro prodotti tradizionali, una tassa destinata alle
aziende che per prime hanno marchiato con un brevetto prodotti
e sostanze che non hanno inventato. Assieme al brevetto, infatti,
Miller ha acquisito i diritti esclusivi di produzione e commercializzazione
dell’ayahuasca, appropriandosi di una medicina naturale che non
è il frutto delle sue ricerche, ma il risultato di una sapienza
antica tramandata di padre in figlio.
Le
grandi aziende multinazionali sono in agguato per trasformare
in guadagni sicuri i brevetti sull’apelawa, una varietà di grano
quinoa coltivata nelle Ande e impiegata nella cura della sterilità
maschile, sul cotone colorato coltivato dalle popolazioni indigene
del Sudamerica, oppure sull’albero neem, patrimonio delle coltivazioni
tradizionali in Asia e Africa dell’Est,
utilizzato
per produrre un pesticida naturale e un dentifricio dalle proprietà
curative e antibatteriche. Il nome di quest’albero è di derivazione
persiana, e significa “albero libero”, ma oggi c’è chi vuole negare
questa libertà. L’ingordigia dei brevettatori non risparmia
neppure piante come il pepe nero e il riso parboiled. Il governo
degli Stati Uniti ha brevettato perfino il codice genetico di
un uomo indigeno Hagai della Papua Nuova Guinea, rinunciando a
qualsiasi rivalsa sul brevetto (che è diventato di pubblico dominio),
ma creando di fatto un pericolosissimo precedente nella storia
della scienza.
Le
aziende e i governi che sostengono il principio di brevettabilità
della materia vivente, e l’affermazione di una “proprietà intellettuale”
su piante, animali e semi ottenuti con manipolazioni genetiche,
fanno rispettare i loro diritti vietando la “riproduzione abusiva”
di materiale organico. Se io compro un fiore, quel fiore è mio,
e posso anche usarne il polline per far nascere altri fiori, ma
quando compro dei semi geneticamente modificati questo principio
non è più valido, e le tradizioni rurali e contadine si scontrano
con le regole violente del biocopyright che impediscono la conservazione
dei semi e il loro riutilizzo per altre stagioni di semina.
La
multinazionale Monsanto ha perfino creato un gruppo di guardie
private, la cosiddetta “polizia dei semi”, che ha lo scopo di
utilizzare tutti i metodi possibili, compresa la delazione dei
vicini di fattoria, per denunciare e processare tutti i pirati
che sperimentano utilizzi “irregolari” delle sementi Monsanto,
una pratica di repressione poliziesca che dal 1997 ha già prodotto
decine di azioni legali a danno di coltivatori statunitensi e
canadesi di soia, colza e cotone.
Tra
le vittime della “polizia dei semi” sguinzagliata dalla Monsanto
c’è anche Homan McFarling, un produttore statunitense di soia
che ha conservato i semi delle piante biotech per riutilizzarli
nella stagione successiva, secondo un’abitudine contadina tramandata
da una generazione all’altra. “Mio padre metteva da parte
i semi, e io faccio lo stesso”, ha raccontato Homan, che a 62
anni continua a coltivare il suo terreno a Shannon, nello stato
del Mississippi, e che oggi non deve più combattere contro le
carestie, le malattie delle piante e il maltempo, ma contro una
spietata azione legale che potrebbe costargli centinaia di migliaia
di dollari.
Kem
Ralph, un contadino di Covington, Tennessee, è stato condannato
a otto mesi di reclusione per aver cercato di nascondere un carico
di semi di cotone destinati ad un suo amico. Oltre al carcere,
questo gesto di ribellione piratesca gli è costato anche una multa
da 165 mila dollari: i semi biotech non si possono conservare
o regalare, ma vanno piantati, e per una stagione soltanto.
Per
difendere il diritto dei contadini al riutilizzo dei semi, negli
Stati Uniti si è mobilitato anche il “Center for Food Safety”
(Centro per la Sicurezza Alimentare), un’organizzazione indipendente
che ha pubblicato nel gennaio 2005 un rapporto dettagliato sulle
pratiche intimidatorie e le persecuzioni legali messe in atto
dalla Monsanto ai danni dei pirati contadini che chiedono solamente
di fare quello che hanno fatto per secoli le generazioni che li
hanno preceduti.
“Queste
cause legali non sono altro che una forma di estorsione praticata
a danno dei coltivatori statunitensi”, ha dichiarato Andrew Kimbrell,
il direttore esecutivo del Center for Food Safety. “La Monsanto
sta inquinando le fattorie statunitensi con raccolti geneticamente
modificati, senza dare ai contadini un’informazione appropriata
sulle sementi manipolate, e traendo profitto dalla propria irresponsabilità
e negligenza con le cause a danno dei contadini innocenti. Il
nostro impegno è quello di fermare questa persecuzione aziendale”.
Secondo
i dati del centro la Monsanto ha realizzato in totale 90 cause
legali in 25 differenti stati degli Usa, colpendo con queste azioni
147 agricoltori e 39 piccole aziende agricole. Il gigante dei
semi dedica a questo enorme sistema di persecuzione 10 milioni
di dollari all’anno, e una task force di 75 dipendenti che danno
la caccia ai contadini pirata.
Joseph
Mendelson, il direttore legale del Centro per la Sicurezza Alimentare,
afferma che la Monsanto “vuole diventare il monopolista nel settore
delle sementi, negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Per raggiungere
questo obiettivo sta attaccando aggressivamente delle pratiche
contadine vecchie di secoli, e manda fuori mercato i suoi stessi
clienti colpendoli con azioni legali”.
Le
proposte politiche del centro comprendono l’approvazione di leggi
per una moratoria sull’utilizzo di sementi geneticamente modificate,
una modifica alle leggi statunitensi sui brevetti che escludano
le piante dall’elenco del materiale brevettabile, e una legge
che tuteli i contadini entrati in contatto accidentalmente con
le sementi brevettate perché trasportate sul proprio terreno dal
vento o da altri fenomeni di “inquinamento biologico”. In
Canada, ad esempio, il Centro di ricerca del Ministero dell’Agricoltura,
a Saskatoon, ha dichiarato che “polline e semi si sono estesi
in modo tale che ormai è difficile coltivare varietà tradizionali
di colza senza che siano contaminate”. Nei campi di un agricoltore
canadese, Percy Schmeiser, più di 320 ettari di terreno sono stati
invasi dai semi biotech Monsanto portati dal vento, e di fronte
alle lamentele di Schmeiser la Monsanto è passata alle vie legali
con una causa per “furto di semi”, pretendendo un risarcimento
pari a circa 30 dollari per ettaro.
“Dove
finiscono i diritti della Monsanto e cominciano i miei?” — ha
domandato Schmeiser.
“Ho
sempre coltivato i miei prodotti, non ho mai voluto piantagioni
modificate geneticamente. Non ho mai avuto niente a che fare con
la Monsanto, ed ora sembra che tutto quello che è nel mio terreno
sia diventato di loro proprietà”.
A
dispetto delle minacce, delle intimidazioni e delle repressioni,
i pirati contadini affermano che il legame millenario tra l’uomo
e la terra non potrà mai essere spezzato dalle carte bollate con
cui i signori del biotech cercano di dominare il mercato agroalimentare,
e si ostinano a fare quello che facevano i loro nonni: conservano
i semi, li utilizzano per produrre nuove sementi, realizzano incroci
di piante e animali per ottenere dei prodotti migliori.
La retorica delle multinazionali è sempre uguale a se stessa:
ho finanziato delle ricerche, e quindi ho il diritto di dettare
le regole di utilizzo dei semi che vendo. La risposta a questa
retorica è altrettanto scontata: il monopolio legato ai brevetti
ti garantisce profitti stratosferici, e quindi ti basta pochissimo
tempo per recuperare i costi di ricerca. Tutto il resto è una
indebita ingerenza nel libero esercizio dell’attività contadina,
e come tale va rifiutata.
La
natura non è violenta, ma risponde alle variazioni di contesto
in modo dolce e adattativo, contrastando le minacce con la biodiversità
che offre maggiori opportunità di sopravvivenza alle specie vegetali.
Nel suo delirio di onnipotenza, la cultura del profitto punta
tutto sulla ricerca di varianti “super” delle piante, in modo
da ottenere superpomodori che non congelano, supermais inattaccabile
dagli insetti, superfrutta che marcisce più lentamente.
In
questa ottica le coltivazioni “vecchie” o poco redditizie sono
destinate a scomparire. Ogni giorno, sotto i nostri occhi, le
leggi del mercato decretano la condanna a morte di decine di specie
viventi, che cadono nell’oblio irreversibile dell’estinzione e
rendono tutto il mondo biologicamente più povero. L’affermazione
delle “superpiante” come standard nelle coltivazioni porta con
se la perdita di varietà nel settore agricolo, l’abbandono delle
coltivazioni locali, l’erosione del patrimonio genetico del mondo
e l’estinzione di intere razze, specie e sistemi.
Alla
filosofia dei vegetali superman i pirati contadini rispondono
con la ricerca della biodiversità, l’unica vera forma di tutela
per garantire la sicurezza alimentare del pianeta, e guardano
con diffidenza alle “superpiante” nate dalle manipolazioni genetiche,
perché sanno che la migliore difesa della natura è la biodiversità:
l’unica cosa che può tutelarci dalle malattie delle piante è l’esistenza
di altre piante dal patrimonio genetico leggermente differente,
che risultano più adattabili alla sopravvivenza in caso di epidemie,
variazioni climatiche, invasioni di insetti o altri cambiamenti
ambientali.
La
continua ricerca della ricchezza monetaria ci sta inconsapevolmente
portando verso la distruzione della ricchezza biologica: ai nostri
mercati basta riempire gli scaffali con fagioli borlotti e cannellini,
e poco importa se la natura ha messo a disposizione dell’uomo
centinaia di tipi di fagioli (solo in Italia se ne contano 50
rare varietà).
Migliaia
di ortaggi, cereali, alberi da frutto e razze animali, selvatiche
o selezionate nel corso dei secoli dal lavoro paziente di contadini
e allevatori costituiscono un patrimonio insostituibile che prende
il nome di “biodiversità rurale”. Questa ricchezza inestimabile
si sta progressivamente consumando con un lento processo di erosione,
inesorabile e irreversibile. Ogni volta che una forma di vita
scompare senza lasciare traccia di se, si perdono per sempre sapori
originali e piatti tipici particolari, principi attivi per la
cura delle malattie, varietà di piante più rustiche e meno attaccabili
dagli insetti, animali splendidi per carattere e istinto, saperi
di una cultura contadina millenaria che ha abitato le campagne
italiane e di altri paesi del mondo.
Migliaia
di specie viventi animali e vegetali sono destinate a scomparire
o sono già scomparse perché inadeguate ad un mercato che ha bisogno
di pochi, semplici prodotti, e non può permettersi di confondere
i consumatori con l’infinita ricchezza delle risorse naturali.
Negli
anni ‘50 i contadini dell’India coltivavano più di 30.000 varietà
tradizionali di riso, ma oggi il 75% del riso coltivato nel paese
corrisponde a 10 varietà moderne. Un migliaio di tipi di mele
antiche italiane sono state soppiantate da quattro nuovi tipi
di mele commerciali, delle 25 varietà italiane di cocomero coltivate
all’inizio del secolo ne rimane in vita una sola, il moscadello
a pasta gialla, i cui semi sono conservati nei frigoriferi dell’orto
botanico di Lucca. Gli altri cocomeri nostrani sono ormai irrimediabilmente
estinti, soppiantati dalle varietà di provenienza americana. Nella
storia dell’umanità nessuno potrà mai più gustare il sapore del
cocomero chiamato “la romagnola”, che prima della guerra veniva
descritto come una varietà eccellente all’interno dei cataloghi
di sementi.
L’enorme
elenco delle devastazioni compiute a danno della biodiversità
rurale comprende anche le 33 varietà italiane di broccolo scomparse
senza che nessuno se ne sia accorto, come il broccolo nero di
Sicilia o il broccolo “lingua di passero”, che nessuno scienziato
potrà mai più riprodurre. All’inizio del secolo in Italia erano
coltivate circa 400 varietà di frumento “antico”, soppiantate
da un centinaio di specie più moderne. Chi potrà riportare in
vita la varietà di pomodoro chiamata “Re Umberto”, venduta fino
agli anni ‘60 e poi scomparsa in nome del “libero” mercato che
distrugge la vita e toglie gusto alla tavola?
Sono
in pochi a comprendere fino in fondo la gravità di questo irreversibile
processo di distruzione della ricchezza biologica, un fenomeno
terribile e sconosciuto al tempo stesso. C’è chi considera i semi
biotech come un oggetto di sua proprietà, in grado di garantire
guadagni spropositati a scapito dei contadini. C’è, invece, chi
considera la ricchezza del mondo naturale.come un patrimonio universale
del genere umano, e si batte per tutelare la sopravvivenza dei
semi a rischio, tesori inestimabili da affidare alle nuove generazioni
con il compito di salvare dall’estinzione il maggior numero possibile
di specie viventi.
I
“Seed Savers”, letteralmente “Custodi dei Semi”, sono contadini,
appassionati e amanti della natura che in tutto il mondo proteggono
e tutelano le specie a.rischio, conservano con cura i semi rari
prima che scompaiano definitivamente, si battono contro il pensiero
unico delle monoculture e delle superpiante e ci aiutano a riscoprire
la bellezza che nasce dalla varietà della natura, lanciando al
tempo stesso un segnale di allarme sul rischio di “erosione genetica”
all’interno dei nostri ecosistemi.
In
silenzio e senza clamore, i custodi dei semi difendono la vita
adottando e coltivando a proprie spese le piante che non fanno
gola al mercato, forme di vita che non portano all’uomo ricchezza
economica ma vitamine, sapori e principi attivi. Il custode dei
semi è un uomo che pensa in modo responsabile alle generazioni
future, e sa che la terra non ci è stata data in regalo dai nostri
padri, ma in prestito dai nostri figli, e sente la responsabilità
di consegnare a chi verrà dopo di noi un mondo con il maggior
numero possibile di forme di vita.
I
“seed savers” non si occupano di curiosità botaniche o di specie
rare già accudite dagli esperti, ma coccolano e proteggono vegetali
molto più ordinari, minacciati dalla continua riduzione del numero
delle loro specie: cavoli, cereali, lattughe, legumi, patate,
peperoni, pomodori e tantissimi vegetali che sopravvivono solo
nelle loro varietà più commerciali, con il rischio di estinzione
delle varietà antiche e di quelle tradizionalmente coltivate dalle
popolazioni indigene di un determinato territorio. A chi interessa
la sopravvivenza della carota nera di Viterbo? Di certo non ai
commercianti che farebbero fatica a piazzare sul mercato quello
che potrebbe sembrare un “nuovo prodotto”, ma che in realtà è
parte della nostra storia alimentare e della nostra ricchezza
biologica e genetica.
Una
fattoria statunitense di Decorah, nello stato dell’Iowa, è il
quartiere generale dell’associazione americana Seed Savers Exchange,
nata nel 1975, che ha realizzato in questa struttura una biblioteca,
un frutteto storico che mantiene in vita 700 varietà di mele del
1800 e 200 varietà di uva, 12 orti conservativi coltivati con
tecniche di agricoltura organica che producono i semi di oltre
2000 rare varietà di piante, e una “banca dei semi” che custodisce
la biodiversità di ventimila varietà di vegetali.
Ogni
anno gli aderenti all’associazione ricevono un catalogo che per
mette ai Seed Savers di tenersi in contatto tra loro per scambiare
sementi, e tenersi aggiornati sulle piante mantenute in vita dall’associazione:
più di 5.000 varietà di pomodori, provenienti da tutto il mondo,
di tutte le forme e toni di colore bianco, giallo, arancione,
rosso e violetto; i mais multicolori, i fagioli e le zucche delle
tribù native americane; 400 diversi tipi di meloni, molti dei
quali sono più vecchi di un secolo; 1.200 peperoni di cui una
parte provenienti dalle culture amerinde precolombiane; 850 tipi
diversi di lattughe, 900 di piselli, 135 di melanzane, 150 vecchie
varietà di girasole, una collezione di 200 tipi di aglio e moltissimi
altri tipi di piante. Sull’esempio dei pionieri statunitensi,
in moltissimi paesi del mondo sono nate reti di conservazione
dei semi: in Australia la rete Seed Savers’ Network custodisce
la biodiversità dei semi coltivati dagli aborigeni e di quelli
importati in Australia dagli emigranti. Il loro lavoro ha permesso
di salvare molte varietà italiane di ortaggi, scomparse in Italia
ma sopravvissute in Australia tramandandosi di padre in figlio.
Tra gli obiettivi di questa associazione, che conserva 5.500 varietà
nella sua banca dei semi, c’è anche la conservazione e la restituzione
dei semi alle popolazioni native dell’Australia, che mantengono
viva la loro cultura attraverso le loro coltivazioni tradizionali.
Anche
in Europa i custodi dei semi lavorano pazientemente la terra nell’indifferenza
della politica e dei media, e la biodiversità delle sementi italiane
è custodita da Civiltà Contadina, un’associazione che realizza
progetti di recupero della cultura rurale, per salvare gli ortaggi
e gli alberi da frutto italiani che rischiano l’estinzione.
Civiltà
Contadina ha realizzato una rete di scambio dei custodi di semi
italiani, realizza attività specifiche per la valorizzazione di
antiche varietà di frutta e animali da cortile in via di estinzione,
mette le proprie competenze a disposizione delle scuole che vogliono
realizzare orti didattici biologici, strumenti che trasformano
le azioni a difesa della biodiversità in esperienze educative
a beneficio dei più giovani, che possono “adottare” nella loro
scuola specie rare di piante e animali.
Ma
la lotta dei pirati del cibo per la difesa della biodiversità
non si limita alla tutela di varietà vegetali e animali a rischio
di estinzione. La sopravvivenza di molti prodotti tipici locali,
infatti, è stata messa in discussione dalle leggi comunitarie
che tutelano il mercato europeo e non le tradizioni gastronomiche
locali. Per questo motivo molti contadini e piccoli produttori,
prima dell’introduzione di opportune deroghe sui prodotti tipici,
hanno sfidato le normative europee per continuare a produrre cibi
e specialità ricevute in eredità dai propri progenitori.
È
così che si sono salvati dall’estinzione i processi di produzione
tradizionali che utilizzano fosse di tufo per stagionare formaggi
come l’Ambra di Talamello, o le conche di marmo delle Alpi Apuane
dove nasce il Lardo di Colonnata, dichiarati fuorilegge dalle
norme che prevedevano di sostituire le fosse con ambienti asettici
o di rimpiazzare il marmo con l’acciaio.
Grazie
all’ostinata passione per la cultura gastronomica dimostrata dai
pirati del cibo, che hanno rivendicato di fronte all’Europa e
alle sue leggi il diritto all’esistenza dei prodotti tipici, oggi
possiamo gustare ancora prelibatezze come la Misischia del Molise,
carne caprina disossata, salata ed aromatizzata con ginepro, rosmarino
ed aglio, che viene essiccata all’aperto per oltre un mese su
aste di legno, oppure il formaggio sardo con i vermi tuttora illegale,
i fichi e i pomodori fatti seccare al sole o vini come il fragolino
(quello vero, non il vino aromatizzato alla fragola che si trova
nei supermercati), ottenuto da un incrocio ibrido “fuorilegge”
tra la tradizionale Vitis vinifera e altre specie di viti.
Solo
il tempo potrà dirci quali saranno i prodotti tipici che riusciranno
a sopravvivere a questo scontro tra tradizione e mercato, tra
saggezza popolare e prescrizioni “scientifiche”, tra la passione
per il cibo e le fredde regole della burocrazia.
“Il
re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il
mare. E quegli con franca spavalderia: ‘La stessa che a te per
infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché
lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo
fai con una grande flotta”. [S. Agostino, De civitate Dei,
IV]
Che
cosa possono avere in comune un ragazzino cieco e un guru della
tecnologia di strada? Il primo avrà delle esigenze molto diverse
da quelle del secondo, e chi si occupa di computer generalmente
non è molto avvezzo a risolvere i problemi di persone disabili.
Ma
la voglia di comunicare, unita alla curiosità di conoscere trasformano
questa strana accoppiata nel gruppo più affascinante di pirati
tecnologici degli anni ‘70, che cambiano la cultura del mondo
e la storia della tecnologia grazie alle sperimentazioni sulle
reti telefoniche. Si tratta del cosiddetto “Phone Phreaking”,
una attività che nei “jargon files”, il dizionario del gergo hacker,
è definita come “l’arte e la scienza di rompere le protezioni
della rete telefonica, ad esempio per fare telefonate interurbane
gratuitamente”.
Tutto
comincia quando John Draper, un hacker statunitense passato alla
storia con il nome di “Capitan Crunch”, incontra Dennie, un ragazzo
cieco appassionato di telefonia che mostra al “Capitano” come
si possono riprodurre i toni utilizzati dalle centrali telefoniche
utilizzando il suo organo Hammond. Dennie sa che Draper è un ingegnere
elettronico, e gli propone di costruire un circuito con il quale
generare gli stessi toni per effettuare telefonate interurbane
gratuite, sfruttando i punti deboli delle centrali telefoniche.
Tornando a casa, Draper inizia a costruire un rudimentale dispositivo
di trasmissione multifrequenza che più avanti verrà battezzato
“Blue Box” (scatola Blu), proprio perché i primi, rudimentali
circuiti realizzati per il “Phone Phreaking” erano confezionati
in modo tutt’altro che professionale, e venivano impacchettati
all’interno di normali scatolette colorate. Grazie alla
sua invenzione l’ingegnere Draper si trasforma in “Capitan Crunch”,
un pirata dell’era moderna che diventa il riferimento di un gruppo
di ragazzi con lo stesso problema di Dennie, e che grazie alle
Blue Box riescono a “navigare” gratuitamente nella rete telefonica
alla ricerca di contatti umani, di nuove voci e suoni con i quali
riempire il buio.
John
Draper deve il suo nome di battaglia ai cereali “Capitan Crunch”:
in ogni confezione era contenuto un fischietto omaggio che riproduceva
casualmente la nota con la frequenza di 2600 Hertz necessaria
negli Stati Uniti per “ingannare” le centrali telefoniche ed evitare
l’addebito delle chiamate. Le leggende apocrife nate attorno
a questo personaggio narrano di telefonate intercontinentali gratuite
effettuate con il solo uso del fischietto, ma sono i circuiti
elettronici creati da Draper, e non il fischietto che lo ha ribattezzato,
la vera chiave che apre le porte della rete telefonica mondiale
a chi è abbastanza coraggioso da sfidare le ire delle grandi compagnie
telefoniche. Il termine Phreaking nasce dall’unione dei
telefoni (PHone) con le attività dei geniali “fricchettoni” (fREAKs)
che si sono divertiti a smanettare (hacKING) sulla rete telefonica,
per scoprirne misteri e debolezze. Questi avventurieri degli anni
‘70 non erano guidati dalla voglia di risparmiare qualche gettone:
lo scopo dei loro giochi fuorilegge era una inestinguibile sete
di conoscenza. “Freak” è un termine che indica le persone strane,
i “diversi”, chi esce in qualche modo dagli schemi condivisi di
“normalità” o non si attiene alle regole in vigore, e a pensarci
bene Draper e i suoi ragazzi sono proprio una meravigliosa icona
di questa diversità incompresa, un promemoria vivente che ci ricorda
quanta genialità e quanta arte si possono nascondere dietro la
disabilità e dietro la tecnologia.
Il
fuoco sacro che anima l’azione dei “Phone Phreakers” è la voglia
di governare quella “magia” che fa viaggiare la nostra voce su
un filo di elettroni per raggiungere ogni angolo della terra in
cui sia presente un telefono. Solo chi è talmente ottuso da ragionare
solo in termini di denaro può pensare che tutto questo sia guidato
dalla voglia di risparmiare soldi sulla bolletta: in realtà l’arte
del Phone Phreaking non ha nulla a che vedere con l’avidità, e
ruota attorno ad una voglia insopprimibile di conoscere i segreti
più nascosti della più imponente opera di ingegneria che sia mai
stata concepita nella storia dell’umanità: la rete telefonica
mondiale.
L’innovazione
tecnologica più importante nata da questa cultura under ground
è la “Blue Box” già citata in precedenza, il dispositivo che utilizzava
le debolezze del sistema telefonico dell’epoca per fare telefonate
gratuite. Il trucco era quello di passare attraverso i “numeri
verdi”, che negli Stati Uniti (e da un po’ di tempo a questa parte
anche in Italia) sono quelli che iniziano per 800. Dopo aver chiamato
i numeri verdi, i toni prodotti dalle Blue Box ingannavano le
centrali simulando la fine del collegamento, mentre in realtà
la linea era disponibile per un’altra telefonata, questa volta
su un numero a pagamento.
A
cavallo tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, il destino di “Capitan
Crunch” si intreccia con quello di Steve Wozniak e Steve Jobs,
i due studenti dell’università di Berkeley che nel 1976 costruiscono
nel garage di Jobs il personal computer “Apple I”, e ricavano
il capitale iniziale per fondare la “Apple Computer Company” vendendo
la calcolatrice programmabile di Wozniak e il pulmino Volkswagen
di Jobs.
John
Draper è una vera miniera di aneddoti relativi alle attività di
“Boxing” nei dormitori di Berkeley: una leggendaria telefonata
in Vaticano (ovviamente gratuita) è la “prova d’esame” con cui
Wozniak vuole sperimentare in grande stile le tecniche di “Phreaking”
apprese dal “Capitano”. Dopo essersi spacciato per il segretario
di stato Henry Kissinger, Wozniak riesce a parlare con dei funzionari
del Vaticano, e per pochissimo non riesce a entrare in contatto
diretto con il Santo Padre.
Draper
è affascinato e morbosamente incuriosito dal funzionamento del
sistema telefonico, al punto da non perdere occasione per spiegare
i suoi trucchi a chiunque gli capitasse a tiro. In lui la voglia
di conoscere e l’esigenza di condividere con altri le proprie
conquiste si sostengono e si alimentano a vicenda. Dopo essere
finito in carcere per le sue scorribande telefoniche, Draper viene
imprigionato anche per le cose che dice, e non solo per quelle
che fa. L’Fbi, infatti, gli proibisce di divulgare qualsiasi tipo
di informazione relativa al Phone Phreaking, ma questa arte tecnologica
fa parte integrante della sua vita, del suo modo di essere e di
esprimersi. Anche dopo l’ennesimo arresto il “Capitano” però non
si scoraggia mai, e perfino durante i suoi soggiorni in carcere
riesce a organizzare un’estemporanea università del Phone Phreaking,
dando lezioni ai detenuti sul funzionamento del sistema telefonico.
Il
destino di Wozniak e Jobs è drasticamente differente da quello
di John Draper: i due iniziano la loro carriera vendendo Blue
Box nei dormitori di Berkeley e si ritrovano alla guida di una
compagnia multimiliardaria, mentre Capitan Crunch, che non ha
mai trasformato in un commercio la sua arte, diventa un soggetto
sovversivo da rinchiudere dietro le sbarre.
La
storia di Capitan Crunch ci racconta che la pirateria telefonica
non è una attività orientata al profitto: nessuno si è mai arricchito
telefonando gratis, mentre le compagnie telefoniche si arricchiscono
continuamente praticando tariffe che non hanno nessuna proporzione
con i costi effettivi necessari alla gestione e alla manutenzione
delle reti.
La
telefonia cellulare è quella più economica per le “Telco”, le
grandi compagnie telefoniche, in quanto elimina i costi più alti
di tutta la rete: quelli legati al cosiddetto “ultimo miglio”,
il percorso nel quale la compagnia telefonica deve stendere un
cavo che parta dalla centrale più vicina e arrivi nel muro di
casa. Ciò nonostante, la telefonia mobile ha prezzi, tariffe e
servizi che superano di gran lunga quelli della telefonia fissa.
Chi ci ha guadagnato dalla privatizzazione della telefonia? I
cittadini che spendono sempre di più per comunicare tra loro o
un piccolo gruppo di squali della finanza che ha cannibalizzato
a proprio vantaggio il servizio pubblico telefonico trasformandolo
in una mucca da soldi?
Ben
vengano, dunque, tutte le forme di pirateria artistica, riappropriazione
tecnologica e ingegneria creativa che puntano alla liberazione
delle tecnologie dedicate allo sviluppo delle relazioni umane,
personali e collettive. La comunicazione e la possibilità di entrare
in relazione con gli altri è un diritto dell’uomo fondamentale
e inalienabile. L’articolo 19 della dichiarazione universale dei
Diritti Umani stabilisce che tutti gli uomini e le donne del mondo
hanno il diritto “di cercare, ricevere e diffondere informazioni
e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Quando
si parla di “ogni mezzo” per affermare questo diritto, senza dubbio
nell’elenco dei mezzi possibili rientrano anche le tecniche di
“Phreaking”, che riducono di una quantità infinitesimale l’ingiusto
profitto di pochi per affermare il diritto di molti a usare la
fantasia e l’ingegno per parlare con altre persone senza limiti
di spazio, di luogo, di tempo e di denaro.
Il
telefono è un insostituibile mezzo di comunicazione e di relazione
a distanza, che permette di scavalcare le frontiere per unire
tutta l’umanità in una sola, grande famiglia. Durante le guerre
moderne i telefoni hanno fatto da ponte tra le popolazioni combattenti,
mantenendo in vita sottilissimi fili di unione e di speranza in
un futuro senza battaglie. Se la comunicazione è un diritto inalienabile
dell’uomo, e il telefono è uno strumento indispensabile di comunicazione
a distanza, la pirateria telefonica è una nobile forma di artigianato
elettronico che assicura il rispetto di uno dei diritti fondamentali
dell’uomo.
“Il
controllo dell’intero mercato farmaceutico da parte di un gruppo
che vede coinvolte cinque multinazionali soltanto è la causa diretta
della morte di milioni di persone ogni giorno”.
[Mauro
Guarinieri, Planet Aids]
I
pirati dei farmaci lottano contro due nemici terribili: un nemico
interno, il virus dell’Aids, capace di mutare un miliardo di volte
nell’arco delle 24 ore all’interno del corpo umano, e un nemico
esterno, le multinazionali del farmaco, capaci di mutare aspetto
nascondendo dietro la nobile maschera della ricerca scientifica
l’avidità più pura, quella capace di camminare sui cadaveri di
altre persone per aumentare gli zeri di un conto in banca.
Per vincere la battaglia contro il virus dell’Aids e l’ingordigia
delle multinazionali farmaceutiche non è sufficiente starsene
buoni e speranzosi ad aspettare che i governi decidano finalmente
di servire gli interessi dei popoli anziche quelli delle aziende,
ma bisogna trasformarsi in pirati dei farmaci, e spingere la produzione
di medicine antiaids anche in zone grigie che sfidano i brevetti,
per difendere il diritto alla vita quando viene minacciato dal
diritto al profitto che molti, disgraziatamente, ritengono superiore
a qualunque altro diritto dell’uomo.
Ci
piace pensare che la ricerca farmaceutica ha come obiettivo la
lotta alle malattie, il benessere dell’umanità e la salute mondiale,
ma in realtà le cose sono molto diverse. La lobby delle case farmaceutiche
non persegue questi nobili ideali, e non è tenuta a farlo perché
i suoi membri non sono agenzie governative o strutture umanitarie,
ma aziende private orientate al profitto.
È
per questo che la ricerca sui farmaci preferisce concentrarsi
sulle malattie più redditizie (quelle che colpiscono i paesi più
ricchi) e non su quelle più diffuse (che colpiscono milioni di
persone nei paesi impoveriti dove non c’è mercato).
I
pirati dei farmaci diventano sabbia nel motore dei poteri forti
che danno un valore economico alla vita umana, gli stessi poteri
che scagliano condanne a morte su chi è troppo povero per guarire
da malattie curabili. Nel tragico mercato della salute la vita
di un cane può essere più preziosa di quella di un uomo: le grandi
case farmaceutiche si sono decise a trovare una cura per la leishmaniosi
viscerale, una malattia che nel 2000 ha colpito più di 150 mila
persone, solo quando la malattia è arrivata in Spagna, e ha cominciato
a colpire 5 mila cani all’anno.
Gli
spagnoli che possiedono cani hanno maggiori possibilità d’acquisto
dei poveri che si ammalavano di leishmaniosi, e questa molla è
stata sufficiente per far scattare l’interesse dei big del farmaco.
Per le stesse ragioni la ricerca sui cosmetici attira più fondi
che la ricerca per debellare la malaria, la tubercolosi, la malattia
del sonno, la polmonite o altre malattie “fuori mercato” perché
colpiscono uomini e donne con un basso potere d’acquisto, che
muoiono a milioni ogni anno uccisi dalla nostra ingordigia prima
ancora che dalle loro malattie.
Così
come un sistema economico basato sulla competizione e non sulla
solidarietà tra gli individui prevede come “effetti collaterali”
una percentuale fisiologica di esuberi, disoccupati, cassaintegrati,
uomini e donne che non potranno mai esprimere pienamente il loro
potenziale umano, così un sistema farmaceutico basato sul profitto
e non sulla tutela della vita prevede l’esistenza di una percentuale
di “vittime sacrificali” troppo povere per poter sopravvivere
a malattie curabili, milioni di persone che ogni anno vengono
sacrificate sull’altare del profitto e muoiono per il virus più
grave che abbia mai colpito il genere umano: quello dell’indifferenza.
Anche
quando le pressioni internazionali portano allo sviluppo di terapie
efficaci, l’accesso ai nuovi farmaci non è un diritto che nasce
dalla condizione di ammalato, ma un privilegio consentito o negato
in base al censo e alla nazione di appartenenza.
L’esistenza
di farmaci in grado di rallentare efficacemente il decorso dell’Aids
non è una conquista scientifica dell’intera umanità, ma è un lusso
riservato a quei pochi che possono permettersi l’accesso ai farmaci
antiretrovirali che allungano la vita di parecchi anni. Gli altri,
che sono la maggioranza degli ammalati di Aids del mondo, muoiono
nell’indifferenza generale mentre i pirati dei farmaci cercano
un modo per produrre a basso costo le terapie che potrebbero salvare
milioni di vite umane.
È
quello che ha fatto Nelson Mandela il 25 novembre del 1997, firmando
una legge pirata che sfida i brevetti delle multinazionali: si
tratta del “Medicines and Related Substances Control Amendment
Act”, subito impugnato da un cartello di 39 compagnie farmaceutiche
che trascinano in tribunale il governo sudafricano attraverso
l’Associazione dell’industria farmaceutica del Sudafrica.
Con
questa legge il Sudafrica dà attuazione concreta ai principi di
“registrazione forzata” e di “importazione parallela” previsti
in caso di necessità dagli accordi sulla proprietà intellettuale
stipulati in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio, i
cosiddetti Trips (TradeRelated Aspects of Intellectual Property
Rights).
Fare
ricorso all’importazione parallela significa affrontare l’emergenza
sanitaria dell’Aids comprando i farmaci nei paesi che li vendono
a minor prezzo, senza acquistarli direttamente dalle compagnie
produttrici. I detentori dei brevetti sui farmaci, infatti, agiscono
in regime di monopolio, e quindi praticano prezzi altissimi, spesso
differenti da un paese all’altro. Che male c’è se uno compra un
farmaco dove costa meno? Eppure per questo “affronto” all’egemonia
delle case produttrici il governo sudafricano è stato trascinato
in tribunale come “pirata” dei farmaci.
L’importazione
parallela può riguardare anche i cosiddetti “farmaci generici”,
cioè i farmaci “non di marca” che vengono prodotti ai di fuori
dell’ombrello dei brevetti. Infatti, poiche i brevetti non sono
dei diritti universali come i diritti umani (e questo i pirati
dei farmaci lo sanno benissimo) in alcuni paesi il brevetto su
un farmaco ha lo stesso valore della carta straccia, e questo
consente alle aziende farmaceutiche di produrre le stesse medicine
a costi e a prezzi molto più bassi, salvando un maggior numero
di vite umane e distribuendo i profitti del settore farmaceutico
al di fuori di quel ristretto gruppo di aziende che controllano
il mercato delle medicine, e di conseguenza la vita di milioni
di persone.
Sembra
un furto, vero? Quelle povere aziende farmaceutiche investono
tanti soldi per la ricerca, poi arriva qualche pezzente dal terzo
mondo e si mette a produrre gli stessi farmaci sfruttando le scoperte
degli altri. Basta avvicinarsi alla realtà africana dell’Aids
per scoprire che le cose stanno diversamente, e che per molti
ammalati dei paesi impoveriti l’unica alternativa possibile alle
importazioni parallele è la morte di milioni di persone, e non
un regolare acquisto dai “legittimi” detentori del brevetto, ammesso
che si voglia riconoscere legittimità a questo sistema che privilegia
il guadagno degli inventori alla vita delle persone.
Le
“registrazioni forzate”, invece, riguardano la produzione interna,
e la possibilità di realizzare in proprio i farmaci di cui un
paese ha bisogno, riconoscendo un contributo forfettario ai detentori
dei brevetti, che in questo modo vengono registrati da uno Stato
per l’utilizzo nella sanità pubblica e sottratti ai detentori
originari che avrebbero utilizzato gli stessi brevetti per la
realizzazione di profitti privati.
Con
il “Medicines Act”, infatti, Nelson Mandela ha autorizzato in
Sudafrica la produzione locale di farmaci antiAids senza l’autorizzazione
dei detentori dei brevetti. Le eccezioni agli accordi Trips, infatti,
prevedono che in caso di emergenze sanitarie (e l’Aids in Africa
lo è di sicuro) l’accesso ai farmaci va garantito anche in violazione
delle norme sui brevetti.
Lo
scontro legale tra il governo sudafricano e “Big Pharma”, il cartello
delle grandi multinazionali del farmaco, si conclude dopo una
frenetica mobilitazione degli attivisti di tutto il mondo, che
si schierano accanto ai pirati sudafricani nella loro lotta contro
l’apparente legalità dei brevetti, che nega nei fatti i principi
di giustizia e il diritto alla vita. Il 19 aprile 2001 le 39 compagnie
che avevano trascinato in giudizio il Sudafrica ritirano la loro
azione legale sotto la pressione dell’opinione pubblica mondiale,
coinvolta nel processo dall’azione del Treatment Access Group
(Tac), un gruppo di attivisti sudafricano (fondato da tre persone
malate di Aids) e dall’organizzazione “Medici Senza Frontiere”,
che in vista del processo hanno costruito su internet una campagna
internazionale contro le compagnie farmaceutiche e a favore dei
malati di Aids.
Ma
la guerra tra i paladini dei brevetti e i pirati dei farmaci è
ancora aperta, con lo scontro ideologico tra chi sostiene il primato
delle idee e chi difende quello della vita anche a costo di “rubare”
idee altrui (in realtà è impossibile rubare un’idea, si può solo
moltiplicarla o diffonderla nel farla passare da un individuo
all’altro). Anche i brevetti, come il copyright, nascono come
accordi che le comunità stipulano con gli inventori per stimolare
il fiorire di nuove idee, la disponibilità di nuove tecnologie,
l’accesso a nuovi farmaci che migliorano la qualità della vita
e ne prolungano la durata. Ma oggi tutto questo è solo un ricordo
del passato, e i brevetti sono solo delle “mucche da soldi” utilizzate
senza scrupoli da un cartello di aziende che controlla il mercato
farmaceutico.
L’idea
dei brevetti è questa: tu registri un’invenzione, i cittadini
ti riconoscono un ragionevole vantaggio per farci dei soldi, e
dopo questo periodo di vantaggio la tua idea diventa libera e
a disposizione di tutti.
È
un accordo in cui i cittadini di un paese cedono temporaneamente
parte della loro libertà, la libertà di nutrirsi di idee altrui
per migliorarle e migliorare la vita, e in cambio ricevono un
maggior numero di idee e di invenzioni, perché gli inventori che
godono di un monopolio temporaneo sono più produttivi. Quindi
i brevetti non sono un diritto naturale, ma una concessione, un
riconoscimento che si fa agli inventori.
Siamo
sicuri che oggi l’accordo internazionale sui brevetti favorisca
i popoli, come dovrebbe essere, e non dei piccoli gruppi di interesse
e di potere?
Siamo
sicuri che i venti anni di vantaggio previsti dal sistema dei
brevetti siano stati un buon affare per i cittadini del mondo,
oppure per diventare ricchi con una invenzione o con un farmaco
al giorno d’oggi basta molto meno? La violazione di un brevetto
è un crimine o è la riappropriazione legittima di una libertà
negata ingiustamente da un accordo squilibrato che mette l’interesse
privato al di sopra del bene comune, sovvertendo tutti i principi
alla base del diritto?
La
classica frase “non regalare un pesce, ma insegna a pescare”,
che spesso viene adoperata per aggirare il problema della restituzione
e nascondere tutti i pesci, le materie prime, le risorse naturali
e le vite umane che abbiamo rubato ai paesi impoveriti, non viene
utilizzata mai nella sua variante farmaceutica: “non regalare
una pillola, ma insegna a produrla, e non denunciare i poveri
che non pagano il pizzo ai detentori dei brevetti”. Forse morire
di fame è più grave che morire di Aids? Un brevetto è più importante
di milioni di vite umane spezzate da quel brevetto per dare ad
altri il “legittimo vantaggio” di un monopolio temporaneo?
Ma
soprattutto, di chi è il brevetto su un farmaco? Dello scienziato
che lo ha inventato, della multinazionale che ha assunto lo scienziato
e ha registrato il brevetto al posto suo, o delle persone ammalate
utilizzate come cavie, soprattutto nei paesi poveri, e che rappresentano
a pieno titolo tutti gli uomini, le donne e i bambini del mondo
colpiti da quella determinata malattia?
Negli
anni ‘90 l’azienda farmaceutica Novartis ha arruolato una grande
quantità di malati di leucemia per realizzare lo studio clinico
di un nuovo farmaco, e quando il prodotto è stato registrato il
suo prezzo era così alto da renderne proibitivo l’utilizzo perfino
per quelli che lo avevano sperimentato, e che dopo la sperimentazione
avrebbero dovuto pagare 19 dollari a compressa per 8 compresse
giornaliere, pari a 55 mila dollari all’anno di trattamento. Di
chi era quel farmaco, delle cavie, degli inventori o dei mercanti?
Quel farmaco, come tutti gli altri farmaci del mondo, dev’essere
dichiarato patrimonio dell’umanità, in nome di una ricerca scientifica
che difende la vita umana e non i profitti della Novartis.
Secondo
le proiezioni realizzate dall’ufficio di statistica delle Nazioni
Unite, in molti paesi africani il picco delle morti per Hiv/Aids
si verificherà negli anni che vanno tra il 2010 e il 2020. In
Nigeria, ad esempio, entro il 2020 questa malattia avrà ucciso
un milione e duecentocinquantamila persone, e prima del 2050 la
popolazione si sarà ridotta di 73 milioni di abitanti rispetto
all’inizio dell’epidemia. Entro il 2020 l’Hiv avrà ucciso più
persone di qualsiasi altra malattia mai apparsa sulla terra, e
di fronte a tutto questo c’è ancora chi ha il coraggio di difendere
la propria pancia piena e una “proprietà intellettuale” che si
trasforma in arma di distruzione di massa, un sistema di brevetti
che è un vero e proprio crimine contro l’umanità in quanto causa
diretta della morte di milioni di persone.
“Le
disuguaglianze sono sorprendenti — ha dichiarato il dott. Jonathan
Quick, direttore del Dipartimento per i farmaci di base dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità. — Nei paesi industrializzati un ciclo di
trattamento con antibiotici si può acquistare con l’equivalente
di 23 ore di lavoro. Il costo di un anno di trattamento contro
l’infezione da Hiv è equivalente a 46 mesi di salario. La maggior
parte dei costi per il trattamento sono rimborsabili. Viceversa,
nei paesi in via di sviluppo, un ciclo completo con antibiotici
costa un mese di salario. In molti di questi paesi un anno di
trattamento contro l’infezione da Hiv, ammesso che si potesse
comprare, costerebbe l’equivalente di 30 anni di salario. E in
questi paesi, la maggior parte dei farmaci sono a carico del paziente”.
Per
capire che oggi i brevetti non tutelano i cittadini, ma il profitto
delle aziende, e quindi vanno rigettati così come si rigettano
le leggi che danneggiano la collettività, basta fare i conti in
tasca alle multinazionali del farmaco, e scoprire che in un mercato
in recessione le aziende farmaceutiche sono le uniche ad aver
incrementato progressivamente i loro profitti nel corso degli
anni, che i prodotti farmaceutici vengono venduti a un prezzo
che è migliaia di volte superiore ai loro costi, che le spese
sostenute per la ricerca e lo sviluppo dei farmaci vengono recuperate
nel giro di pochi mesi con le vendite nei paesi industrializzati.
La maggior parte degli abitanti del mondo vive nei paesi impoveriti,
ma queste persone rappresentano poco più dell’1% del mercato globale
dei farmaci: chi è l’uomo così cinico da uccidere delle persone
per espandere di un punto percentuale il proprio bacino di clienti?
Perché non si regalano i brevetti sui farmaci ai paesi impoveriti
chiudendo una volta per sempre il valzer dell’ipocrisia attorno
al fumoso concetto di “proprietà intellettuale”?
Tra
qualche anno le generazioni future rideranno di questo assurdo
sistema protezionistico difeso a spada tratta dai sostenitori
del “libero” mercato, così come noi oggi ridiamo delle norme e
dei regolamenti medioevali che tutelavano le piccole corporazioni
del tempo. All’epoca i cappellai potevano chiedere l’arresto di
chiunque producesse o vendesse cappelli senza essere affiliato
alla corporazione dei cappellai, esattamente come fanno oggi le
case farmaceutiche quando qualcuno vuol produrre dei farmaci senza
adeguarsi alle regole sui brevetti imposte da “Big Pharma”.
Il
violento e oppressivo sistema dei brevetti viene descritto come
l’unica soluzione possibile per stimolare la ricerca scientifica,
ma è vero invece il contrario, e cioè che molti nuovi farmaci
vengono sviluppati grazie a investimenti pubblici “a fondo perduto”,
grazie al sostegno dei governi, delle fondazioni private e delle
università, e non grazie ai profitti dei brevetti. Le aziende
farmaceutiche acquistano abitualmente l’esclusiva di utilizzo
sui dati finali di ricerche pubbliche, e grazie a queste ricerche
riescono a sviluppare e produrre farmaci su larga scala, poi marchiano
tutto brevettando il processo di produzione di molecole già scoperte
da altri, e rivendono il farmaco brevettato in regime di monopolio
agli stessi cittadini che hanno finanziato le ricerche con le
loro tasse.
Chi
dice che i brevetti servono a sostenere economicamente la ricerca
scientifica mente sapendo di mentire, e i retroscena di questa
menzogna sono stati abilmente svelati dallo scrittore Mauro Guarinieri
nel suo libro “Planet Aids”:
'Salvo
pochissime eccezioni, la maggior parte dei farmaci in commercio
è facile da produrre, mentre il sovrapprezzo che i consumatori
sono costretti a pagare serve a mantenere il sistema monopolistico
basato sul brevetto. Considerato che le multinazionali farmaceutiche
vendono oltre 150 miliardi di farmaci l’anno, se eliminare i brevetti
portasse a una riduzione dei prezzi del 75%, sarebbe possibile
risparmiare 79 miliardi di dollari l’anno. Se i costi sono
così alti, quali sono i vantaggi per la comunità? Basandoci
sui dati delle stesse multinazionali farmaceutiche la spesa annua
per la ricerca biomedica ammonta a 22,5 miliardi di dollari. Considerato
che il governo degli Stati Uniti, paese in cui operano la maggior
parte delle multinazionali farmaceutiche, applica una riduzione
fiscale del 20% sulle spese di ricerca, 3,2 miliardi di dollari
sono a carico dei contribuenti.
Se
anche dovessimo credere che ogni anno vengono davvero spesi 22,5
miliardi di dollari in ricerca, solo 19 sono a carico del le multinazionali.
In altre parole, i consumatori spendono 82,2 miliardi di dollari
in più al solo scopo di “incentivare” le multinazionali farmaceutiche
a spenderne 19 in ricerca. Vale a dire che per ogni dollaro speso
in ricerca, se ne spendono altri quattro per sostenere il sistema
dei brevetti e altre attività che non hanno nulla a che fare con
la ricerca. Spendere quattro dollari per convincere le multinazionali
a spenderne uno soltanto: per il momento non sembra un risultato
straordinario'.
Quindi
più brevetti non corrispondono a più farmaci: al contrario l’esistenza
stessa del sistema dei brevetti è un freno alla ricerca scientifica,
che viene finanziata con le briciole lasciate sul tavolo dopo
la grande abbuffata delle multinazionali. La pirateria sui farmaci
va incoraggiata per mille motivi non solo nei paesi poveri dove
si muore a causa dei brevetti, ma anche nei paesi ricchi, dove
ogni anno le multinazionali del farmaco, attraverso il sistema
dei brevetti, depredano i cittadini di incalcolabili somme di
denaro, che non alimentano la ricerca scientifica, ma solamente
il conto in banca di qualcuno.
Se
anche l’Italia decidesse di aprire la strada alle importazioni
parallele e alle registrazioni obbligatorie come ha fatto il Sudafrica,
ogni anno la sanità pubblica risparmierebbe centinaia di migliaia
di euro, e questi soldi potrebbero essere utilizzati per offrire
servizi migliori. Le uniche a rimetterci sarebbero le compagnie
farmaceutiche, ma in quale modello di democrazia i diritti di
un’azienda, magari anche straniera, hanno priorità rispetto al
benessere e all’interesse dei cittadini che vivono in un territorio?
Il diritto universale, permanente e inalienabile alla salute viene
messo in secondo piano da chi lo dipinge come un’eccezione al
diritto della proprietà intellettuale, che è invece temporaneo
e revocabile. Nel mondo alla rovescia delle case farmaceutiche
gli interessi privati dei brevetti vanno tutelati anche quando
calpestano il diritto pubblico alla vita e alla salute.
La speranza in un mondo più vivo e libero, dove la scienza è amica
dell’uomo e cammina assieme a lui, ci arriva dall’azione di alcuni
grandi uomini che hanno scritto la storia della pirateria farmaceutica,
come Jonas Salk, l’inventore del primo vaccino contro la poliomielite.
Il 12 aprile 1955, quando il commentatore televisivo Edward R.
Murrow gli chiede a chi appartenga il brevetto sul vaccino antipolio,
Salk risponde “Io direi che appartiene alla gente. Non c’è brevetto.
Lei può brevettare il sole?” Anche Alexander Fleming, premio nobel
per la Medicina del 1945, rifiuta di brevettare la penicillina
dopo averla scoperta, e grazie a questa decisione milioni di vite
umane sono state salvate dalla disumanità delle leggi di mercato.
Il
microbiologo Emmanuel Epstein ha dichiarato che “in passato scambiarsi
in modo estemporaneo idee e osservazioni tra colleghi per condividere
le ultime scoperte, era la cosa più naturale del mondo, ora non
piú”, e le sue dichiarazioni segnano il passaggio dall’era dei
ricercatori puri desiderosi di produrre e condividere conoscenza
all’era della ricerca dei gruppi farmaceutici, dove il profitto
aziendale è un obiettivo da raggiungere anche e soprattutto attraverso
il protezionismo dei brevetti e il segreto industriale.
Fortunatamente
c’è ancora chi fa distinzione tra i profitti privati e l’interesse
pubblico, e nella ricerca del bene comune intere nazioni intere
nazioni hanno abbracciato la strada della pirateria farmaceutica.
Oltre al Sudafrica di Mandela, l’India ha avviato ormai da anni
una vitale produzione di farmaci generici esportati in vari paesi
del mondo; il Brasile produce localmente otto dei dodici farmaci
antiretrovirali utilizzati per il trattamento dell’HIV; gli Stati
Uniti hanno approvato nell’interesse nazionale centinaia di licenze
obbligatorie su prodotti tecnologici, agroalimentari, farmaceutici
e informatici; Regno Unito, Canada e Francia hanno dichiarato
di voler violare il brevetto sul trattamento genico del cancro
al seno di cui è proprietaria la multinazionale Myriad.
L’Organizzazione
Mondiale della Sanità ha approvato nel maggio 2004 una risoluzione
che “ribadisce con forza il diritto di tutti i Paesi a utilizzare
nel modo più flessibile le misure di salvaguardia contenute negli
accordi internazionali in materia di brevetti sui farmaci”, e
perfino la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo riconosce
“il diritto universale ai massimi livelli di salute fisica e mentale
ottenibili”.
È
questo lo spirito che anima la “Tropical Disease Initiative”,
un progetto di ricerca nato su internet grazie all’iniziativa
di Andrej Sali, professore di Farmaceutica dell’Università Californiana
di San Francisco, Stephen Maurer, ricercatore in economia dell’università
di Berkeley, e Arti Rai, ricercatrice della Duke Law University
specializzata nelle questioni legali che regolano l’attività dell’industria
biofarmaceutica.
Questi
tre pirati della ricerca scientifica hanno creato un gruppo di
ricerca sulle malattie tropicali caratterizzato da un approccio
aperto e inclusivo: tutti i risultati delle ricerche saranno liberamente
condivisi in rete e non verranno richiesti brevetti per le scoperte
realizzate all’interno del gruppo.
Senza
brevetti, non saranno possibili i monopoli sui farmaci, e il prezzo
delle medicine verrà tenuto basso dalla concorrenza tra le varie
case produttrici che utilizzeranno le scoperte della “Tropical
disease initiative”. L’obiettivo è quello di mettere in campo
le migliori risorse della comunità scientifica per un progetto
libero dall’ossessione del lucro individuale e guidato da un solo,
grande obiettivo comune: mettere a disposizione nel più breve
tempo possibile e al minor costo dei farmaci che possono salvare
la vita di quel mezzo miliardo di abitanti della terra colpiti
dalle malattie tropicali, finora giudicate poco interessanti dalle
grandi compagnie di “Big Pharma”, che non hanno mosso un dito
per sconfiggere la malaria e le altre “malattie dei poveri”.
Oggi
chi alza la testa per sfidare i baroni delle pastiglie con la
ribellione creativa dei pirati compie un dovere morale verso tutte
le persone che muoiono ogni giorno per malattie curabili, e al
tempo stesso aggiunge una pagina alla storia che un giorno non
lontano porterà all’inevitabile abolizione del sistema dei brevetti,
trasformato in un gigante con i piedi d’argilla dall’avidità delle
aziende farmaceutiche. “Big Pharma” ha i giorni contati, ed è
sempre più vicino il giorno in cui tutti i popoli del mondo stracceranno
i brevetti per trasformarli in colorati coriandoli con cui festeggiare
l’accesso universale ai farmaci essenziali.
“Chi
comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche. Il pensiero
è come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare”.
[Lucio
Dalla, Com’è profondo il mare]
Mi
chiamo Francesco Cascioli, e sono un pirata di immagini. Io mi
considero un semplice artista che utilizza liberamente la propria
fantasia, ma a volte l’esercizio dell’immaginazione viene considerato
una pratica sovversiva e criminale, da sanzionare e reprimere
in nome del “diritto d’autore”, e quindi mi ritrovo qui, trasformato
in pirata senza aver scelto di esserlo.
In
gioventù sono stato dipendente del Poligrafico dello Stato, e
nel 1980 mi sono dimesso, perché non condividevo l’estetica dei
loro francobolli, ma soprattutto per partecipare alla fondazione
de “Il Male”, una storica rivista italiana di satira che ha ospitato
nelle sue pagine illustrazioni e scritti di autori come Andrea
Pazienza, Vincenzo Sparagna, Vincino, Pino Zac, Jacopo Fo, Sergio
Angese e Roberto Perini.
Sul
“Male” ho pubblicato decine di fotomontaggi, opere di creazione
artistica che sarebbe riduttivo definire semplicemente dei “falsi”,
così come sarebbe riduttivo descrivere un romanzo e un’invenzione
letteraria come un “racconto di fatti falsi e mai accaduti”.
Un giorno ero a casa con un po’ di influenza. Ritagliai una faccia
di Fanfani dalla copertina de “L’Espresso” e la posizionai sul
corpo nudo del paginone centrale di “Playboy”. L’insieme era grottesco,
ma anche piacevole a vedersi. La portai all’allora quotidiano
“Lotta continua”, che aveva una pagina di satira — “L’avventurista”
— diretta dal vignettista Vincino. Grazie a lui partecipai alla
nascita de “Il Male”, e mi sono ritrovato “fotomontaggista”.
Il
fotomontaggio satirico ha strane regole. Tu trovi la realtà già
raffigurata, a te tocca interpretarla, accostarla ad altre immagini
e altre realtà, creare con quei frammenti un nuovo significato,
per di più un significato politico. Ho realizzato fotomontaggi
per venti anni ritagliando qualunque genere di fotografia: ad
esempio mi capitava di partire da un oggetto riprodotto in una
immagine pubblicitaria, a cui univo una “mano con pistola” ripresa
dalla copertina di “Panorama” e per sfondo potevo mettere un’immagine
ritagliata da “Famiglia cristiana”. Il risultato di questi accostamenti
incrociati era una nuova immagine, da fotografare con un vetro
antiriflessi che teneva pressati e fermi gli “ingredienti visivi”
di partenza. Se il fotomontaggio era ben realizzato e illustrava
in maniera intelligente un certo argomento, una rivista poteva
acquistarlo, il che mi permetteva di guadagnarmi da vivere. Stavo
violando il “diritto d’autore”? Stavo truffando il fotografo che
aveva fatto uno degli scatti di cui io mi appropriavo? Oppure
stavo usando in maniera creativa della carta colorata regolarmente
acquistata in edicola?
La
violazione aveva anche altri aspetti paradossali. Mentre il reporter
è sempre il proprietario delle sue foto, il fotografo pubblicitario
cede interamente i diritti di un’immagine all’azienda che la usa.
Quindi non “rubavo” a Oliviero Toscani, ma a Benetton.
Riciclavo
foto di riviste finite al macero per comunicare significati.
Estraevo la vita dalla morte. Questo riutilizzo delle immagini
ha molti punti di contatto col concetto di “intertestualità”,
un termine usato dai filologi per indicare la rintracciabilità
di testi precedenti in un testo nuovo. Ad esempio: Virgilio ha
piratato Omero nella sua Eneide? E Dante li ha defraudati entrambi?
Ma
mentre i filologi dibattono nelle università di “intertestualità”
e “furti/ispirazioni” tra autori, la comunicazione elettronica
ha fatto esplodere questo fenomeno, trasformando milioni di utenti
internet in potenziali autori e “riciclatori” di immagini, testi,
filmati e musica.
Nella
redazione de “Il Male”, alla fine degli anni ‘70, c’erano regole
insolite. Non contava tanto la qualità dell’immagine, quanto la
battuta che supportava, il che riduceva tutto all’unico comandamento:
fa ridere o no? A partire da questa esigenza iniziai a costruire
pezzo dopo pezzo un archivio fotografico di immagini strappate
alla stampa illustrata dell’epoca.
L’archivista
di un giornale illustrato non aveva la libertà di cui ho potuto
usufruire io. Lui aveva solo la possibilità di far rivivere foto
stampandole sulla carta. Io ricavavo da pagine morte — di cui
ritagliavo l’essenziale e il riciclabile — i soldi per vivere.
Svuotavo i cassonetti a caccia di vecchie riviste, le sfogliavo,
strappavo le immagini potenzialmente utili e le catalogavo nel
mio archivio. Un fotomontaggista vive sul suo archivio, come le
formiche d’inverno campano del magazzino viveri che hanno accumulato.
Sulle
pagine de “Il Male” abbiamo pubblicato false edizioni di quotidiani
nazionali, creato dal nulla casi giudiziari come un finto arresto
di Ugo Tognazzi diventato per un giorno il capo delle BR, abbiamo
stampato finti avvisi contro i bagnanti da appendere nelle spiagge,
contrassegni per entrare nel centro storico e siamo riusciti a
creare perfino partiti politici inesistenti e virtuali, partoriti
dalla nostra fantasia e dalla nostra voglia di comunicare in modo
creativo e libero.
Abbiamo
falsificato anche i maggiori quotidiani nazionali, con una serie
di “prime pagine” che hanno scritto un pezzo di storia della comunicazione
italiana. Nel nostro mondo parallelo fatto di immaginazione e
creatività il Corriere dello sport annunciava l’annullamento dei
mondiali di calcio, l’“Unita” titolava a caratteri cubitali “Basta
con la DC!” in piena epoca di compromesso storico, consociativismo
e unità nazionale, il “Corriere della Sera” dava la notizia di
uno sbarco degli Ufo, “La Stampa” annunciava una “Insurrezione
operaia a Torino”, nella nostra versione de “La Repubblica” i
titoli di prima pagina proclamavano che “lo Stato si è estinto”.
I
nostri finti quotidiani sono arrivati anche all’estero: a Cracovia
abbiamo distribuito un’edizione del “Trybuna Ludu” (l’organo del
Partito Operaio Unificato Polacco), che annunciava l’incoronazione
di Karol Wojtyla a re di Polonia. A Mosca è stata portata una
“Pravda” fatta in casa e distribuita nella Piazza Rossa per annunciare
con qualche anno di anticipo la dissoluzione dell’impero sovietico.
Nel 1983 Vincenzo Sparagna si è spinto fino alle montagne dell’Afghanistan,
per affiggere sui muri dei bazar di Kabul una falsa edizione della
“Stella Rossa” (il quotidiano ufficiale dell’Armata Rossa) che
dava l’attesissimo annuncio “Basta con la guerra. Tutti a casa!”.
Ricordo ancora quando dalla redazione ordinammo ad uno scultore
un busto in marmo di Andreotti, e organizzammo una cerimonia al
Pincio, con Benigni che faceva da presentatore, per inaugurare
questo monumento ad uno dei “padri della patria”. La cerimonia
era falsa, il busto vero, i meriti politici di Andreotti erano
falsi e questo caso di falsoverofalso ha provocato dei problemi
alle forze dell’ordine quando, avvertite da chissà chi, interruppero
la cerimonia e tentarono di sequestrare il monumento: il poliziotto
che provò a spostare il busto pensava che fosse di cartapesta,
e ha rischiato di farsi precipitare addosso un pezzo di marmo
che pesava quasi 90 chili. Avevamo chiesto che fosse realizzato
in pietra di Carrara, perché nel nostro lavoro amavamo fare le
cose con passione e accuratezza.
La
passione e la cura dei particolari sono gli ingredienti fondamentali
di un’altra delle mie opere artistiche: l’invenzione di francobolli
inesistenti, che mi ha procurato parecchi problemi con le autorità
e mi ha trasformato in un “pirata di immagini”.
È
risaputo che qualsiasi rettangolino di carta, incollato in alto
a destra, riesce a far viaggiare una lettera. I postini non badano
più a niente. Io, ad esempio, una volta ho prodotto un francobollo
“fintofalso” bucandone uno usato, al centro ci ho scritto in stampatello
“i postini non fanno bene il loro lavoro” e la lettera mi è stata
regolarmente consegnata dal postino e dal mio portiere: neanche
lui si era accorto di niente.
E'
così che ho cominciato a realizzare francobolli comico-demenziali
come quello sul “Bicentenario dell’Eclissi totale”, il richiestissimo
“Anniversario del Vaffanculo”, ideale per lettere d’insulti e
d’addio, oppure quello che celebrava il “Bimillenario del fotomontaggio”.
Man mano che la mia tecnica si perfezionava, si aggiungevano alla
collezione francobolli dedicati ai postini (una categoria a rischio
che vive a contatto con la saliva di milioni di sconosciuti) o
francobolli di satira politica, che durante l’incollaggio sulle
buste permettono di farci beffa dei potenti, utilizzando slogan
come “sputagli sulla schiena!” oppure “Silvio sta su con lo sputo!”
Dopo aver concepito, prodotto e utilizzato per anni francobolli
artigianali autoprodotti, cercando di attirare l’attenzione sulla
mia attività artistica, è bastato pubblicare qualcuno di questi
francobolli su internet per attirare l’attenzione della Polizia
Postale. All’alba del 26 dicembre del 1997 ho festeggiato Santo
Stefano assieme a tre poliziotti e un commissario, tutti regolarmente
armati, che dopo essermi entrati in casa l’hanno perquisita per
5 ore.
Le
accuse a mio carico riguardavano la falsificazione di valori bollati
e la diffusione di materiale osceno. Una delle mie creazioni,
infatti, era un bollo con Berlusconi impegnato nell’attività che
ha reso famosa Monica Lewinsky.
Michelangelo
Buonarroti ha potuto dipingere una scena di sesso orale nella
Cappella Sistina con protagonisti Adamo ed Eva: è il dipinto passato
alla storia con il titolo “Il peccato originale”, e si trova proprio
sopra la testa del Papa.
Io
non pretendo di essere al livello di Michelangelo, ma non penso
nemmeno di essere talmente scarso da meritare la galera. Oltre
ai miei bolli rifatti i poliziotti hanno trovato anche una fotocopia
a colori di veri francobolli da 750 lire. L’avevo fatta per vedere
se, con una riga di buchi/dentellature fatte con una vecchia macchina
da cucire, il bollo fotocopiato sembrasse effettivamente simile
ad uno originale. Erano venuti malissimo, non li avrei mai usati.
Io faccio francobolli divertenti, molto meglio di quelli del Poligrafico
dello Stato, e mi interessa usare quelli per far ridere la gente.
Non
avrei mai usato quelle “fotocopie di francobolli” perché erano
brutte, ma soprattutto non erano comiche, e anche perché non c’è
necessità di riprodurre i francobolli veri, dal momento che qualsiasi
rettangolino di carta riesce a far viaggiare una lettera.
Avevo
pubblicizzato la mia produzione artigianale di francobolli sia
sul web che in un articolo uscito su “Linus”, dove invitavo tutti
ad usare solo francobolli con il proprio viso. Quei francobolli
erano una forma di umorismo gratuito, nel senso che permettono
di far viaggiare la corrispondenza gratis, i primi valori bollati
dichiaratamente comici, una risata in due centimetri.
Sognavo,
e continuo a sognare tuttora, una gara d’appalto bandita dallo
Stato per l’ideazione dei francobolli italiani, e perché no, europei.
Il Poligrafico in questi anni ha messo in circolazione solo francobolli
piccoli, brutti e tutti uguali. Nessuno li guarda piú, neppure
i postini che dovrebbero controllarne l’autenticità. Per questo
bisognerebbe lasciare spazio a chi inventa francobolli che facciano
ridere e siano gradevoli alla vista.
Il
consumatore ha diritto alla qualità, mentre l’ente pubblico ha
rovinato il mercato producendo solo valori bollati banali e senza
gusto. Ad esempio che ci voleva a mettere sul retro una colla
al sapore di fragola o di mirtilli? Col francobollo più buono
e più bello torna la voglia di scrivere, e nel mondo fioriscono
l’allegria e le nuove idee.
Mi
sono divertito a realizzare francobolli col volto di amici, di
clienti e di alcune tra le personalità più in vista, oltre naturalmente
ad una serie di autoritratti. Ormai utilizzare francobolli con
il volto di un altra persona è come usare uno spazzolino da denti
non tuo. A me, e a molti miei amici, farebbe senso: la faccia
di un morto sulla mia lettera, e perché? Se la lettera è mia ci
metto la faccia mia, o al massimo una barzelletta o una battuta.
Il francobollo col ritratto personalizzato è un monumento ai vivi,
che se lo possono godere di più dei defunti. Il bollo personalizzato
va visto come un’evoluzione della carta intestata. Fa molto più
chic, inoltre i filatelici ne vanno a caccia.
Dopo
un processo durato quattro anni — con un perito della banca d’Italia
convocato in aula a dire che, secondo lui, i miei falsi erano
perfetti e avrebbero ingannato chiunque — alla fine sono stato
assolto. Solo chi è stato sotto processo può ufficialmente dichiarare
di “essere innocente”, e ora, come direbbe Totò, “io lo fui”.
Qualcuno
considera il fotomontaggio e l’utilizzo di immagini altrui come
violazioni del diritto d’autore, ma personalmente non mi sono
mai posto il problema.
Il
diritto d’autore ha fatto la sua epoca, e un bel precedente giuridico
sono le barzellette. Chi ha il diritto d’autore sulle storielle
umoristiche? La barzelletta è il prodotto “copyleft”, per eccellenza.
Uno la crea ex novo (ma i misteriosissimi “inventori di barzellette”
sono del tutto irrintracciabili), o la modifica, o la adatta,
oppure si limita a diffonderla su internet, come faccio io da
molti anni attraverso mailing list dedicate alle barzellette.
Perché la Siae non apre una sezione “barzellettieri”, e tollera
che una categoria di autori venga defraudata in modo così totale?
È
una vergogna!
Un
altro esempio sono i libri più venduti del mondo, la “Bibbia”
e il “Corano”, entrambi testi ispirati da Dio, che — a quanto
risulta — non è neppure iscritto alla Siae. Bell’esempio che ci
viene dalle Alte Sfere! L’Autore dei maggiori bestseller di questo
(e dell’altro) mondo viene spudoratamente frodato dei suoi diritti,
benché abbia molti capolavori al suo attivo. Un tizio ama gli
Squallor (un gruppo musical/cabarettistico degli anni ‘70), ha
i loro 45 giri, vuole condividere — parola magica — la sua passione
con altri, e mette in rete la musica dopo averla trasformata in
file mp3. Un altro ha una vecchia videocassetta con un film introvabile
di Alberto Sordi, lo digitalizza, lo condivide e quel film diventa
nuovamente disponibile anche se nessuna azienda ce l’ha in catalogo.
Un
terzo tizio — io in questo caso — si innamora di un filosofo:
Gregory Bateson, e pubblica in rete decine di estratti dei suoi
libri. Chi è stato danneggiato da questa azione? Il filosofo —
nel buio della sua tomba o nella luce del Paradiso — apprezzerà
certamente questo lavoro di diffusione dei suoi pensieri. La casa
editrice, grazie agli estratti pubblicati online, vedrà pubblicizzato
un proprio prodotto: se un filosofo interessa per averne letto
delle cose su internet, la gente sarà più invogliata a comprare
i suoi libri e leggerli per intero.
È
un po’ come se io realizzassi il sito del libro in questione.
Gli eredi di Bateson forse strilleranno, ma a noi poco importa,
e comunque se l’editore poi vende una copia in piú, qualche spicciolo
lo riceveranno anche loro.
Non
so se con le mie azioni derubo qualcuno, ma ho il diritto di sentirmi
“Robin Hood”, perché col mio gesto arricchisco tutti. L’informazione
è l’unico bene che possa venire ceduto e conservato nello stesso
tempo.
È
una merce strana: non impoverisce chi la dà, e può arricchire
enormemente chi la riceve. Un animale come l’uomo, che vive in
gruppo, gode di un doppio vantaggio: quello del sapere, e quello
di poter scambiare il suo sapere con qualcos’altro, con un altro
sapere. La Grande Rete sembra fatta apposta per moltiplicare questa
tipica capacità dell’uomo: produrre, diffondere e scambiare cultura.
Solo
una società capitalistica e mercificante come la nostra, può etichettare
come “prodotti editoriali” una musica o un testo filosofico, che
diventano prodotti, oggetti da vendere e merce comune anziché
opere d’arte da usare come nutrimento per l’anima e la mente.
Nei secoli bui del Medioevo nessuno avrebbe osato fare un’operazione
del genere, a quell’epoca la cultura aveva ancora una sua dignità.
L’amanuense
che copiava Platone, lavorava per il bene di tutti. La nobile
istituzione delle “Biblioteche pubbliche”, non è stato che un
precedente storico della Rete: tutta la cultura riunita un solo
luogo, disponibile per essere studiata e copiata, conservata in
ordine perché tutti possano approfittarne. Internet e i sistemi
“peertopeer” di scambio dei file sono — per metafora — la biblioteca
di Alessandria dell’era contemporanea.
“Evitate
i rapporti con le major discografiche, la strada da percorrere
è l’autoproduzione e la distribuzione attraverso circuiti autogestiti”.
[Frankie
HiNrg, musicista. Dichiarazione rilasciata nel luglio 2004]
Qual
è la materia prima che usano gli artisti? Di cosa si nutre il
genio creativo? Quali sono i mattoni con cui vengono costruite
le opere dell’ingegno? Tra le varie pratiche di pirateria culturale,
la pirateria audiovisiva è sicuramente una delle più affascinanti,
una forma d’arte e di rielaborazione delle immagini e dei suoni
finora “ignorata” dalla cultura ufficiale.
Il
pirata audiovisivo non ha a disposizione grandi studi di produzione,
non ha dietro le spalle una casa discografica, non lavora con
budget da milioni di euro, non è favorito da massicce campagne
pubblicitarie, non ha uffici stampa o uomini del marketing che
promuovono la sua immagine.
È
un Davide della comunicazione multimediale, che utilizza come
fionda e come sasso contro i Golia di Hollywood due potentissimi
strumenti: la propria immaginazione e le nuove tecnologie della
comunicazione, che permettono di trasformare il computer di qualsiasi
ragazzo, opportunamente collegato a internet, in uno studio di
doppiaggio, una casa di produzione musicale, un laboratorio di
regia o una sala di montaggio. Chi non ha soldi o non fa
parte di grandi potentati mediatici utilizza come materia prima
la musica e i film già prodotti da altri, riplasmandoli e rivestendoli
di nuovi significati e messaggi, creando di fatto nuove opere
dell’ingegno a partire da icone già impresse nell’immaginario
collettivo.
È
così che la regia cinematografica non è più un gioco riservato
ai figli di papà, ai figli d’arte o ai figli di buona donna capaci
di mettere insieme i soldi necessari ad una produzione, ma diventa
un linguaggio espressivo alla portata di tutti. Basta prendere
immagini e inquadrature già realizzate dai paperoni del cinema
e trasformarle in ingredienti per un nuovo racconto, che verrà
costruito e assemblato grazie alle sbalorditive potenzialità dell’informatica
applicata alla cinematografia.
Chi
si avventura in questi affascinanti mari della pirateria agisce
sotto la continua minaccia delle ritorsioni da parte degli autori
originali delle opere riplasmate, sempre pronti a stracciarsi
le vesti gridando al plagio anche quando il risultato finale del
lavoro creativo è lontano anni luce dagli ingredienti di partenza.
È
un rischio che dà un doppio valore all’arte dei pirati audiovisivi,
che esprimono al tempo stesso il valore del genio e quello della
ribellione contro regole ingiuste. Questo ideale romantico, l’amore
per la propria immaginazione e fantasia, li rende pronti a rischiare
in prima persona pur di seguire la passione e il fuoco artistico
che li divora, disposti a sfidare i giganti per affermare il proprio
diritto alla libera espressione delle idee, anche quando queste
idee nascono a partire da film o da canzoni che qualcun altro
ci ha fatto entrare in testa.
È
proprio questo il punto della questione: quando prendo una canzone
e ne cambio il testo per esprimere un nuovo messaggio, cosa sto
facendo esattamente? Sto rubando qualcosa a un artista oppure
sto attingendo ad un linguaggio musicale che si trova già nella
mia testa e in quella di tantissime altre persone? Una canzone
famosa è ancora paragonabile a un oggetto che si trova stretto
saldamente nelle mani del suo proprietario oppure si trasforma
in un “alfabeto” condiviso che chiunque può utilizzare per dire
cose nuove? L’obiettivo di ogni casa discografica è quello di
farci entrare in testa una canzone: possiamo biasimare chi decide
di non lasciarla lì, ma di farla uscire dalla propria mente dopo
averla arricchita e riplasmata con creatività?
Ci
vuole più fantasia e ingegno per scrivere un film a partire da
zero o per cambiare i dialoghi, la trama e il messaggio di un
film già realizzato, sovrapponendo alle vecchie immagini una nuova
storia e un doppiaggio “fatto in casa” con un microfono e un computer?
Dare
nuova forma a contenuti già espressi da altri non è una novità
introdotta dalle moderne tecnologie: William Shakespeare, ad esempio,
ha adattato il suo “Romeo e Giulietta” dalla poesia di Arthur
Brooke The Tragicall Historye of Romeus and Juliet, che Brooke
a sua volta aveva basato su una traduzione francese curata da
Pierre Boaistuau di vari racconti italiani.
La
prestigiosa rivista Scientific American, in un editoriale del
febbraio 2005, si è espressa molto chiaramente sull’approccio
di Shakespeare al riciclaggio d’arte: “la storia delle opere creative
è la cronaca di lavori presi in prestito da altri”.
Perfino
il “Don Giovanni” di Mozart è il risultato di una rielaborazione
creativa di arte già esistente, dal momento che il librettista
di Mozart, Lorenzo Da Ponte, ha copiosamente attinto dal lavoro
di Giovanni Bertati, che aveva scritto per Giuseppe Gazzaniga
il libretto di un’opera omonima. Mozart, quindi, è il complice
di un pirata? Da Ponte era un criminale? Oggi probabilmente la
risposta di molte case discografiche sarebbe affermativa, ma fortunatamente
ai tempi di Mozart l’arte altrui era una materia prima piu’ duttile
e meno imbrigliata, che permetteva di aggiungere il proprio genio
a quello dell’autore originario.
Il
“re” italiano della pirateria audiovisiva, che ha utilizzato la
sua voce per ridare nuova vita a due film di culto come “Superman”
e “Guerre Stellari”, si chiama Carletto FX, dove
la sigla FX sta per “effects”, cioè gli effetti speciali che Carletto
realizza in modo artigianale con l’aiuto di un semplice computer.
Carletto
è anche il leader dei “Gem Boy”, un gruppo musicale che reintepreta
in modo originale canzoni famose e sigle dei cartoni animati,
riscrivendone i testi con uno stile goliardico e demenziale che
nel corso degli anni ha saputo conquistare migliaia di appassionati
in tutta Italia. Il successo di questo gruppo non nasce
da un piano commerciale studiato a tavolino, o da massicce campagne
pubblicitarie, ma da una semplice scelta di autopromozione: diffondere
su internet i propri brani gratuitamente e liberamente.
I
Gem Boy hanno dimostrato una cosa molto importante nel panorama
musicale italiano: qualsiasi gruppo di amici che si riunisce per
suonare divertendosi e che produce musica godibile può diventare
con poco sforzo una vera e propria band che trascina centinaia
di persone ai propri concerti. Per riuscire in questa impresa
basta scegliere di non affidarsi agli squali delle case discografiche,
sempre a caccia di nuovi talenti da spremere come limoni, e decidere
invece di consegnare la propria arte al benefico passaparola del
popolo delle reti, anziche alla crudele spietatezza della Siae.
“Diffondere
i nostri brani in rete è stata quasi una scelta obbligata — racconta
Carletto — noi abbiamo cominciato suonando cover con il testo
rivisitato, e nessuna casa discografica avrebbe accettato di pubblicare
le nostre manipolazioni. Per fortuna internet è un mondo libero
e da sempre chi voleva sentire la nostra musica ha potuto trovarla
in rete. Grazie al passaparola noi siamo diventati il gruppo più
famoso d’Italia senza esserlo.
Non
siamo famosi perché non siamo su Mtv ne sulle copertine dei giornali,
ma al tempo stesso lo siamo perché centinaia di migliaia di persone,
grazie al tamtam della rete e al passaparola sotterraneo, conoscono
il nostro nome e hanno sentito almeno una nostra canzone. Eppure
la maggior parte di queste persone non sa neppure che faccia abbiamo.
Nonostante i Gem Boy abbiano venduto pochissimi dischi, e tutti
attraverso circuiti informali di distribuzione, ogni volta che
organizziamo un concerto ci sorprendiamo nel vedere migliaia di
persone che conoscono le nostre canzoni a memoria. Qualcuno viene
perfino a chiedermi l’autografo per i miei ridoppiaggi.
Sono un famoso virtuale.
Il
problema dello scambio di musica in rete non riguarda chi è nato
come me sull’onda di questo fenomeno o i ragazzi di oggi che provano
ad avvicinarsi alla produzione musicale, ma riguarda solo quelli
che fino a ieri hanno campato sulla vendita dei dischi.
Un
tempo i discografici vendevano più dischi: solo in pochi potevano
permettersi studi di registrazione importanti, i tecnici audio
erano i soli a capire come funzionavano i loro macchinari astrusi
e costosissimi, le stampe dei Cd erano molto costose. Tutto sembrava
giustificare il prezzo dei dischi, e ogni artista desiderava di
entrare a far parte di quella elite, ma nel giro di pochi anni
tutto è cambiato. Con un po’ di sbuzzo, con i programmi per l’editing
audio che diventano sempre più facili da usare e con un minimo
di attrezzatura musicale chiunque può realizzare un prodotto valido,
ed è qui che si inceppa tutto il meccanismo, perché i costi di
produzione si sono abbattuti ma il prezzo dei Cd è rimasto lo
stesso”.
Il
“ridoppiaggio” più famoso realizzato da Carletto è senza dubbio
“Star Whores”, una rivisitazione di “Star Wars” (Guerre Stellari)
che nel giro di pochi mesi è diventata il film autoprodotto con
il maggiore successo di pubblico nella storia della cinematografia
italiana, un fenomeno mediatico scaricato in rete da migliaia
di persone.
Nel
nuovo racconto di Carletto (che utilizza le vecchie immagini di
George Lucas) i protagonisti non sono più le forze ribelli, ma
gli stessi Gem Boy, descritti come un gruppo musicale che sfida
il sistema diffondendo nello spazio la propria musica in formato
Mp3. Il malvagio Darth Vader diventa un funzionario della Siae
deciso a stroncare con le buone o con le cattive l’attivita dei
Gem Boy. Il tutto è condito da un linguaggio sboccato e goliardico
che però non scade mai nella volgarità gratuita, e dalla voce
di Carletto, il “doppiatore unico” del film, che si rivela straordinariamente
versatile nell’adattarsi a tutti i personaggi.
Star
Whores manda un messaggio serio in modo scherzoso: oggi è in atto
una lotta tra forze positive che cercano di esprimere in modo
libero creatività e fantasia e forze negative che cercano di criminalizzare
alcuni comportamenti (come la copia di musica ad uso personale
e senza scopo di lucro) che ormai sono diventati un fenomeno sociale,
e non possono più essere considerati una devianza criminale. Carletto
FX racconta che Il mio sogno è sempre stato quello di fare cinema:
dirigere, montare, recitare. Ogni volta che finisco di “ridoppiare”
un film e vedo i personaggi famosi recitare con le cose scritte
da me e con la mia voce, questo sogno prende forma. Un ridoppiaggio
richiede molti mesi, ma è un lavoro che faccio volentieri come
“palestra creativa”, perché mi piace far ridere la gente, mi piace
stupire chi guarda i miei film e me stesso, e vorrei lasciare
un segno che mi faccia ricordare dagli altri.
Ho
cominciato a scrivere la sceneggiatura di “Star Whores” nel settembre
2000, e in totale la produzione del film ha richiesto ben 10 mesi
di lavorazione, di cui 2 solo per la stesura della storia.
Non mi sentivo il nuovo George Lucas, al massimo il nuovo Mel
Brooks.
All’epoca
in cui nacque l’idea di scegliere un film, riscriverne completamente
la sceneggiatura, ridoppiarlo e ricrearne integralmente il sonoro,
noi Gem Boy avevamo deciso di uscire dal circuito dei piccoli
pub di provincia per tentare il cosiddetto “salto di qualità”
e cominciare a suonare nei grossi club di tutta Italia.
Le incertezze e le paure erano tante. Per evitare il più possibile
che questo tanto auspicato salto di qualità si trasformasse in
un salto nel vuoto, a me venne in mente di realizzare il progetto
Star Whores, di utilizzare internet come cassa di risonanza per
diffondere il più possibile il nome Gem Boy e ampliare di conseguenza
il nostro seguito ai concerti live di tutta Italia.
Ancora
oggi rimango piacevolmente colpito nel vedere quante persone che
non hanno mai sentito parlare dei Gem Boy arrivino ai concerti
per scoprire chi si nasconde dietro al nome di un gruppo musicale
messo così in rilievo in questo film e, una volta visto il concerto,
entrino a far parte del nostro seguito.
È
pazzesco accorgersi di quanto questa idea si sia dimostrata vincente
e di quanto tutto il gruppo alla fine ne abbia beneficiato.
Dal
punto di vista delle “major” di Hollywood Carletto è un criminale,
l’autore di un plagio indebito di icone sacre della cinematografia.
Dal punto di vista della cultura universale, invece, le sperimentazioni
innovative della pirateria audiovisiva hanno aperto le porte a
nuovi linguaggi espressivi basati sull’utilizzo creativo di immagini
già note, usate come “materia prima” per creare opere dell’ingegno
assolutamente originali, che peraltro fanno anche pubblicità indiretta
alle “fonti” utilizzate come materiale. Lo scambio di video
in rete, la rielaborazione creativa di musica e filmati, il rimontaggio
artistico e il ridoppiaggio di materiale video sono una delle
nuove forma d’arte nate con la diffusione delle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione, e questa pionieristica
pirateria audiovisiva va incoraggiata e tutelata dalle persone
sagge e lungimiranti, che vedono l’arte di domani nella presunta
illegalità di oggi.
“The
words of the prophets are written on the subway walls and tenement
halls...”.
[Simon
& Garfunkel, The Sound of Silence]
“Sarebbe
stupido relegare l’arte nei musei”
[Keith
Haring]
Quando
ero piccolo mi piaceva molto disegnare, e ricordo ancora oggi
la frustrazione di un pomeriggio in cui non riuscivo a trovare
fogli bianchi in casa. Mi capitava di restare da solo, perché
mia mamma faceva l’insegnante in una scuola a tempo pieno, e quel
giorno non c’era in casa neanche un mezzo foglietto da colorare.
Fu
così che decisi di compiere il mio primo gesto di pirateria artistica,
e detti briglia sciolta alla mia fantasia e a un pennarello rosso
utilizzando i margini bianchi di un libro che trovai negli scaffali
di casa. Rileggendo quell’esperienza molti anni dopo, riesco
a comprendere meglio lo spirito che anima i pirati dell’arte che
riempiono di colore le città grigie e violentate dai vandali che
le riempiono di fumi industriali, cartelloni pubblicitari, scorie
inquinanti, discariche a cielo aperto, quartieri ghetto con palazzine
tristi e altri “effetti collaterali” della modernità, ben diversi
dagli spruzzi di colore che qualche Sindaco vorrebbe bollare come
il nemico pubblico numero uno.
Ogni
colpo di spray lanciato nell’aria delle nostre periferie nasce
da una compressione della fantasia e della creatività di chi è
ancora abbastanza vivo per sognare a colori.
Ogni
spazio negato nelle città costruite a misura delle industrie e
non dei ragazzi stimola la ricerca di angoli di strada, margini
di muro, ritagli di periferie e tavolozze urbane simili a quelle
che da piccolo ho cercato nei margini dei libri, prima che il
nozionismo scolastico atrofizzasse la mia voglia e la mia capacità
di disegnare.
I
pirati delle città che colorano i muri con la loro immaginazione,
e sfidano la repressione degli uomini grigi in cravatta, hanno
la “colpa” di essere più colorati e fantasiosi di chi tollera
devastazioni ambientali in nome dell’“occupazione”, ma si dimostra
severissimo e inflessibile contro chi realizza illustrazioni murali
in nome della libertà di espressione. Abbiamo scelto un
compromesso con l’inquinamento industriale, accettando rischi
per la salute pubblica, abbiamo accettato un compromesso con evasori
e palazzinari, che hanno beneficiato di condoni fiscali e condoni
edilizi, un ministro della Repubblica ha dichiarato addirittura
che “bisogna convivere con la Mafia”, ma quando si tratta dei
pirati cittadini che colorano i muri delle nostre città nessun
compromesso ci sembra accettabile in nome del diritto all’espressione,
e invochiamo la “tolleranza zero” per sbattere in galera ragazzini
colpevoli di avere troppa fantasia. Troppo facile prendersela
con i più deboli, con i più giovani e con chi non ha una lobby
che lo rappresenta: perché la collettività non si fa carico dei
costi di ripulitura dei muri senza criminalizzare chi li dipinge,
e al tempo stesso sceglie di assolvere chi costruisce in riva
al mare e si fa carico dei gravissimi danni che provoca chi sottrae
all’Italia aree di grande rilevanza storica e naturalistica, o
chi ruba soldi frodando il fisco?
Nelle
nostre città la repressione degli spray e la lotta ai “graffitari”
sono lo sport preferito degli amministratori locali, che confondono
la pulizia della politica con la pulizia dei muri, o meglio con
il loro squallido grigiore. L’imbrattamento pubblicitario
che inquina di messaggi avidi e volgari gli autobus, i muri, i
cartelloni stradali, le metropolitane, le facciate dei palazzi
e perfino i monumenti storici, viene tollerato, legittimato, apprezzato,
incoraggiato in nome dello “sviluppo economico”, ignorando le
necessità di uno sviluppo più urgente, lo sviluppo creativo della
fantasia dei ragazzi e della loro voglia di esprimersi e colorare
il nostro mondo. Come sarebbe bella, la nostra povera Italia,
se la lotta alla Mafia e al malaffare fosse condotta con la stessa
determinazione della lotta agli spray!
Nel
febbraio 2005, una maxiretata ha colpito 35 writer del comasco,
di cui 14 minorenni, accusati di danneggiamento e imbrattamento.
Milleduecento fotografie, decine di pedinamenti e intercettazioni
telefoniche raccolti nell’arco di tre anni ad ogni ora del giorno
e della notte: il Nucleo investigativo della polizia locale di
Como non ha badato a spese per catturare i pirati dell’arte.
Gli
uomini grigi sono stati orgogliosi di questo gravissimo colpo
inferto alla “criminalità” locale, e per questa grandiosa azione
contro un gruppo di ragazzini il Nucleo investigativo è stato
premiato con la “Croce e nastrino per meriti speciali” della Regione
Lombardia, la massima onorificenza per le polizie municipali e
per i gruppi regionali della protezione civile. Basta con
i colori, gli spray, le scritte, i disegni, l’avventura, l’adrenalina,
la voglia di stare in gruppo: pensate a cose più serie come l’abusivismo
edilizio condonabile, i falsi in bilancio depenalizzati o l’evasione
fiscale, roba da gente seria e persone per bene.
È
questo il messaggio sulla fantasia e la legalità che stiamo consegnando
alle giovani generazioni, e che la polizia di Como ha trasmesso
ai ragazzi arrestati e processati per la loro pirateria artistica.
Anche
il comune di Monza ha sguinzagliato agenti in borghese per la
creazione di un archivio fotografico dei “tag”, catalogando le
firme più ricorrenti sui muri cittadini, e gli scenari d’azione
preferiti dai pirati dell’arte vengono costantemente monitorati.
Il sindaco di Milano Gabriele Albertini nel 1999 ha addirittura
annunciato delle “taglie” sui writers, promettendo un milione
di vecchie lire ai cittadini più solerti nel denunciare alle autorità
i pirati dell’arte urbana.
Per
questo ed altri episodi Milano è diventata la capitale italiana
dell’oscurantismo artistico e della repressione contro la pirateria
urbana. Il senatore di Alleanza Nazionale Riccardo De Corato,
che ricopre anche l’incarico di vicesindaco nel capoluogo lombardo,
ha presentato un disegno di legge per modificare l’articolo 639
del codice penale, che punisce il “deturpamento e imbrattamento
di cose altrui”.
La
proposta è quella di punire i pirati dell’arte urbana con la reclusione
fino a tre mesi, una sanzione pecuniaria e l’obbligo di ripulitura
dei luoghi. E il tutto dovrebbe avvenire procedendo d’ufficio,
quindi anche nel caso in cui il proprietario dell’immobile non
sia interessato a sporgere denuncia. Se il fatto riguarda strutture
collocate nei centri storici la punizione auspicata da De Corato
lievita fino ad un anno di galera, quanto basta per trasformare
un giovane artista in un criminale incallito grazie all’indubbio
effetto di “rieducazione” delle strutture detentive italiane.
Nell’ottobre
2004 De Corato ha avuto anche il piacere di ospitare il tenente
Steve Mona (nomen omen), il capo della “Vandal Squad” della polizia
di New York, il commando antigraffiti specializzato nella caccia
ai writers.
I
poliziotti hanno la facoltà di garantire l’immunità ai minorenni
colti sul fatto, ricevendo in cambio informazioni sull’identità
di altri pirati dell’arte.
Le
tecniche di investigazione della “Vandal Squad” comprendono anche
l’infiltrazione nelle feste e nei raduni giovanili, per fotografare
e schedare centinaia di volti da immagazzinare e catalogare nel
computer. Dalla fine degli anni ‘80 ad oggi, Mona ha arrestato
una media di mille pirati all’anno nella sola città di New York,
e i suoi slogan ricordano le frasi secche e laconiche di Terminator,
Robocop o Judge Dredd: “Non sono un critico d’arte, non devo distinguere
fra graffiti belli o brutti. Il mio lavoro è arrestare chi li
fa perché la legge dice che è vietato farli. Punto. A New York
è vietato vendere bombolette spray ai minorenni. A Chicago è vietato
del tutto. Per chi fa un graffito c’è l’arresto e basta: niente
multe, non servono a nulla. Abbiamo schedato, scannerizzato e
sottoposto a perizia calligrafica tutti i graffiti della città:
se vieni arrestato per la seconda volta, sei punito non solo per
il graffito che stavi facendo ma anche per tutti quelli uguali
registrati nel nostro archivio”.
Per
foraggiare i 67 agenti specializzati che fanno parte della “Vandal
Squad”, asserragliati nel loro “fortino” in fondo a Brooklyn,
la città di New York spende 5 milioni di dollari l’anno, Ma non
tutte le istituzioni sono insensibili all’arte di strada: una
storica sentenza del 1994 ha scagionato due giovani pirati milanesi
dell’arte urbana dall’accusa di aver compiuto “atti vandalici”
nella stazione di San Donato della metropolitana. Secondo il giudice
il fatto non sussisteva, e questa assoluzione ha portato con s´e
l’implicito riconoscimento di un valore artistico delle opere
di arte urbana.
Se
consideriamo i muri delle nostre città come dei “mezzi di diffusione”
del pensiero, il loro libero utilizzo da parte dei pirati d’arte
puó essere considerato un esercizio del diritto costituzionale
di manifestazione del pensiero “con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione”. Se, invece, i colori dei pirati
dell’arte vengono considerati “sporcizia” e la loro presenza sui
muri un “danno”, allora le considerazioni da fare sono differenti,
e riguardano l’articolo 639 del codice penale, che prevede una
multa per chi sporca con vernice cose mobili o immobili altrui,
e l’articolo 635, che punisce chi danneggia edifici pubblici,
anche con pene detentive che possono arrivare fino a 12 mesi.
Se
nel mondo avesse vinto la repressione degli uomini grigi che combattono
la pirateria artistica urbana, un grande artista come Keith Haring
sarebbe stato sbattuto in cella prima di poter trasportare i suoi
disegni dai muri di New York alle grandi gallerie di arte contemporanea.
Ma
tutti gli sforzi dei censori e dei nemici della pirateria artistica
urbana sono destinati a fallire: nessuna legge, multa, repressione
o pattugliamento potrà frenare lo spirito creativo che abita l’animo
dell’uomo sin dall’età della pietra, e che ha permesso a noi e
ai nostri antenati di immaginare arte e bellezza di fronte a nude
caverne, pelli di pecora, tele immacolate, fogli bianchi, muri
cittadini, vagoni ferroviari e ogni altro genere di superficie
anonima e monocolore su cui l’occhio umano ha avuto la possibilità
di posarsi.
Gli
artisti urbani sono come la sabbia che sfugge al pugno chiuso
che vorrebbe stringerla, controllarla, stritolarla, dominarla
e confinarla all’interno di spazi predefiniti. Ma nessun recinto
sarà mai abbastanza grande per soddisfare la voglia di libertà
dei pirati dell’arte, che non accettano di sottomettersi a niente
e a nessuno, ma ubbidiscono solamente alla propria fantasia.
I
pirati dell’arte sono convinti, e con buone ragioni, di offrire
un servizio pubblico al territorio in cui vivono, portando un
po’ di colore nelle aree urbane afflitte dal grigiore e dalla
bruttezza della decadenza postmoderna. Per un writer un
muro grigio, uniforme, monocolore, triste, monotono e spento è
una forma di bruttura e di violenza allo sguardo peggiore di qualsiasi
altro segno, traccia o spruzzo di tinta che puó essere lasciato
su quel muro.
L’unica
soluzione efficace e praticabile per chi non sopporta di vedere
i muri del proprio quartiere ricoperti di “tag”, le firme con
cui i writer segnalano la loro presenza e marcano il proprio territorio,
è quella di chiamare un altro writer o una “crew”, un gruppo di
artisti dell’arte urbane, per realizzare su quel muro un “pezzo”,
cioè un vero e proprio quadro metropolitano che utilizza quel
muro come tavolozza, e che in ragione del suo valore artistico
ha il diritto di sovrapporsi alle tag.
Nessuno
metterà altre scritte o tag su quel pezzo: quel muro rimarrà intoccabile,
protetto dalla stessa arte che ospita. Come tutte le culture,
anche la cultura della pirateria artistica urbana ha i propri
valori, e uno di questi valori è il rispetto degli altri writers,
delle loro opere e della qualità del loro lavoro. Quelli che molti
considerano vandali deturpatori della bellezza cittadina non si
sognerebbero mai di ricoprire un disegno di altre persone con
i propri colori, e questo vale anche per le opere d’arte e gli
artisti del passato. Nessun pirata dell’arte urbana avrà
mai voglia di ricoprire il Colosseo, il Duomo di Milano o altri
edifici storici con i propri lavori, perché si aspetta che anche
le proprie creazioni vengano rispettate e tutelate dagli altri.
Il
rapporto del pirata dell’arte urbana con le proprie creazioni
è stato descritto efficacemente da un writer che si firma con
la tag “Coda”, in un messaggio lanciato su internet: “mettere
l’anima su un muro e fare un passo indietro per osservare le proprie
paure, speranze, sogni e debolezze, permette di raggiungere una
profonda consapevolezza di sé stessi e del proprio stato mentale”.
In
un futuro non troppo lontano, il mondo guarderà con più benevolenza
ai pirati del colore che si esprimono sui muri cittadini, e già
oggi un sondaggio realizzato dall’Eurispes e dal Telefono Azzurro
ha rivelato che il 76% degli adolescenti tra i 12 e i 19 anni
si dichiara favorevole alla presenza di murales e graffiti nelle
strade cittadine, e il 44% li considera una forma d’arte. Il 60%
dei ragazzi intervistati ritiene che sia lecito dipingere su un
muro e attribuisce al writing una funzione di abbellimento delle
città.
Ma
chi vuole liquidare questo fenomeno come un recente capriccio
giovanile ha fatto male i conti con la storia. La pirateria artistica
urbana ha un percorso che viene da lontano, e affonda le sue radici
nel rapporto ancestrale tra l’uomo e il segno grafico nato nelle
caverne quando i linguaggi erano ancora da inventare. Il termine
“graffiti” ha le sue radici etimologiche nei termini greci graphè
(scrittura) e gràphein (scalfire, incavare, disegnare).
Nelle sue forme attuali, il fenomeno del writing è associato alle
attività dei pirati dell’arte metropolitana che negli anni ‘70
hanno cominciato a colorare le strade di New York, ma già nell’antica
città di Pompei le strade erano piene di scritte che deridevano
i personaggi pubblici dell’epoca o esprimevano i sentimenti d’amore
di un uomo o di una donna.
I
graffiti, i murales, le pitture rupestri e le opere d’arte urbana
sono stati da sempre la voce di chi non ha voce: nella prima metà
del ‘900 l’artista messicano Diego Rivera ha realizzato giganteschi
murales pieni di messaggi storici, politici, sociali e culturali.
La passione che lo ha spinto a colorare chilometri e chilometri
di pareti per più di quarant’anni nasce dall’amore per il suo
popolo e la sua terra, per la storia delle antiche civiltà latinoamericane,
per la grande ricchezza culturale delle popolazioni indigene.
Per realizzare i suoi lavori, Diego si arrampicava su impalcature
altissime e rimaneva l‘ı sopra per giorni e giorni, mangiando,
dormendo e vivendo accanto alla sua arte fino al completamento
del suo sforzo espressivo, grafico e comunicativo.
I
murales di Rivera sono diventati anche uno strumento di “alfabetizzazione”
per le fasce più povere della popolazione. Quello del Messico
non è un caso isolato: la pirateria artistica urbana è uno strumento
di liberazione, di denuncia e di controinformazione utilizzato
in molte zone del pianeta segnate dall’oppressione, dalla violenza
e dalla guerra, come l’Irlanda, la Palestina, il Cile, e perfino
l’Iraq, dove sui muri devastati dai bombardamenti sono apparse
opere d’arte urbana che denunciano le torture subite nel lager
di Abu Ghraib.
Anche
nella nostra Italia i dipinti murari sono diventati uno strumento
di cultura. Nella città sarda di Orgosolo, la tradizione di dipingere
le rocce e le pareti degli edifici è nata nel 1969, nel pieno
della contestazione giovanile.
I
murales di Orgosolo nascono dalla fantasia e dalla creatività
della popolazione locale, stimolata dal genio artistico di Francesco
del Casino, l’autore della maggior parte dei murales orgolesi.
Del Casino, originario di Siena e insegnante di professione, dopo
aver trasferito la sua residenza a Orgosolo ha ravvivato assieme
ai suoi studenti la tradizione dei murales nata alla fine degli
anni ‘60. Oggi le opere d’arte urbana presenti nella zona sono
più di 250, e i disegni realizzati comprendono dipinti che denunciano
la corruzione della politica, le azioni militari della Nato, la
condizione dei detenuti all’interno delle carceri, la guerra in
Ex-Jugoslavia e l’assedio di Sarajevo, la violenza del regime
cinese in piazza Tien An Men, ma anche immagini che trasmettono
l’armonia della campagna sarda, con scene di vita quotidiana che
ritraggono uomini a cavallo, donne con i figli in grembo, pastori
che tosano le loro pecore e contadini al lavoro.
Un’altro
grande avventuriero della comunicazione grafica urbana è Keith
Haring, morto nel 1990 a 32 anni dopo aver regalato ai muri del
mondo la sua inimitabile arte pittorica, con un tratto inconfondibile
caratterizzato dalla presenza ricorrente degli “omini” stilizzati
che sono diventati il suo marchio di fabbrica. La passione di
Haring per la pirateria artistica urbana nasce per caso nella
metà degli anni ‘70, quando in una stazione della metropolitana
newyorchese l’artista si imbatte in un pannello nero, temporaneamente
libero dagli annunci pubblicitari che avrebbero dovuto ricoprirlo.
Pochi minuti dopo, Haring aveva già in mano la confezione di gessetti
bianchi che avrebbe trasformato in un’opera d’arte quel pannello
nero, concepito per essere un amplificatore di bisogni d’acquisto
indotti artificialmente. Nelle note autobiografiche pubblicate
su internet Keith Haring racconta che disegnare in pubblico nel
cuore della metropolitana è stata una specie di esperimento filosofico
e sociologico. Quando disegnavo lo facevo di giorno, e c’erano
sempre delle persone che mi osservavano. C’erano sempre scambi
e interazioni, sia con le persone che erano interessate al mio
lavoro, sia con quelle che volevano dirti che non avresti dovuto
disegnare in quel posto.
Io
imparavo osservando le reazioni e le interazioni che le persone
avevano con i disegni e con me, e osservando questi comportamenti
come un fenomeno sociologico. Se ho continuato a disegnare per
cosí tanto tempo, è stato anche grazie all’eccezionale feedback
che ho ricevuto dalle persone, alla partecipazione di chi mi osservava
disegnare, ai commenti, le domande e le osservazioni che mi arrivavano
da ogni genere di persona immaginabile: bambini molto piccoli,
vecchie signore e studiosi di storia dell’arte.
Durante
gli anni della sua produzione artistica la mano di Keith Haring
regala bellezza a molte città del mondo, e dalla metropolitana
di New York lo spirito di questo pirata dell’arte lo porta a Parigi,
Tokyo e Roma, dove un gruppo di ignari addetti comunali cancellano
i suoi disegni dal valore incalcolabile nella tratta Flaminio-Lepanto
della linea A. Nel 1986 Haring dipinge anche il muro di Berlino,
portando la libertà dell’arte sui mattoni che negavano la libertà
delle persone. La sua parabola artistica culmina nel giugno del
1989, quando la parete posteriore della Chiesa di S. Antonio di
Pisa viene decorata con l’ultima opera di questo grande pirata
dell’arte cittadina: il murales “Tuttomondo”.
Oggi
le gallerie d’arte e i collezionisti privati cercano di intrappolare
nei loro salotti buoni l’arte di Keith. Molti uomini convinti
di poter dominare la vita e la natura cercano di catturare con
lo spillone le farfalle, illudendosi di poter mettere sottovetro
l’eccezionale bellezza del loro volo. Allo stesso modo, la vera
arte di Keith Haring non è stata quella che oggi si esprime staticamente
nelle collezioni miliardarie, ma il suo magnifico volo di farfalla
colpita dall’Aids, che ha portato nuova vita nel grigiore dei
tunnel metropolitani, sui muri dell’oppressione e perfino nelle
strade italiane. “Sarebbe stupido relegare l’arte nei musei”:
sono queste le parole che Keith ci ha lasciato come eredità spirituale,
un messaggio che racchiude in sé tutta la bellezza della pirateria
artistica che porta vita pulsante nelle nostre città. I
sogni colorati di avventura e libertà della pirateria artistica
urbana sono ancora vivi nei cuori e nelle menti di migliaia di
ragazzi che in tutti i paesi del mondo rischiano in prima persona
per poter esprimere la propria arte sui muri delle città. Il nostro
mondo è un posto meno grigio in cui vivere grazie agli artisti
ribelli sopravvissuti al bombardamento mentale del consumismo,
spiriti liberi che spruzzano nell’aria vernice e idee che impregnano
le nostre metropoli squallide e degradate, cambiandone per sempre
il volto.
Uno
di questi ragazzi è “Dada”, un pirata dell’arte urbana che rivela
con le sue parole i valori e la cultura di quello che i “grandi”
etichettano in modo superficiale come “vandalismo”:
Il
writing è una rivendicazione di spazi per l’espressione delle
proprie capacità, un’arte che nasce dalla necessità di esprimersi
e sfuggire al soffocamento delle città che tendono a emarginare
le realtà e i quartieri difficili anziché contribuire ad un reale
progresso civile, è un tentativo di venire fuori, emergere, mostrare
se stessi e le proprie capacità. E' questo che fa dei vagoni il
migliore supporto per il writing.
Il
treno permette al tuo pezzo di muoversi, aumentando le possibilità
di essere notato. È uno stimolo che ti spinge a crescere e a evolvere
il tuo stile. È un’arte che comporta delle responsabilità, perché
c’è poco da scherzare se vieni beccato mentre dipingi.
L’interesse
da parte delle istituzioni e dei media nei confronti del writing
è inquinato da una volontà di controllo sul movimento.
C’è
chi prova a strappare quest’arte ai suoi luoghi di origine, la
metropolitana e la strada, per “pulirla”, ingabbiarla, adattarla
ai propri interessi e “risucchiarla” in quelli che sono i canali
ufficiali di diffusione artistica: mostre, gallerie, pezzi su
tela. Ma la forza di espressione del writing è da ricercarsi anche
nel supporto, nell’ambiente in cui questa arte prende vita dalla
notte al giorno.
C’è
chi cerca di snaturare e stravolgere quest’arte pirata, portandola
nei musei, nei salotti buoni dell’arte mercificata e negli spazi
“ufficiali” di esposizione.
E'
un’operazione folle, equivalente a strappare un albero dalla foresta
in cui è nato per piantarlo in una casa o in un capannone.
L’arte
del writing nasce e si muove per la strada attraverso vagoni e
muri.
E'
la luce naturale del giorno a regalare visibilità a questo movimento
e alle sue produzioni artistiche, illuminando le tracce di colore
lasciate dai writers.
La
fruizione di quest’arte non ha bisogno di intermediari e spiegazioni.
Si
presenta ai tuoi occhi da sola, improvvisamente, spontaneamente,
per essere assorbita nel panorama urbano nel quale si esprime.
Io
non dipingo su tela, perché la mia tela è la lamiera di un treno.
Un
pezzo su tela non ha la stessa efficacia di un pezzo su un muro.
Non è il gallerista che sceglie come esporre la tua opera, né
tanto meno come “presentarla” al pubblico, ma è il pezzo stesso
che impressiona i tuoi occhi, senza intermediari se non la strada
che stai percorrendo. Può piacerti, puoi disprezzare, puoi condividere
o meno questa forma di esprimersi, ma una cosa è certa: di sicuro,
non devi pagare l’entrata in una galleria per osservare il manifestarsi
della mia arte. Io non pago un gallerista per esporre le mie opere.
Non ne faccio un prodotto commerciale, e voglio che tutti possano
goderne liberamente.
Un
writer non dipinge per soldi e preferisce che nessuno speculi
su quello che fa. Dipinge perché è così che si esprime in questo
mondo. Perché è così che comunica con la sua città.
Il
writer non distrugge quello che ha intorno, lo arricchisce, rendendolo
più umano, più vivibile. Nella ricerca di un affinamento delle
proprie capacità e di un proprio stile, il writer si muove nella
notte, sfidando se stesso, esprimendosi tra le infinite possibilità
dell’alfanumerico e delle sfumature cromatiche. Il writing
è un linguaggio visuale che con la manipolazione delle lettere
va aldilà dello scrivere il proprio nome. Dagli anni settanta
in poi, sono numerosi i tentativi di “strappare” il writing dalla
strada, marchiandolo come atto vandalico.
Ancora
oggi l’incontro/scontro tra la realtà underground e il mainstream
genera confusione nell’approccio a questa forma d’arte, soprattutto
da parte dei più giovani. Molti writers si sono lasciati sedurre
dal mondo mediatico, abbandonando la strada e incominciando a
produrre pezzi su tela, e molti si riferiscono a questa “corrente”
come ad un’evoluzione del fenomeno. Ma la dedizione, l’organizzazione,
l’eccitazione, l’amore per quello in cui credi che avverti mentre
stai per dipingere un muro in piena notte, attento che nessuno
ti veda, non potranno mai essere comprese e riprodotte in un ambiente
diverso da un binario, un muro o un deposito treni.
I
writers si ribellano, in modo consapevole o istintivo, alla strategia
di controllo che il sistema applica sulla nostra vita. Siamo vittime
di una macchina che gioca con la nostra mente per creare bisogni
di acquisto artificiali.
Cancellare
un pezzo da un muro equivale a zittire una voce che si alza contro
il silenzio creativo imposto da un sistema che con pappe precotte
vendute in tv crede di poter saziare il bisogno di libera espressione
che alberga nell’animo umano fin dall’età della pietra.
Il
writing è cibo per la mente, una produzione d’arte scomoda, libera
e gratuita, censurata dalle autorità perché contiene in sé i semi
di un’alternativa sociale, politica ed economica che spaventa
i potenti del mondo.
Quando
dipingo un muro, sfuggo al sistema che vorrebbe soffocarmi in
mezzo a prodotti inutili, provoco un cortocircuito nei meccanismi
che mi opprimono. Una piccola azione che nasconde stimoli per
ragionamenti più ampi e complessi. E come tutti i piccoli gesti,
inutili solo in apparenza, puó provocare grossi cambiamenti.
Per
me la rivoluzione comincia dalla strada, e dalla maniera in cui
vediamo e percepiamo ciò che ci circonda.
Per
queste ragioni e per mille altri motivi la pirateria artistica
urbana, ovvero la produzione di opere d’arte grafica su muri scrostati,
mezzi pubblici, treni, autobus e qualunque altro genere di superficie
adatto ad essere riconvertito in una tavolozza, è una forma d’arte
contemporanea che va incoraggiata, premiata, stimolata e valorizzata.
Il grigiore delle città, abbinato all’invasione pubblicitaria
delle nostre strade, è gravemente dannoso per il benessere della
nostra mente. I graffiti, i murales, le scritte sui muri, i tag,
e tutte le altre opere d’arte metropolitana sono dei benefici
anticorpi che stimolano pensieri colorati e idee positive in alternativa
al grigio caotico delle città che spinge verso la depressione,
l’isolamento e l’apatia.